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Alessandro Grillo


"Io empatizzo molto con la posizione del giovane e dell’adolescente avendo anch’io alle spalle non da moltissimi anni l’adolescenza - poi bisognerebbe chiedersi se si cessa di essere adolescente una volta per tutte: io penso di no."

 

Sono Alessandro Grillo psicologo clinico, attualmente sto collaborando con Villa Miralago come membro dell’equipe “Primavera”, che accoglie i minori in questa struttura.

Raccontarsi è piuttosto complesso, anche perché la mia esperienza qui è ancora abbastanza recente, ho cominciato la mia collaborazione da gennaio e quindi sono in una fase di osservazione, di sguardo. Lavorare con i disturbi alimentari significa lavorare molto con i legami, si accolgono persone che portano il sintomo e sicuramente si lavora sulla scia di quel sintomo. Ci sono varie figure, si lavora in equipe e quello che a mio avviso fa lo psicologo è di dare un senso sia a queste figure, sia alle relazioni che tra loro intercorrono, sia alla relazione che la persona che arriva qui può creare con il luogo e con queste figure. Spesso mi è capitato di imbattermi in un vuoto totale quando si tratta di poter parlare del perché e di come si è arrivati qua, e di tutto quello che riguarda il relazionarsi con l’Altro.

Esiste solo il disturbo alimentare, i sintomi, esistono i sistemi più pratici per prendersi cura di questo disturbo per cui molto spesso anche con la figura del nutrizionista si entra subito in contatto nella modalità dello scontro o quella dell’incontro: di fatto è una figura che dà delle regole e cominciare un percorso qui significa molto spesso attenersi a quelle regole. Lavorando molto con gli adolescenti, spesso nella prima fase della relazione con questo luogo si osserva una reazione di ribellione o di lamentela verso queste regole, i ragazzi vanno in crisi. Però è anche una fase di cui le persone hanno veramente bisogno quando arrivano qui, da lì poi bisogna saper mettere in discussione questi aspetti e poter lavorare su delle scelte di responsabilità, per far sì che le regole smettano di essere centrali e subentri sempre di più una posizione del Soggetto responsabile di scelta, responsabile del suo percorso di cura e quindi anche delle stesse scelte che può fare, del dialogo con gli altri, delle relazioni che costruirà con le altre persone che sono qui. Questi sono tutti gli elementi di quello che è il lavoro qui dentro.



È quello che io mi sento portato a fare nei colloqui, mettere in discussione questi aspetti. Ovviamente bisogna fare i conti con una questione transferale, che in alcune situazioni può diventare molto faticosa perché poi pian piano riemerge quello che è il vissuto e la posizione in cui la persona che arriva qui si colloca nel suo universo di relazioni anche a casa.

Come dice la mia collega neuropsichiatra con cui lavoro in equipe, noi partiamo da una moltitudine di questioni legate al sintomo, al disturbo alimentare, alle regole, agli aspetti educativi, ma poi andiamo sempre a finire “a imbuto” nella stessa direzione, lavorando in particolare con gli adolescenti: il problema con i genitori.

Arriviamo lì e dobbiamo interrogarci poi su come lavorare con questa questione perché ci sono due livelli. Da un lato c’è il lavoro che la persona può fare qui rispetto a cosa farsene dei propri legami, di quello che è passato come fatica e difficoltà, come poter significare tutta una serie di questioni, come poterle prima di tutto vedere, riconoscere. Con alcune delle pazienti con cui mi è capitato di lavorare è stato davvero molto gratificante perché io lavoro con gli adolescenti e fondamentalmente sono io stesso un adolescente, una parte di me non vorrebbe mai crescere del tutto, mi piace così e mi sento molto vicino al punto di vista che loro hanno quando spesso si trovano con le spalle al muro o chiusi in quell’imbuto. La questione però è che loro qui quando la riconoscono si chiedono giustamente se anche “l’Altro” che è fuori e che magari li ha mandati in struttura (il familiare o il professionista dei servizi) è capace di mettersi al lavoro, di fare anche lui dei passi. Se riuscirà a comprendere o se “Riuscirà a comprendermi”, questa è la domanda con cui abbiamo più a che fare all’inizio. Con alcune persone sono riuscito ad arrivare ad un passo ulteriore, e cioè se “l’Altro riuscirà a mettersi a sua volta in discussione?, Cosa significa per me tornare a casa? Ricadrò nel disturbo alimentare? E cosa significherà eventualmente ricadere nel disturbo alimentare?”

La possibilità o capacità di cambiamento dei genitori è un tema molto ampio. Le storie familiari sono molto varie, molto diverse: alcuni nuclei familiari più facilmente si mettono al lavoro, capiscono che il fatto che la figlia o il figlio si trovi qui significa essere in qualche modo implicati nella cura, perché la cura è la Cura del Legame, non del soggetto isolato. Anche in quei frangenti poi c’è un lavoro da fare; in alcuni casi è un servizio esterno che li segue, c’è un lavoro di rete, i genitori sono disponibili. In altri casi abbiamo fatto anche noi dei colloqui, ma è una questione in via di definizione perché effettivamente da qui noi non possiamo fare un lavoro clinico con i genitori. La nostra funzione ha anche dei limiti e forse li dobbiamo anche riconoscere. In questo periodo siamo nel mezzo di una riflessione su questo tema, su cosa può significare lavorare con la persona che arriva qui, prendersene cura ma poi tenere insieme anche gli elementi esterni.

A volte mi chiedo cosa risponderebbe un genitore alla domanda se è riuscito a guarire dal disturbo del figlio, vedere la reazione che potrebbero avere nel momento in cui qualcuno dovesse far notare che anche loro debbono guarire da qualcosa.

Per l’esperienza che ho fatto sino ad ora sento di dire che forse è proprio qui che vale la pena lavorare e investire, sul legame, sulla relazione. Un legame che non è dato una volta per tutte, non è statico ma qualcosa che può vedere le persone al lavoro su entrambi i fronti, dall’una e dall’altra parte della relazione. Il potersi dire “siamo al lavoro, ci possiamo reciprocamente mettere in discussione”, sono convinto che possa servire ad arginare anche queste paure, queste preoccupazioni, a qualsiasi possibile ricaduta, perché nel momento in cui la relazione e il dialogo si possono sostituire a ciò che in altre situazioni invece non può essere detto diventa allora possibile in qualche modo raccontarsi, aprirsi.

Noi siamo giunti all’idea che sia importante gestire questo già al momento dell’invio. I ragazzi che arrivano qui vengono inviati sicuramente da servizi del territorio, se l’invio viene fatto in un certo modo poi c’è il rischio che non sia più possibile creare un ponte con l’esterno e anche con gli stessi genitori. Se al momento dell’invio si può discutere realmente qual è la natura della situazione e creare una presa in carico comune che trasmetta al nucleo familiare che c’è una rete, c’è un legame anche dal lato dei curanti, questo aiuta.



Il tema riguardante i CPS o il personale sanitario esterno è molto importante. Molti pazienti raccontano di questa assenza di supporto e di risposte valide da parte dei servizi territoriali. Ma la domanda è cosa significa occuparsi di un disturbo alimentare, è realmente solo differente dall’occuparsi di qualsiasi altra questione di salute mentale, oppure è possibile stare in ascolto di qualcosa a prescindere dalla propria esperienza riguardo al disturbo alimentare.

Riguardo all’instaurare un rapporto di fiducia col paziente, non posso dare una risposta generale dipende da chi si incontra, dalla persona con cui si ha a che fare e da quello che c’è alle spalle. Ad esempio con la mia collega psicoterapeuta della stessa equipe ci siamo accorti come a volte anche la stessa differenza di genere possa creare degli scenari differenti con i pazienti che incontriamo, magari una paziente incontrando una figura maschile riporta un determinato transfert per cui si crea qualcosa che è molto legato a quella che è stata la sua esperienza in ambito familiare; ma potrebbe accadere anche il contrario e quindi esserci l’impossibilità di portare alla luce o di parlare di determinate cose proprio perché la figura è maschile o viceversa. Facendo un lavoro di gruppo terapeutico in cui noi lavoriamo in coppia notiamo degli aspetti differenti quando lavoriamo insieme, oppure quando uno dei due è assente. Il punto di forza del lavorare qui è l’equipe: non ci si ferma alla relazione individuale uno a uno durante i colloqui, e chi si rivolge a questo luogo sente questo scorrere dei legami tra i vari professionisti implicati nella cura, sente che viene accolto da più persone che comunicano tra loro. La reazione è molto imprevedibile, può essere che in un primo momento ci sia un’apertura veloce per poi arenarsi, o viceversa che attraverso il “non poter dire” si dica comunque tanto.

Io empatizzo molto con la posizione del giovane e dell’adolescente avendo anch’io alle spalle non da moltissimi anni l’adolescenza - poi bisognerebbe chiedersi se si cessa di essere adolescente una volta per tutte: io penso di no.

È chiaro che desidero mettere in gioco anche quella che è stata la mia esperienza per poter ascoltare quello che arriva. A volte non vorrei avventarmi più di tanto con quella che è stata o è la mia questione nel dare una lettura o voler che qualcun altro veda qualcosa: talvolta rispettare il tempo dell’Altro, anche di questi ragazzi e ragazze è qualcosa di complesso. La sofferenza è spesso molto visibile nel sintomo, nei momenti delle crisi, però potendo guardare al di là di questa sofferenza è fondamentale ricordarsi sempre le persone che ci sono dietro, che la portano e cosa dicono con essa. Nel momento in cui lo sguardo riesce a posarsi sulle persone nel mio caso su questi giovani adolescenti e si possono riscontrare tutti i punti comuni dell’inizio dell’adolescenza, allora matura un desiderio che è molto gratificante in alcuni momenti e frustrato in altri.

I momenti di frustrazione (questa è una cosa molto soggettiva e personale) credo siano quelli in cui non si è in grado di dimostrare ad una persona quanto possa essere allettante l’idea che il suo tempo sia valorizzato, che le sue scelte possono essere fatte da lei, che c’è qualcosa in realtà da potersi inventare, da creare, il piacere di poter riempire questo vuoto (sentito anche nei legami) con una propria scelta ed un proprio desiderio ed entusiasmo. Laddove non si riesce ad andare oltre alla ripetitività e alla schematicità spesso legata al sintomo, viene fuori questo desiderio di poter dire “ma tu queste risorse le hai” perché nei momenti di scambio, nonostante tu spesso venga qui convinto di scambiare qualcosa circa il tuo problema, mostri anche degli aspetti pieni di risorse. Fare i colloqui tutto sommato non è solo una fatica ma è anche un piacere, vengono fuori cose che arricchiscono sia il paziente che me.

Il tempo è qualcosa che ha molte dimensioni e molti punti di vista e dipende molto dallo sguardo e dal punto di vista con cui si osserva. Credo che il tempo abbia una sua logica, quando parlo di tempo parlo di tempo logico. Il tempo è delle persone: esiste oggettivamente come tempo cronologico ma esiste anche come soggettivo. Quello che può essere apparentemente il momento per qualcuno non lo è per qualcun altro e questo va rispettato; quello che è molto difficile spesso nella clinica è poter rispettare i tempi della persona che si ha di fronte, anche quando si è convinti di aver dato una lettura e di avere una chiave davanti agli occhi: la tentazione sarebbe quella di farla già passare all’Altro, ma poter attendere invece che sia proprio l’Altro ad arrivare a fare un aggancio di senso e a chiudere un passaggio significa poter riconoscere il suo tempo. Il tempo qui è una cosa molto critica. Le persone arrivano qui con l’impossibilità spesso di prendersi del tempo, di vivere gli spazi vuoti: il tempo qui è completamente riempito, ci sono tabelle legate all’attività, a gruppi e ogni piccolo spazio vuoto rischia di essere angosciante. Però il tempo è anche quello della scelta, la scelta soggettiva e questo spaventa tanto le persone. Penso che in alcuni momenti ci spaventi tutti quanti.

Mi sto mettendo al lavoro proprio sulla questione del tempo, perché io qui dentro, più che in altri luoghi, ho sperimentato talvolta proprio un’urgenza di vedere la persona che riesce a mettersi al lavoro; mi ha dato la capacità di recuperare un po’ di umiltà e di senso del limite di quella che è la mia funzione, potendo accettare anche i piccoli passi e l’idea che un percorso qui possa finire su un piccolo passo, su un piccolo primo momento, magari semplicemente di sviluppo di una Domanda da parte della persona. Senza la pretesa di vedere un adolescente che esce da qua avendo già risolto tutte le sue questioni. Mi sto mettendo proprio al lavoro sull’idea di potermi dare io del tempo. E poi questo è un contesto istituzionale molto complesso che valorizza i legami e porta secondo me a sviluppare un’attenzione particolare nei confronti dei legami e a coltivare le relazioni con l’altro, a prestare attenzione rispetto ai CPS, con cui io ho avuto molto a che fare e una delle questioni che spesso emerge come ci sia un’equipe che poi non è un’equipe perché nei CPS e nei luoghi istituzionali pubblici c’è una serie di questioni che spesso rendono difficile mettersi al lavoro sulle relazioni e spesso c’è una frammentazione del lavoro, magari una frammentazione delle funzioni, che poi causano l’incapacità di dare risposte all’utente. Io qui ho sviluppato una propensione a dare molta attenzione all’Altro, chiunque esso sia, paziente o collega.




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