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Arianna Ricciardello


"...Quando mi ritrovo a ridere con le pazienti ed iniziamo insieme a fantasticare sul futuro, confermo a me stessa che “questo è il mio posto..."


 

Sono Arianna Ricciardello, Neuropsichiatra Infantile e coordinatrice della comunità “Primavera” che prende in carico i minori. Ho iniziato a lavorare a Villa Miralago a Dicembre 2020, questa è stata la mia prima esperienza lavorativa dopo la specializzazione ed ha rappresentato un cambiamento di vita importante anche perché mi sono trasferita dalla Sicilia.

Ho scelto di lavorare con gli adolescenti perché questo mondo mi entusiasma, il loro modo di sentire ed intendere la vita è affascinante, spesso impetuoso e poco prevedibile. Credo che per fare questo lavoro sia importante avere la capacità, in parte anche innata, di entrare in sintonia con l’altro, relazionandoci attraverso canali di comunicazione che non possono essere solo quelli verbali.

Per entrare in relazione con gli adolescenti credo sia importante poter “scendere” al loro livello di sviluppo, sintonizzandoci con i loro bisogni e con il loro personalissimo modo di vedere le cose. Facendo questo lavoro mi sono accorta quanto sia importante fondare un’alleanza con i ragazzi, consentendogli di esprimere la loro sofferenza attraverso i sintomi e provando ad allearci anche con questi.

Osservo che, sempre più frequentemente, i ragazzi avvertono la frustrazione di non essersi potuti permettere abbastanza di essere tristi, sofferenti ed imperfetti. Non è detto che sia realmente così o che effettivamente i genitori non gliel’abbiano consentito, quello che conta è come loro hanno sentito di “poter essere”. Spesso, attraverso il sintomo alimentare, possono permettersi di raccontare “ho bisogno di dire la mia, ho bisogno che voi mi ascoltiate, mi vediate per quello che sono e non per quello che faccio, che mi consentiate anche di lamentarmi, di star male, di non essere all’ altezza, di essere scomodo”.


Credo sia altrettanto importante offrirgli l’opportunità di ribellarsi, non rispettare le regole, non accettare alcune condizioni, non dover interpretare determinati ruoli e/o indossare delle maschere per essere in qualche modo accettati. Penso che ciò possa aiutare nel consolidare un rapporto di fiducia, da cui si può partire per instaurare, con il tempo, una relazione che definirei “magica”: vedi il paziente non come un malato, ma come una persona che, ad un certo punto, inizia a concederti un piccolo spazio per accedere al suo mondo. Nel percorso di cura ci si incuriosisce vicendevolmente, scambiandosi pensieri, emozioni, paure e ad un certo punto, anche desideri.

Renderli consapevoli di un disturbo e, soprattutto, aiutarli a distinguere la malattia da sé stessi è estremamente difficile. Inizialmente penso, piuttosto, possa essere rischioso farlo perché hanno bisogno dei loro sintomi, questi gli forniscono un’identità, una certezza e spesso costituiscono un mezzo attraverso cui essere ascoltati e riconosciuti.

Quando l’altro può percepire tutto ciò, gradualmente, è possibile costruire insieme una realtà diversa; si può proporre un’alternativa, comprendendo e sentendo che possa esistere anche qualcos’ altro rispetto ai sintomi. Solitamente si procede attraverso una frequente alternanza di aperture e chiusure, speranza e disillusione, propositività e rimorsi ed in questa cornice proviamo a costruire una relazione terapeutica che credo si fondi, innanzitutto, sul fare sentire l’altro amato e meritevole di questo amore. Partire, invece, con l’idea di dover scardinare qualcosa, di cambiare qualcuno, facilita spesso l’innalzarsi di robuste barriere. Ritengo sia importante trasmettere al paziente di non voler stravolgere il suo mondo, ma piuttosto affiancarlo nella costruzione di qualcosa in cui sia lui a guidarci, rendendolo, passo dopo passo, protagonista e responsabile della sua storia.

Uno degli aspetti che sento essere più arduo nel mio lavoro lo riscontro, di sovente, anche nei nostri pazienti, ovvero “trovare una via di mezzo”. Spesso loro hanno difficoltà ad evitare gli eccessi, solitamente ragionano con una logica dicotomica del “tutto o nulla” - “subito o mai”. Con il nostro lavoro cerchiamo di favorire una mediazione. Proviamo a mediare tra il loro grande bisogno d’amore, richieste di attenzioni, spazi, parole, tempo e la frequente necessità di porre dei limiti, di dire “no” e promuovere un confine entro il quale si possano muovere sentendosi sicuri. Questa mediazione passa anche attraverso la possibilità di essere solidi, alle volte “duri” ed assertivi; mantenendo allo stesso tempo un’apertura, trasmettendo all’altro che esiste sempre la possibilità di ritrattare e trovare un compromesso, attraverso un confronto tra le parti che conduca alla costruzione di un significato condiviso nelle parole e nelle azioni.

All’interno dell’équipe riproponiamo, nel bene e nel male, le dinamiche familiari, naturalmente in una maniera diversa rispetto a quelle realmente vissute. Di fatto, i membri dell’équipe spesso rappresentano simbolicamente la mamma, il padre, la zia, la sorella o il cugino. All’interno di queste dinamiche simboliche e proiettive spesso si snoda il processo di cura; in questo scenario cerchiamo di veicolare modalità di attaccamento, comunicazione e relazione differenti.

Certamente è difficile non portarsi a casa una parte della profonda sofferenza vissuta da queste persone. Noi lavoriamo soprattutto attraverso le emozioni che vicendevolmente proviamo e credo che queste restino sempre un po' nella nostra “borsetta da lavoro”. Io sono ancora all’inizio della mia professione, giovane ed anche un po’ inesperta, quindi mi sento anch’io impegnata a trovare una “via di mezzo”che passi attraverso una sana mediazione e possibilità di preservare il mio spazio personale. Alcune volte riesco a farlo meglio, altre volte meno.

I vissuti dei nostri pazienti, in qualche modo, ci trascinano dentro e forse, se non lo consentissimo almeno in parte, diventerebbe difficile promuovere una cura. Sono dell’idea che sia importante entrare, in una certa misura, nella loro vita ed un pezzo di questa la devi tenere. Ciò rappresenta, per me, la “magia” della professione che ho scelto. Ho sempre desiderato di fare la psichiatra, invece l’idea di diventare una neuropsichiatria infantile si è consolidata nel tempo. Lavorando con i bambini e con gli adolescenti ho sentito si potesse coltivare maggiormente la possibilità di un cambiamento, dove la speranza spesso rappresenta il motore delle nostre scelte. Credo che chi decida di fare lo psichiatra o il neuropsichiatra infantile lo faccia anche perché, oltre a voler dare qualcosa di sé, probabilmente anche il bisogno ed il desiderio di ricevere qualcosa dall’altro.

Il nostro lavoro non è fatto solo di tecnica, ma passa costantemente attraverso i legami ed una forte reciprocità emotiva. Raramente si hanno certezze immutabili, non lavoriamo solo attraverso criteri razionali o mediante la logica del “giusto o sbagliato”; le linee-guida le costruiamo insieme e le “cuciamo” addosso con la persona.

Quando dimettiamo dei pazienti spesso mi sento di ringraziarli. Loro ci ringraziano, ma io ringrazio loro, provo ammirazione per quello che sono riusciti a dire, per come si sono messi in gioco, trasmettendoci emozioni ed osando un cambiamento. La capacità che, ad un certo punto, sviluppano nel porsi domande, sbagliare, voler bene, arrabbiarsi e ritornare sui loro passi, è stupefacente. Gli adolescenti sono in continuo fermento e spesso mi ritrovo a pensare quanto siano coraggiosi nel rinnovarsi ogni giorno.

Credo che, sia i pazienti che le loro famiglie, mettano in campo tanto coraggio nel confrontarsi con una malattia psichiatrica. Probabilmente finché i ragazzi non maturano una consapevolezza del loro disturbo, la maggiore frustrazione la vivono i genitori perché i loro figli inizialmente non vogliono farsi aiutare, non si mettono in gioco e non vogliono rinunciare a qualcosa. In questa fase, le famiglie, mostrano un coraggio estremo, sperimentando anche una profonda impotenza.

Molto spesso, anche noi operatori, ci confrontiamo con questa impotenza e frustrazione, ma nonostante ciò, ogni giorno, rinnovo la passione per il mio lavoro e scelgo quello che faccio. Quando mi ritrovo a ridere con le pazienti ed iniziamo insieme a fantasticare sul futuro, confermo a me stessa che “questo è il mio posto”.




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Eleonora

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