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Anita


Volare è bellissimo perché ti rende libera, leggera; vedi tutto, puoi fare tutto, sei padrona di te stessa, delle tue scelte, è qualcosa che non ho mai provato e che ora sto sperimentando.


 

Sono Anita, ho 33 anni e vengo dalle Marche. Sono malata da circa 12/13 anni, ho avuto altri due ricoveri oltre a questo, uno a Todi quando ero arrivata a pesare 37 chili. Mi ricordo il momento in cui parlavo con mio padre piangendo e dicevo “babbo, io non ce la faccio più ho bisogno di aiuto” e lui mi ha risposto: “tranquilla, cerchiamo di aiutarti” e mi ha portata Todi.

A Palazzo Francisci sono stata tre mesi, quando sono stata dimessa stavo abbastanza bene però ho avuto difficoltà a trovare professionisti che mi seguissero nella continuazione del percorso. E’ andato tutto bene per circa un mese, poi sono ricaduta nella malattia proprio perché all’esterno della struttura non ho trovato alcun sostegno.

Ho passato degli anni terribili perché nonostante a Todi avessi acquistato peso, quando sono ricaduta nella malattia il mio peso calava sempre di più.

La mia malattia è un po’ particolare, io ho sempre fatto tanto sport perché mi piaceva ma col tempo la situazione mi è sfuggita di mano: non era più piacere per lo sport era diventata solo iperattività.

Passavo le ore in palestra e se capitava un giorno in cui non potevo andarci era un dramma, era diventata una necessità assoluta e questa cosa mi limitava molto.

La cosa peggiore era che, dopo aver fatto tanta attività, tornavo a casa e non mangiavo proprio niente. Non mi sono mai spiegata come facessi ad avere le forze per fare tutto ciò, ricordo che avevo sempre una grande energia dentro. Forse questa energia scaturiva da qualcosa che dovevo esprimere, che avevo bisogno di buttar fuori, qualcosa che sentivo dentro, da cui scaturiva tutta questa forza.

Era come se la malattia mi impedisse di esprimere con le parole quello che provavo e mi obbligasse a farlo attraverso lo sport. Ho sempre avuto difficoltà a dire quello pensavo alle persone, subivo, ingoiavo, ma ad un certo punto non ne potevo più e l’unico modo per esternare questo disagio era rinchiudermi in palestra oppure abbuffarmi per poi vomitare.

Inizialmente il tutto è partito con l’anoressia e poi sono arrivate le abbuffate con la compensazione. Con il vomito ti liberi dei sensi di colpa, del peso che non riesci a tenere dentro. L’unica cosa che mi dava piacere era il cibo, durante l’abbuffata provavo un piacere che non sentivo in nessun altro modo.

Non avevo amici, avevo la mia famiglia che ha provato a starmi vicino ma io vedevo la loro impotenza, c’erano momenti in cui non sapevano più cosa fare. Mi scontravo spesso con loro, soprattutto con mia madre, il nostro era diventato un rapporto assurdo, mamma spesso mi diceva che io non ero sua figlia in quei momenti.


In quei frangenti ero la malattia, non ero Anita.

Mamma spesso piangeva. Babbo secondo me non si rendeva realmente conto della malattia. Penso che i padri facciano più fatica a comprendere, tutte le cose che capitavano le viveva un po’ così, “sarà un momento … passerà”.

Mia sorella ha due anni più di me e, inizialmente sembrava non accettare la mia condizione, ma col passare degli anni è cambiata. E’ la persona che mi è stata più vicina di tutti, noi facciamo ogni cosa insieme, lei sa tutto di me e io di lei. Durante la malattia Elena ha assunto il ruolo di madre in un certo senso, perché con mamma non riuscivo ad avere un bel rapporto. A volte quando mi abbuffavo mamma si arrabbiava con me, allora mia sorella cercava di parlarle dicendo: “ non le rispondere male perché non è colpa sua, non ce la fa” e un po’ riusciva a mediare. Se non ci fosse stata mia sorella non so cosa sarebbe successo.

Dopo la prima ricaduta ho avuto un secondo ricovero a Brusson, ci sono andata ma senza convinzione, non avevo nessuna intenzione di guarire.

Questa volta invece l’ho deciso io, ora non sono più un tutt’uno con la malattia, adesso c’è Anita e c’è la malattia.

Devo dire che questa struttura mi è servita molto, mi ha insegnato ad aprirmi con gli altri, a dire quando c’è qualcosa che non mi sta bene. Mi ha fatto scoprire quel lato di me stessa che non avevo mai mostrato. Io avevo molti problemi di socializzazione, non riuscivo a legarmi alle persone, ero completamente sola, la mia unica amica era la malattia e questa cosa mi pesava molto; adesso, qui ho stretto delle amicizie.

Quando si soffre di questo disturbo si ha anche una dispercezione corporea: allo specchio ci si vede grasse anche quando si è magre; io questa sensazione non l’ho mai avuta. Ero malata, mi specchiavo, consapevole di essere magra, e dicevo “mi faccio schifo”; non volevo quel corpo, desideravo delle forme ma non riuscivo a raggiungere questo obbiettivo perché continuavo ad abbuffarmi ma poi eliminavo tutto con il vomito.

Qua dentro ho imparato anche ad amarmi un po’, nei ricoveri precedenti questa cosa non è mai scattata. Ho imparato che la bellezza non ha niente a vedere con il fisico, è una cosa che ognuno di noi ha dentro di sé, è difficile scoprirla, è difficile mostrarla agli altri perché temi che non venga apprezzata. Ma mi sono resa conto che alla fine ognuno di noi è unico.

Penso che ci siano stati diversi fattori che hanno contribuito a ridurmi così. Io ho sempre sofferto “l’esclusione” in un gruppo di amicizie, ero sempre l’ultima, non parlavo molto con gli altri e quando me lo facevano notare arrossivo, questa cosa mi provocava molto fastidio e molto dolore. Poi ho avuto una storia di cinque anni con un ragazzo morbosamente geloso, che a volte alzava anche le mani, mi capitava di andare a scuola con un occhio nero e di mentire dicendo che avevo sbattuto contro la porta, nascondevo i lividi e non riuscivo a dire basta perché avevo solo lui. Non avevo amicizie, dipendevo da lui e quindi spesso mi dicevo “allora sono io che sbaglio, queste botte me le merito” non riuscivo proprio a chiudere questa relazione perchè lui mi diceva “non lo faccio più” e io ci credevo.


Era geloso e io non ne capivo nemmeno la ragione, ricordo che una volta ha detto ad un suo amico “tu non devi guardare troppo la mia ragazza”, lui ha risposto “ figurati, non è che sia una gran bellezza” e il mio fidanzato non ha detto nulla per difendermi anzi, a volte mi umiliavi dicendomi che io non ero bella, che c’erano ragazze molto più belle di me. Era un amore malato il nostro.

La malattia mi aveva privato anche della libertà, non ero più io, mi imponeva di dire NO a mia sorella e alle amiche che mi invitavano ad uscire, mi vietava di avere una vita, di fare le cose che amavo fare. Al punto che anche ora non so più cosa mi piace fare realmente perchè tutto era stato inquinato dalla malattia. Tutto quello che facevo era in funzione della malattia e adesso ho delle difficoltà a capire “ma questa cosa mi piace realmente o è la malattia che me la fa piacere? ”, in comunità sto scoprendo degli interessi verso cose che non avevo mai considerato prima. Arrivi a un certo punto del percorso in cui hai proprio voglia di scoprirti, di vivere, di volare.

Volare è bellissimo perché ti rende libera, leggera; vedi tutto, puoi fare tutto, sei padrona di te stessa, delle tue scelte, è qualcosa che non ho mai provato e che ora sto sperimentando.

Vorrei dire a mia madre e a mia sorella che non sono più quella di prima, che ho un’identità, che ho bisogno di vivere la mia vita da sola, senza allontanarmi da loro, perché loro faranno sempre parte della mia vita. Ma ho la necessità di prendermi le mie responsabilità, avere una casa tutta mia, un lavoro diverso. Mamma ha passato a me e mia sorella un’attività di famiglia, una tabaccheria da gestire insieme, è bello, mi piace, ma vorrei un lavoro staccato dalla famiglia.

Io non ho avuto la classica mamma che ha buttato i suoi uccellini dal dirupo in modo che imparassero a volare da soli, questa cosa non l’ha mai fatta, lei ha sempre volato con noi, non ci ha mai lasciate volare da sole; questa cosa mi ha creato problemi, non gliene faccio assolutamente una colpa, però adesso voglio provare a volare da sola.

Mia sorella invece ha paura, lei non va via da casa proprio perché ha paura a lasciarmi da sola. E’ molto protettiva nei miei confronti, in un certo senso ha avuto con mo lo stesso atteggiamento di mamma. La mia malattia ha spaventato entrambe e riconosco che tutto questo è dettato dal grande amore che hanno per me, ma adesso è arrivato il momento di tagliare questo cordone ombelicale.

La vita è la fuori e volare da sola mi fa tanta paura, perché fare le cose da soli, costruirsi una vita in base ai propri desideri, alle proprie passioni mi spaventa, perché io ho sempre mandato avanti qualcuno al posto mio, non mi sono mai esposta in prima persona.

Adesso capisco che la protagonista della mia vita devo essere io.






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Eleonora

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