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Alyssa



Coi miei genitori abbiamo deciso che per comprendersi è necessario parlarsi, anche se la grande differenza di età complica un po’ le cose.


 

Mi chiamo Alyssa, ho 30 anni e soffro di anoressia nervosa. Ho deciso di raccontare la mia storia perché quella di cui soffro non è una malattia che si sceglie, e, se proprio una persona deve caderci, mi piacerebbe che potesse sentire che non è sola.

Io in realtà durante la malattia non ho avvertito la solitudine però mi sentivo incompresa, non riuscivo a capire se il problema ero io o era il mondo che era diventato strano.

Fondamentalmente nella malattia io ci stavo bene perché come mi hanno definito spesso,sono e sono stata un’anoressica anomala. Vivevo tutto, ogni minuto, sfruttavo ogni singola ora del giorno. Riposavo pochissimo la notte e tutto il resto della giornata era dedicata all’iperattività, alle uscite per divertirmi, per organizzare. Dovevo avere il controllo su qualsiasi cosa, più facevo e più stavo bene, era come ricevere una botta di energia.

A volte mi chiedo come ho potuto essere così attiva, continuando a restringere, a non mangiare. Ancora oggi non riesco a rispondere a questa domanda. In quel periodo mi recavo al lavoro a piedi o in bici, nonostante avessi già camminato molto all’alba; anche di notte camminavo, mi sembra di vedere un film se ci ripenso.

Alyssa dov’era? Hai presente Alice nel paese delle meraviglie? Ecco, in quel periodo io vedevo me stessa, piccola, in un labirinto al buio, sapevo che ero da qualche parte ma non riuscivo ad uscire. In quel momento io ero semplicemente la malattia che camminava.

Ero convintissima di avere tutto sotto controllo, solo adesso ho capito che invece era la malattia che controllava me. Nei primi anni ero consapevole della malattia e sceglievo di starci dentro nonostante i miei cari cercassero di aiutarmi ad uscirne. Per me non era il momento, mi andava bene così.

Ero un’unica cosa con la malattia e mi amavo proprio così solo ora mi rendo conto che non mi amavo affatto. Adesso sto cercando di amare Alyssa, ma non è facile perché spesso lei ritorna. Lei è forte, ma sto imparando ad essere più forte e a tenerla a bada.

Ho capito che per amarmi devo fare quello che piace a me e non a lei.

Però ognuno ha i suoi tempi, per giungere al successo, al traguardo, devo essere persuasa della mia decisione. Quando la vera Alyssa dirà sono stanca di tutto ciò, riuscirà ad abbandonare quel sintomo terribile.

Ora nel labirinto riesco ad intravedere Alyssa, ogni tanto vedo una piccola luce che mi indica la via giusta per continuare nel percorso. Adesso sarei disposta ad arrampicarmi pur di uscire dal labirinto in cui la malattia mi ha intrappolato.

Ho provato spesso ad interrogarmi per capire cosa mi ha portato in questa situazione, sicuramente hanno contribuito molti fattori, non saprei indicare quale sia stata la causa scatenante.

Soffro di anoressia da parecchi anni, la cosa è stata graduale. All’inizio facevo delle piccole restrizioni, mangiavo solo frutta a pranzo e quindi poteva sembrare una cosa normale, lavorando in fabbrica non si pranza con la carbonara, perché poi si torna sui macchinari. Poi mangiavo frutta perché era estate e quindi ci stava, riuscivo sempre a giustificare ogni cosa.

Successivamente ho iniziato a saltare un pranzo, una cena fino ad arrivare a pranzare o cenare una volta la settimana, massimo due quando andava bene.

Rinunciare al cibo mi faceva star male perché comunque a me piace sia mangiare che cucinare. Nei giorni in cui avevo stabilito di mangiare provavo una gioia immensa, sembrava che vivessi il resto della settimana aspettando quel momento. Un’attesa infinita aspettando il cibo, lo sognavo di notte, ci pensavo continuamente però non potevo concedermi questo piacere perché faceva ingrassare. La malattia mi imponeva di camminare, non potevo mangiare. Neppure ora riesco a spiegare la ragione di tutto questo.

Per me il primo lockdown è stato incredibilmente duro perché mi impediva di fare iperattività.

Scappavo nelle campagne, andavo dai miei amici che abitano nei paesi più lontani con l’alibi del gatto che era stato operato e aveva bisogno di un mangime specifico che si trovava, guarda caso, solo nei paesi dove vivevano i miei amici.

Ero diventata come Arsenio Lupin, mi inventavo di tutto pur di fare iperattività. Spesso sono stata fermata dai Carabinieri; io, senza farmi troppi problemi, mostravo la prescrizione del veterinario e loro non potevano dirmi nulla.

La malattia mi ha cambiata, mi ha incattivita. Ho allontanato tante persone perché le consideravo nemiche. La malattia distorceva la realtà,consideravo tutti bugiardi; anche le persone a me più care, come i miei familiari. Se loro tentavano di aiutarmi, di farmi mangiare, magari mia madre mi metteva nello zaino della frutta secca la giudicavo una bugiarda, desiderosa solo di farmi ingrassare.

In realtà l’unica bugiarda ero io, ho inventato un sacco di menzogne per saltare i pasti e per cattiveria. E’ bruttissima questa cosa, ma io dovevo in qualche modo far soffrire tutte le persone che mi volevano bene perché la malattia li vedeva come un ostacolo.

Un giorno la mia famiglia mi ha teso un’imboscata, mi hanno detto: “prima di uscire con le amiche stasera, passa da casa che ci sono anche le tue sorelle e ti abbiamo preso un regalo”,arrivata a casa trovo tutti lì, c’è pure il medico di base, volevano a tutti costi che io accettassi in quel momento di farmi ricoverare, che iniziassi a prendere sul serio la malattia. Ero così arrabbiata con loro, non ritenevo corretto il loro modo di operare, vedendoli ancor di più come nemici ho cercato di lanciarmi da una finestra e scappare. Mio padre mi ha afferrata da sotto le spalle per impedirmi di scavalcare il davanzale, io urlavo incurante che dalla strada mi sentissero: una scena da film.

La mia malattia è sempre stata caratterizzata dalla rabbia, era il sentimento predominante. Avrei spaccato ogni giorno qualcosa. Volevo urlare questa rabbia e spesso lo facevo, in campagna, senza motivo urlavo ma non riuscivo comunque a dare voce al dolore che avevo dentro.


Mi guardavo allo specchio e mi vedevo sempre più magra ma non mi creavo problemi, anche quando mi sono vista cadaverica, con le occhiaie, le ossa che sporgevano dal volto a me andava bene. Era una mia decisione, mi garbavano anche le mie foto.

Se si riesce ad ascoltare questa malattia e a guardarla con distacco si impara qualcosa. A me ha insegnato che cosa non voglio essere.

Io non sono una persona falsa, odio le bugie, preferisco di gran lunga la verità, non sono cattiva, mi fa male vedere le persone che soffrono, eppure la malattia mi faceva fare tutto l’opposto.

Ricordo perfettamente il momento preciso in cui ho deciso di curarmi, di chiedere aiuto. E’ accaduto mentre mi lavavo sotto la doccia, mi è caduta la spugna intanto che la passavo sulla schiena, la mia mano ha toccato il mio osso sacro; mi ha fatto schifo sentire quanto era sporgente. Mi sono guardata attentamente allo specchio, ho visto solo ossa e questo non mi è piaciuto.

Io sono arrivata davvero al limite, quando mi hanno ricoverata il mio BMI era allucinante, da mettersi le mani nei capelli, neanche la mia équipe sa spiegarsi come mai io sia finita in Camelia e non in Ginestra. Nel primo periodo mi nutrivano solo con i nutri drink, non potevo masticare nulla perché il cibo solido mi avrebbe fatto male. Il mio organismo era costituito solo da acqua, ero tutta liquidi.

Spesso, a casa, mi svegliavo con la tachicardia e pensavo “è arrivato il momento”, avevo paura che il mio cuore si fermasse all’istante. Anche la paura era inutile perché la malattia mi diceva “chissenefrega”. Quando il battito tornava ad un ritmo normale mi rimettevo a dormire e l’indomani riprendevo a camminare.

La vita è poter essere libera di fare ciò che desidero e non quello che mi impone la malattia; è non dover programmare la mia giornata sui passi da fare, sul controllo degli altri. Questa malattia ti costringe a rinchiuderti in una gabbia di cui tu sola hai la chiave e solo tu puoi decidere quando aprirla. Ora sto cercando di centrare la serratura, le misure le ho prese, mancano solo gli ultimi dettagli.

Non dirò mai che ho sprecato il mio tempo in quel periodo perché, anche se in modo distorto, ho vissuto tantissimo; non mi sono mai chiusa in casa, ho vissuto in un modo diverso, talvolta anche al limite. E’ stato un periodo strano, non ero veramente io, avevo distrutto completamente le mie emozioni che sto riscoprendo adesso qui.

La mia paura è di non riuscire a riemergere completamente, di non riuscire più a vivere come vuole Alyssa. Ci sono giorni in cui ci riesco e dei giorni in cui lei torna e mi chiedo “ma sarà sempre così?”o potrò tornare come quando ero bambina dove la mia unica preoccupazione era: oggi gioco nel campo di pannocchie o in mezzo al canalino?”

L’amore manca da tempo. Non sono mai stata una persona molto espansiva, nella mia famiglia non c’è l’abitudine a manifestare affetto, quindi sono cresciuta in questo modo.

Per me gli abbracci sono sempre stati momenti di imbarazzo, qui sto scoprendo che l’abbraccio è un modo per dire “andrà tutto bene”, “io ci sono”, “sono orgogliosa di te”,in un abbraccio sono rinchiuse tante cose. E’ molto bello, ora, cosa che non avrei mai fatto prima, mi viene voglia di chiedere un abbraccio, e non me ne vergogno.

In questo momento riuscirei anche ad abbracciare Alyssa perché ho davvero tanta voglia di abbracciarmi.

Durante la malattia avevo distrutto tutto, anche l’affetto per le mie sorelle. Per loro darei la vita, mi sono fatta tatuare anche le loro iniziali, allora però restavo indifferente nei confronti di quello che mi dicevano, e alle loro lacrime.

Adoro gli animali, mi vergogno ad ammettere che ero indifferente anche nei confronti del mio cane e del mio gatto, che sono sempre stati parte della famiglia. Avevo smesso di coccolarli, entravo in casa e li ignoravo completamente e per me questa cosa è assurda. Dimenticare che esistessero o dimenticare di dare loro l’acqua fresca per me è gravissimo.

So che la vita è là fuori, non temo di uscire ed affrontarla, mi spiacerà lasciare la comunità, però ho tanti progetti da realizzare. Non voglio sprecare il mio tempo, voglio ritrovare i sogni che avevo ucciso.

Prima in realtà avevo l’illusione di vivere, ma vivacchiavo e purtroppo mi davo parecchio all’alcol, credevo che quella fosse vita. Uscire, bere alcol, uscire, bere alcol, sbarellarsi e ricominciare il giorno dopo, una vita intensa ma completamente vuota. Uscivo ogni sera con gli amici per non restare in casa sola con i miei fantasmi, se capitava che non riuscissi ad organizzare una serata andavo al bar da sola o bevevo a casa.

Era solo una vita a metà, adesso voglio una vita intera e vera. Un “casa” dove tornare e stare bene, uscire e stare bene con me stessa, vivere tutte le esperienze che mi sono preclusa per molti anni.

Il rispetto per sé stessi è fondamentale, nel momento in cui rispetto me stessa riesco a rispettare chi c’è intorno a me. Prima era diverso, comportandomi male con me stessa mi comportavo malissimo anche con gli altri.

Ho portato qui il mio album da disegno perché ho sempre adorato disegnare ma, durante la malattia ho smesso. Non riuscivo a disegnare nulla, perché la malattia non me ne dava il tempo, dovevo solo camminare, leggevo mentre camminavo. Per anni non sono più riuscita a prendere in mano una matita o a dipingere. Solo ora, lentamente e con fatica, sto ricominciando ed è bellissimo,quando disegno raggiungo la pace dei sensi.

L’arte è un linguaggio non verbale che mi consente di raccontarmi, è fondamentale come lo è l’amicizia che considero più importante dell’amore, perché quando si ha una persona su cui contare si ha tutto.

Nonostante il rapporto con i miei genitori sia un po’ particolare, vorrei prima o poi riuscire a dire loro “Vi voglio bene”, e vorrei che anche loro lo riuscissero a dirmi“ti vogliamo bene”, perché nella mia famiglia non accade mai. Anche un forte abbraccio da parte loro mi aiuterebbe molto, rappresenterebbe una svolta nel nostro rapporto, il superamento del muro che abbiamo costruito insieme, difficilissimo da abbattere perché richiede lo sforzo di tutti.

Coi miei genitori abbiamo deciso che per comprendersi è necessario parlarsi, anche se la grande differenza di età complica un po’ le cose.





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Eleonora

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