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Angela Molinari

Aggiornamento: 21 giu 2021




Mi chiamo Angela Molinari e sono un’antropologa medica, mi sono avvicinata al mondo dei DCA i occasione di una ricerca per il Dottorato di ricerca in antropologia culturale e sociale nel 2015. Ultimata la ricerca e conseguito il dottorato il Direttore sanitario di Villa Miralago mi chiese di sostenere, gestire, insomma di occuparmi delle iniziative dedicate ai genitori e familiari degli ospiti ricoverati per Disturbi del comportamento Alimentare.

Diciamo che l’incontro col Dott. Mendolicchio è stato estremamente sorprendente perché da un lato io l’ho conosciuto quando lui aveva appena iniziato a dirigere la struttura come Direttore Sanitario e contemporaneamente, forse per un fattore semplicemente di affinità personale, si è subito instaurato un rapporto di curiosità e di reciproca stima.

Devo dire che quando lui mi ha fatto questa proposta, sono rimasta abbastanza colpita, perché mai mi sarei immaginata in quel luogo. Diciamo che io ho un interesse soprattutto di tipo scientifico per cui non avrei mai pensato di trovarmi a condurre questi incontri. Io sono un’ insegnante, probabilmente la capacità di imbastire delle relazioni è rimasta evidente e si è espressa subito, ma devo dire che all’inizio ero abbastanza sorpresa, colpita e forse nemmeno del tutta convinta.

Dico questo perché di fatto anche il dott. Mendolicchio era all’inizio del suo percorso e aveva il grande desiderio di coinvolgere i genitori e le famiglie.

Di fatto la comunità è riservata alla cura dei pazienti e, data la gravità del problema così come si presenta quando si richiede il ricovero in comunità, la separazione dal contesto familiare è considerata non solo legittima ma anche auspicabile.

Contemporaneamente però evidentemente vi era la necessità di trovare una via tale da poter istituire una sorta di ponte tra la comunità dei pazienti, la comunità dei curanti e la comunità dei familiari ed ha pensato a me come figura non esplicitamente terapeutica.

Credo che questo sia un aspetto essenziale da cogliere per sottolineare il mio ingresso in questa esperienza, lui cercava una figura che non avesse una professionalità formata squisitamente nell’ambito della psicoterapia, e questo devo dire che a posteriori ha fatto la differenza rispetto a un gruppo che è veramente caratterizzato dalla orizzontalità.

E’ vero io ho un ruolo, perché passo la parola, rilancio delle questioni, a volte provoco la discussione, accolgo chi arriva,perché la fisionomia del gruppo è molto composita. Però io non sono direttiva, non do consigli, non ho una funzione per cui dall’alto la mia autorità incombe su di loro, che tra l’altro sono persone estremamente sofferenti, per cui farebbero qualsiasi cosa per essere guidate in una direzione precisa.

Io non ho questo compito, non me lo darei comunque, non credo in questo modo di aiutare i genitori, credo invece moltissimo nella possibilità che loro si confrontino, si sollevino dal peso della solitudine e della colpa, che comunque su di loro grava in maniera molto massiccia, cercando di favorire tra loro una grande solidarietà.

Nel corso degli anni, ormai è il quinto anno, c’è stato un enorme cambiamento in seguito al Covid 19, che paradossalmente in questo caso è stato un elemento che ha favorito un processo di cambiamento in positivo, è sorprendente ma è così. Io ovviamente facevo un gruppo di sostegno al mese in presenza coi genitori a Villa Miralago a cui affluivano molti genitori che magari approfittavano dell’occasione del fine settimana per venire a trovare i loro figli e contemporaneamente potevano partecipare agli incontri.

E’ chiaro però che arrivando da tutt’Italia, essendo Villa Miralago oggettivamente non proprio comoda da raggiungere, il gruppo era molto fluttuante anche rispetto alla continuità della presenza.

Con il Covid c’è stata un’interruzione forzata degli incontri, poi si è pensato ad una ripresa in modalità online, che si è rivelata una piacevole sorpresa ed anche l’Associazione “ilfilolilla” è cresciuta. Mi ritengo molto orgogliosa di questa Associazione che di fatto è nata dai nostri gruppi a partire dal desiderio di alcuni genitori di fare un passaggio che non è frequente , ma in alcuni è molto vivo, cioè il passaggio da genitori con in famiglia una difficoltà così grave a protagonisti del lavoro con i genitori.

Per molti di loro, investire tutto il bagaglio di sofferenza ma anche di arricchimento che l’esperienza dell’attraversamento che questa patologia comporta, è diventato un desiderio, proprio nel senso psicanalitico del termine, cioè qualche cosa che spinge verso gli altri e verso la diffusione della loro esperienza sulla base di una convinzione che nasce dalla testimonianza.

Di fatto nei gruppi di sostegno non facciamo altro che articolare questo filo lilla di testimoni che partono da un timori differenti tra loro. Nell’associazione ci sono i genitori che io chiamo “esperti” come Cinzia, Michela e gli altri membri del Direttivo che hanno figli che sono usciti da un po’ dalla comunità terapeutica e che tuttavia non si sentono “arrivati” ma si sentono più quieti, direi più pacificati rispetto alla turbolenza delle emozioni che, quest’esperienza drammatica produce nella maggior parte dei familiari. Questi familiari fanno da traino perché la loro esperienza è sentita come molto solidale, non è l’esperienza di chi ti dice, “ah ci sono passato con il tono di chi la sa lunga”. Nessuno di loro ha questo atteggiamento, sono invece molto accoglienti e molto disponibili, anche laddove ad esempio io mi tiro fuori, perché il mio è comunque un ruolo che mantiene una distanza, che ha comunque bisogno di distinguere la dimensione amicale da ruolo di tipo diverso, e in questo modo trovo che funzioni benissimo.

Sicuramente anche per me il rapporto con alcuni di loro è diventato più intenso al punto da poter tranquillamente dire c’è una grande sintonia, una stima e una fiducia reciproca, per cui, anche dal punto di vista personale c’è un coinvolgimento che non è solo professionale.

Però il lavoro che faccio con loro è diverso da quello che fanno loro con loro come genitori che ogni tanto si incontrano anche informalmente e che organizzano questi progetti.

Recentemente vi c’è stato anche l’avvicendamento dei due Direttori Sanitari, per me è stato un passaggio difficile, ciò nonostante con il nuovo Direttore Sanitario si è subito instaurato un rapporto di grande collaborazione e stima e abbiamo deciso di incentivare gli incontri di sostegno per i genitori, per cui siamo passati da un incontro al mese a due.

Questo ha ulteriormente agganciato delle persone, permesso una grande continuità per cui i partecipanti sono veramente tanti. Il gruppo è molto fluido, molto aperto, non mi sarei mai aspettata che online funzionasse come vis a vis se non addirittura meglio, perché probabilmente la modalità online garantisce una facilità di accesso che sarebbe risultata piuttosto difficoltosa per coloro che risiedono in altre regioni.

Un ulteriore ragione è che probabilmente l’intimità domestica, il fatto di essere nel proprio ambiente, nel proprio luogo e non esposti alla presenza fisica degli altri permette un’esposizione di sé molto più autentica e qualche volta anche addirittura intima. Questo significa che il gruppo dà loro una sensazione di grande fiducia che io cerco di restituire tutte le volte.

L’ ultima volta una mamma credo che abbia fatto una delle osservazioni più belle che io abbia sentito, disse “questo gruppo emette molto calore” e, se noi pensiamo che l’online a volte fa tutto per essere esattamente il contrario vuol dire che al di là dell’uso da senso comune dei social questo gruppo invece mantiene e conserva un’intimità molto speciale.

Devo dire che considero questi genitori come delle persone non comuni, forse è anche questo che mi cattura.

Le reazioni dei figli con DCA sono variegate perché il legame che esiste tra ciascuna specifica situazione genitoriale e la patologia del figlio è a sé, ci sono dinamiche comuni ma se c’è qualcosa che noi portiamo come aspetto centrale è proprio il fatto che ogni situazione sia a sé.

Le tematiche comuni sono molti sentimenti che di fatto sono provocati dalla devastazione che all’interno di un contesto familiare questa patologia provoca, e me ne vengono in mente alcune: sicuramente ansia feroce, anzi angoscia che è diversa dall’ansia, perché l’ansia ti viene quando un figlio non mangia, l’angoscia ti viene quando sai che un figlio potrebbe morire di fame.

Morire di fame o vivere di fame per me sono la stessa cosa al di là della sintomatologia, uno non mangia o mangia tutto. E’ questo vivere di fame che per me li accomuna tutti quanti e per un genitore è un attacco frontale al senso d’essere del suo ruolo, perché il genitore è quello che dà la vita e la nutre.

Come antropologa io questo lo colgo in maniera molto sensibile. La famiglia in cui ci troviamo, è la famiglia che nel corso degli ultimi 50 anni ha fatto dei cambiamenti e degli stravolgimenti enormi proprio da un punto di vista socio-culturale, è diventata una famiglia affettiva, cioè una famiglia in cui il figlio diventa il perno della sintonia, della costruzione, del senso stesso della famiglia, e l’amore è il luogo principale della cura.

Anche pubblicamente ormai è entrata un po’ nell’idea che questi disturbi abbiano a che fare non con il cibo ma con l’amore. Tutto questo per i genitori diventa un attacco ancora più pesante, perché l’amore è quello che tu dovresti dare, ma loro hanno fame d’amore. A questo punto i genitori si trovano proprio senza alcun punto di riferimento e poi ovviamente un senso di colpa che secondo me è ancora peggio di quello che grava oggi sulla genitorialità. Oggi fare il genitore è diventato un mestiere, se tu non lo fai così come gli insegnanti, i professionisti, gli altri genitori, sei innegabilmente colpevolizzato, e questo è uno dei sentimenti più frequenti.

Credo che ci sia un legame autentico tra questo modo di dare e di ricevere l’amore da cui scaturisce il disturbo alimentare, per cui io non dico ai genitori “non c’entrate nulla”, quello che però dico loro e li invito a fare è il modo di capire il senso di questa esperienza per la loro storia.

Io credo molto nell’inconscio, per cui secondo me è molto più quello di cui uno non è consapevole e che accade in queste dinamiche, rispetto a quello che coscientemente può razionalizzare, ed è questo forse il passaggio più difficile per loro.

I genitori si dannano nel cercare di capire “ dove ho sbagliato, che cosa ho fatto, cosa avrei dovuto fare diversamente”, anche perché la nostra cultura non solo colpevolizza i genitori ma istintivamente va a cercarne la causa; ma non è che se il genitore fa questo o quell’altro allora provoca il disturbo alimentare.




L’altra faccia di questo passaggio lineare è l’onnipotenza, cioè il fatto che il genitore poi, alle volte si implica nella cura in una maniera oserei dire onnipotente nella misura in cui pensa, e questo l’altro lato della medaglia, che la cura dipenda da lui. Quindi si auto legittima ad un interventismo che poi di fatto produce dei disastri.

Io penso che queste sono patologie che mettono in scacco la medicina occidentale che non ha mai capito come si combinano la mente e il corpo, mettono in scacco la famiglia occidentale che è la famiglia affettiva che in questo dare l’amore a volte poi avviluppa i figli e fa fatica a lasciarli andare o cerca di farli diventare come sono loro..

Una società molto avida di esteriorità, di performance , che lascia poco spazio alle sfumature, alle ombre e al bianco e nero.

Quindi quello che noi cerchiamo di fare è accompagnare questi genitori e i loro figli in un percorso di alternativa.

I genitori riescono a guarire dalla malattia dei loro figli?

E’ la stessa identica domanda che possiamo fare per i nostri figli, si guarisce da un disturbo alimentare? Che cosa significa guarire, cosa significa esserne fuori? Io penso di sì, io penso che sia possibile.

I figli hanno un vantaggio sui genitori, hanno il sintomo. Il sintomo è una via inossidabile. Mentre i genitori sono nel panico, non sanno da che parte girarsi, da che parte cominciare, i figli hanno la strada spianata.

Da un certo punto di vista per i genitori è ancora peggio, perché tu vedi un figlio che è malato perché ha un disturbo ma non ha una diagnosi precisa, un decorso preciso e ti rendi conto che questo sta devastando la famiglia. Non è certo questa l’unica situazione o in cui un genitore, un familiare è coinvolto in un’esperienza di sofferenza, però qui c’è qualcosa di più, questa questione dell’amore e di come articolarla, di come gestirla e allora quando guarisci dal disturbo alimentare di tuo figlio?


Quando fai un lavoro su di te, ma non lo fai come genitore, lo fai come persona, lo fai come figlio, lo fai come donna, lo fai come mamma, lo fai come amica, cioè lo fai non perché tu devi diventare un genitore migliore, ma per quello che tu sei come soggetto della tua vita e quando riesci a superare il giudizio.








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Eleonora

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