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Antonella


" Questa malattia mi ha insegnato a guardare la vita da una prospettiva diversa, a dare valore alle piccole cose, anche se devo ancora imparare molto e forse non riusciamo mai a capire veramente. Ti fermi e decidi di stravolgere la tua vita perché ti rendi conto che deve essere diversa, tuttora ci penso e mi rendo conto che c’è ancora qualcosa che deve essere cambiato, soprattutto per me "


 

Sono Antonella, la mamma di Sabrina che ha sofferto di anoressia nervosa. Per uscire da queste malattie ci vuole tempo e penso che comunque qualcosa rimanga. Questa è una malattia potente, io non pensavo che fosse così forte me ne sono resa conto a Niguarda quando ci spiegavano quello che succedeva nella testa di Sabrina, io non l’avrei mai immaginato. All’inizio quando mi sono accorta che qualcosa non andava mi arrabbiavo con lei, la offendevo, le dicevo che chi stava intorno a lei era cieco se non vedeva ciò che le stava succedendo e non glielo faceva notare. Invece le amiche facevano bene a non farglielo notare, ero io che stavo sbagliando perché le dicevo anche cose cattive: “ guarda come ti stai riducendo, non sei più tu, sei brutta”. Quando poi mi hanno spiegato la malattia mi sono resa conto che il mio non era il comportamento giusto, ho capito che dentro di lei c’era un’altra persona che le diceva di non ascoltarmi quando le dicevo di mangiare perché io volevo solo farla ingrassare, volevo rovinarle la vita, io ero il mostro. Fortunatamente ho avuto un grande aiuto da parte di alcune dottoresse e devo ammettere che anche Sabrina ce l’ha messa tutta, perché altre ragazze invece si sono lasciate andare fino a morire.

Sabrina è stata davvero forte:, inizialmente sembrava volesse arrendersi, poi ha tirato fuori tutta la sua volontà per combattere il mostro che c’era dentro di lei.

Il nostro rapporto era cambiato totalmente, io venivo trattata come uno straccio, mi cacciava dalla sua stanza, forse perché non riuscivo a dirle le cose giuste, le facevo notare tutte le cose che non andavano bene. In un secondo momento sono diventata troppo buona sbagliando nuovamente, qualsiasi cosa facessi non andava bene, ma allo stesso tempo lei mi cercava, dovevo continuamente starle accanto: passavo ore, serate in camera con lei. Le accarezzavo i piedi, le facevo le coccole, lei voleva questo. Poi improvvisamente mi diceva di andarmene e mi buttava fuori dalla camera.

Sono arrivata a vedere Sabrina che non mangiava più nulla, voleva distruggersi e stava distruggendo anche me. Mi stavo autodistruggendo perché non ero in grado di aiutarla e il tempo passava inesorabilmente.

All’inizio è stato devastante perché io la vedevo pian piano sparire: lei è sempre stata una bellissima ragazza ma si era trasformata e io non riconoscevo più e l’assurdo era che in tutto questo lei si vedeva bella così.

Forse abbiamo aspettato troppo tempo prima di cercare di recuperarla, ma mi sono resa conto che bene o male il percorso è così quasi per tutte; ho pensato che forse queste ragazze devono proprio toccare il fondo prima di poter risalire. Sabrina aveva raggiunto un peso di 36 chili, una magrezza spaventosa. Io ho avuto paura di perderla perché c’è stato un momento in cui lei non voleva farsi aiutare, io mi arrabbiai moltissimo perché non potevo lasciarla morire, dovevo fare qualcosa. L’ha aiutata molto sua sorella, perché quando io non riuscivo a gestire la situazione chiamavo mia figlia più grande e lei riusciva a dirle le cose giuste, è stata molto più brava di me. Forse perché lei è la sorella mentre io sono la mamma e le dinamiche sono differenti, comunque sia lei è riuscita ad aiutarla molto di più di quanto non fossi riuscita a farlo io.


Sabrina non voleva andare in ospedale ma la sorella è riuscita a convincerla che doveva uscire da questa situazione. Non ho mai capito bene se questa cosa loro ce l’hanno sempre avuta dentro, da quello che sono riuscita a capire questa cosa era già dentro di lei e poi è sopraggiunto qualcosa che ha scatenato il tutto.

Questa malattia distrugge tutto, soprattutto gli equilibri familiari: la nostra vita si era fermata. Noi eravamo abituati ad uscire anche con gli amici ma in quel periodo non si faceva più niente, in casa c’era sempre un clima negativo perché vedevamo nostra figlia in quelle condizioni e ci sentivamo morire, eravamo consapevoli che la stavamo perdendo.

Esiste anche un forte atteggiamento di giudizio nei confronti di queste malattie; ricordo che quando uscivamo insieme lei veniva osservata e questo mi faceva un male tremendo: in quei frangenti mi sono resa conto che forse questa cosa, prima, la facevo anch’io. Finchè non ci sei dentro non riesci a capire, sei bravo a giudicare senza sapere cosa sta succedendo in quella persona.

Sabrina all’inizio si isolava, rimaneva chiusa nella sua stanza e poi c’erano momenti in cui voleva scappare di casa. Quando ha iniziato il percorso invece è cambiata, ha ripreso il rapporto con me, io sono stata ricoverata un mese con lei a Niguarda, siamo state insieme e lei mi ha voluto accanto a sé. In quel momento non sapevo se era meglio che lei stesse da sola o se invece era preferibile che io le stessi vicino, ma la dottoressa ha deciso che dovevo rimanere con lei.

In quel periodo abbiamo avuto molti scontri, ma quando ha iniziato a tornare a casa per fare i day hospital abbiamo recuperato il nostro rapporto, si confidava di più e mi ha spiegato il suo malessere. Quando ha iniziato a prendere consapevolezza di essere malata ho capito che non era stata la mia Sabrina a parlarmi, era un’altra persona quella che mi diceva quelle brutte cose, quella che mi faceva piangere e mi faceva star male. Quando ha cominciato a star meglio chiedeva sempre di uscire, voleva sempre fare shopping e noi eravamo diventati i suoi schiavi pur di vederla star bene.

Questa malattia ha il controllo non solo su chi ne soffre ma anche su chi sta attorno; capitava la sera che mio marito tornasse tardi e stanco dal lavoro ma si doveva uscire per forza perché Sabrina voleva andare in quel determinato posto. Inizialmente non mi rendevo conto neppure di questo, da genitore quando tuo figlio sta male faresti qualsiasi cosa pur di vederlo star meglio, ma anche questo era sbagliato, me ne sono resa conto a Niguarda quando facevamo i gruppi con gli altri genitori. Io avrei dovuto essere come la dottoressa quando le diceva “ tu sei qui per guarire, se non vuoi farlo sei libera di andartene a casa”. Quando le diceva queste cose io stavo male invece quello era l’atteggiamento giusto, avrei dovuto essere anch’io più determinata, un po’ più dura. Era quello il comportamento corretto, quello che le faceva bene, invece io non ci riuscivo e così alimentavo la malattia. Poi pian piano in alcune cose ho imparato ad essere più rigida.

Questa malattia cambia loro ma cambia anche noi, ci dobbiamo reinventare. Non avrei mai immaginato di dover affrontare una cosa del genere e mi sono chiesta “perché è successo proprio a me?” Inizialmente senti una solitudine infinita, poi ti accorgi di quante persone sono nella tua stessa situazione e assieme a loro riesci a superare quel momento. Il confronto con gli altri ti da un grande supporto, ti aiuta.

All’inizio quando chiamavo in ospedale e raccontavo quello stava accadendo percepivo che la cosa non veniva presa in considerazione immediatamente, c’è voluto del tempo e ci siamo rivolti a tante strutture. Sabrina mi diceva che aveva bisogno di stare da sola, lontano da casa, voleva andare in una comunità specializzata in DCA. Io avevo provato a sentire qualche struttura ma non era stata accettata perché mi era stato detto che doveva essere l’ospedale a farne richiesta nel momento in cui ritenevano che ce ne fosse la necessità; e poi il pensiero di dovermi allontanare da mia figlia era devastante perché io volevo starle vicino, volevo viverla, non avrei voluto lasciarla sola.

Lei però sembrava contenta di questa cosa mentre io ero spaventata al pensiero di vederla rinchiusa in un posto dove c’era questo portone che si apriva solo in determinati momenti. Vivevo malissimo questa situazione, mi sono rivolta ad altri centri ma poi mi sono resa conto che il suo percorso doveva essere quello.

Spesso mi sono sentita sulle spalle un grande senso di colpa, ero certa di aver sbagliato qualcosa, di averla trascurata. A volte ci si fa travolgere da tantissime cose e ne trascuriamo altre più importanti, ed è sbagliato. Sovente pensiamo prima al lavoro, che naturalmente è importante e dimentichiamo tantissime altre cose che hanno la priorità. Quando sei mamma pensi al lavoro, alle faccende di casa e questo ti fa perdere di vista cose che poi non ritrovi più. Se la casa non brilla non è un problema, ma quando tua figlia cresce e hai perso quegli attimi non li puoi più rivivere e ti perdi la parte più bella.

Questa malattia mi ha insegnato a guardare la vita da una prospettiva diversa, a dare valore alle piccole cose, anche se devo ancora imparare molto e forse non riusciamo mai a capire veramente. Ti fermi e decidi di stravolgere la tua vita perché ti rendi conto che deve essere diversa, tuttora ci penso e mi rendo conto che c’è ancora qualcosa che deve essere cambiato, soprattutto per me.

Io pensavo di aver compreso questa malattia troppo tardi e di aver perso del tempo molto prezioso, mi facevo delle colpe. In ospedale mi hanno insegnato che colpe non ce ne dobbiamo dare e ho capito che quel tempo, apparentemente trascorso invano, era invece necessario.





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