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Sara


Mi sono sempre celata dietro una maschera, chi mi stava vicino non ha mai visto il mio vero volto, vedeva solo la maschera dietro cui c’era Sara.


 

Sono Sara, ho 20 e sono a Villa Miralago da due anni e mezzo. Non so dire quando è iniziata la malattia, so solo che ero molto piccola.

Io non ricordo una Sara senza la malattia.

Mi sono sviluppata presto, a otto anni, pubertà precoce, ero alle elementari e questa cosa mi ha creato molto disagio, perché mi sentivo diversa dalle mie compagne di scuola.

Fondamentalmente ero una bambina nel corpo di una donna, venivo vista per il mio corpo e non per Sara, me lo facevano anche notare, e io questa cosa non riuscivo a tollerarla. Anche in famiglia mi è capitato di sentire che questo corpo da donna doveva essere più coperto.

Da piccola mi sono sentita molto giudicata, ma il giudizio più pesante nei miei confronti è stato il mio, non mi sentivo all’altezza di quella che ritenevo fosse l’aspettativa degli altri.

Volevo solo essere una bambina, ma allo stesso tempo avendo una famiglia allargata con fratelli e una sorella molto più grandi ho sempre tentato di entrare nei loro discorsi per essere al loro pari. Perciò non mi sono mai permessa di essere bambina, sostanzialmente non ho avuto un’infanzia. Del rapporto con i miei genitori da piccola, non ricordo molto perché dai sei mesi in poi, siccome i miei genitori lavoravano, mi hanno affidato ad un Tata e sono cresciuta con lei. Ricordo che la mattina la mamma mi accompagnava dalla Tata e mi veniva a riprendere la sera.

Ho frequentato la scuola materna dove viveva la Tata, poi la mamma mi disse che le scuole elementari le avrei frequentate nel mio paese e che mi sarei abituata. Questa cosa mi ha un po’ destabilizzata perché lì avevo il mio piccolo mondo.

Quindi non ho più visto la mia Tata ma ho avuto una babysitter, per me una figura molto diversa dalla mia Tata. Con gli anni ho scoperto che la mamma aveva chiesto alla babysitter di stare attenta alla mia alimentazione. Fin da piccola non potevo mangiare certe cose, suo nipote poteva mangiare quello che voleva mentre io ero costretta a mangiare solo la porzione che mi veniva data, perché causa la pubertà precoce ero una bambina-ragazza un po’ in carne.

Casa mia è sempre stata un porto di mare, i miei fratelli andavano e venivano e io un po’ di mal di mare in quella situazione lo sentivo perché era tutto un po’ caotico.

Quando sono nata, mia sorella che aveva 17/18 anni è rimasta incinta, mio fratello più grande ha deciso di partire perché forse un po’ mi odiava visto che io ero il centro, l’anello della catena che univa lamia famiglia. Mia mamma ha avuto da un rapporto precedente mio fratello Claudio, mentre da un precedente legame di papà sono nati mia sorella e un altro fratello, io sono l’unica in famiglia ad essere figlia di entrambi i genitori.

Ai miei genitori ho nascosto per molti anni la malattia, con mia mamma ho innalzato un muro e non so neppure il perché, non riuscivamo ad essere alleate. Ora questo muro si è trasformato in un vetro che fatico a rompere.

Mia madre aveva intuito i miei problemi, diceva a mio padre che sarei stata capace di farmi qualunque cosa ed è stata proprio lei a scoprire il mio autolesionismo.

Alle medie mi tagliavo perché provavo tanto dolore, odio e rabbia verso me stessa. Non mi sentivo a mio agio perché non sono mai riuscita ad essere autentica con la mia famiglia e con gli

amici.

Mi sono sempre celata dietro una maschera, chi mi stava vicino non ha mai visto il mio vero volto, vedeva solo la maschera dietro cui c’era Sara.





Non ho mai potuto essere me stessa, dovevo essere quella che loro desideravano che io fossi. Dico “non potevo” perché con mio padre, al contrario che con la mamma, avevo un legame molto forte, lui era molto protettivo, cercava di aiutarmi ma, in realtà, aveva un sacco di paure. Lui mi diceva “tu sei libera di fare quello che vuoi “ma se facevo qualcosa che era il contrario di ciò che si aspettava si arrabbiava tantissimo, avevo paura e dicevo a me stessa “lui dice le cose giuste, sono io che sono sbagliata”.

Col tempo in famiglia il clima si è fatto più teso, mio padre si arrabbiava e io non capivo. Vedevo mia madre che stava male: non aveva amor proprio, non aveva hobby, non avevano più amici. Erano sempre loro due, sempre in conflitto e tra loro non c’era amore. Faticavo anche a sentire il loro amore per me, probabilmente per via di quel muro.

All’inizio della malattia, quando ancora era un segreto mi sono sentita molto sola, avevo solo questo sintomo che mi tenevo stretto. Ho cominciato casualmente col vomito in 1^ media, quando sono stata male di stomaco, dopo aver vomitato mi sono sentita così libera che ho pensato “wow la voglio provare di nuovo questa sensazione”, così ho iniziato ad indurmi il vomito e da lì non ho più smesso.

Leggendo in Internet le conseguenze di questo comportamento, ho deciso di smettere ma non ci sono riuscita, c’era continuamente il bisogno di controllo sul corpo. Ero sempre sulle montagne russe, il peso scendeva, saliva e scendeva di nuovo, ma mai fino al punto da far insospettire i miei genitori.

Poi sono arrivata al limite e lì si sono accorti che c’era qualcosa che non andava. Io inventavo ogni tipo di scusa. Sono stata vegetariana per tanti anni quindi non volevo mangiare questo o quello, desideravo seguire il mio regime alimentare. Ricordo che la mia prima dieta dimagrante è stata quella che seguivano mia mamma e mia sorella, senza carboidrati, avevo 10 anni e ho deciso che anch’io dovevo dimagrire.

Non ho mai accettato il mio corpo. La bellezza è una cosa che senti nell’anima, il punto è dare la possibilità di far crescere questo bocciolo che può diventare un fiore bellissimo, ma può essere odiato sino al punto di voler strappare le sue radici.

Mi ha aiutata molto la scrittura, io non ho mai parlato a nessuno del mio dolore e scrivere era un mezzo per tirar fuori quello che provavo. Ho un po’ di problemi di memoria, non riesco a ricordare tutti i momenti che ho vissuto. Con la scrittura invece riesco a descrivere chi sono e cosa sento e fissare i ricordi, è lo strumento che mi consente di esprimermi meglio. Fin da bambina ho tenuto un diario e scrivo ogni giorno anche oggi.

Ho patito molto la solitudine alle superiori perché al pomeriggio ero a casa da sola, sono arrivata a non voler più andare a scuola, inventavo malesseri, dicevo che necessitavo di un ospedale, e tutto questo inventare si è trasformato in sentire.

A casa da sola potevo fare ciò che volevo. Stilavo la lista della spesa, giravo i negozietti del paese, per non mostrarmi troppe volte nello stesso e dovermi quindi giustificare, controllavo attentamente i prezzi, e poi spendevo un sacco di soldi in cibo. Poi mi abbuffavo e vomitavo per il timore di aumentare di peso e per i sensi di colpa.

Io e mio padre dopo un litigio abbiamo smesso di parlarci, lì mi sono detta “adesso posso fare quello che voglio” perché lui non mi rivolgeva la parola nemmeno per rimproverarmi. Mi sentivo intoccabile, padrona assoluta della mia vita, libera di scegliere se vivere o morire. E’ stato tutto una discesa, mangiavo e vomitavo di continuo.

Non mi rendevo conto che ci fosse veramente la possibilità di morire, neppure durante il ricovero in ospedale; vedevo ragazze anche più magre di me e quindi non mi ritenevo in pericolo di vita.

Adesso che sto qui da due anni, mi sento distaccata dalla realtà ed ho paura del mondo fuori. So che prima o poi dovrò tornare, e ne sono spaventata, perché non sono stata capace di coltivare i rapporti fuori, sia quelli con la famiglia che quelli con gli amici. Ho provato in tutti i modi a studiare, ma non riesco. Sento di non aver concluso niente. Il mio mondo adesso è questo, non riesco a vedermi fuori di qui, mi sembra che per me non ci sia posto.

Sto vivendo una brutta ricaduta, vorrei davvero sentire dentro di me la spinta a fare qualcosa, provare dei desideri, avere dei piccoli obiettivi. Non scatta niente e non so se credo ancora in quel click di cui sento spesso parlare.

Sara è ancora piccola, non è cresciuta, si sente persa e sola e non sa cosa fare. Penso che sia rimasta ferma lì.

Quando sono in crisi, sento di esserci, dentro di me c’è una forza che spinge, grida per uscire perché non ce la fa più, ma io la trattengo.

La malattia io non l’ho mai vista come una nemica da combattere, ma una cosa utile, da accogliere. Bisogna arrivare al punto di non avere più necessità di lei, trovare la forza di lasciarla andare e cominciare a camminare con le proprie gambe.

Nell’abbraccio sentito tra due persone c’è una connessione fortissima, tanta energia, puoi trovarci protezione ma puoi anche donare tanto. In questo momento vorrei abbracciare la mia famiglia e recuperare il rapporto con loro e con gli amici.





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Eleonora

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