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Biagio Digrazia


" La creatività è un altro mood della mia vita, è grazie ad essa che riesco a fare questo lavoro e a fare qualsiasi cosa nella mia vita. La creatività è quella cosa che ti aiuta a volte a trovare le strategie per arrivare all’altro; è un linguaggio diverso, che non è prettamente legato alla parola ma a qualcosa che ha segni e simboli, a idee che in quel momento sembrano assurde ma vanno a costruire qualcosa che permette il superamento del problema."

 

Sono Biagio Digrazia educatore e responsabile dei laboratori artistici di libera espressione.

Sono a Villa Miralago dall'apertura, in precedenza ho lavorato in psichiatria ad alta protezione dove gli utenti erano esclusivamente uomini. Non conoscevo il mondo dei disturbi alimentari e non avevo idea della sintomatologia inoltre mi dovevo rapportare con ospiti differenti, ragazze e donne, un mondo tutto diverso, sapevo solo quello che conosceva la maggior parte delle persone : anoressia uguale a persona che non mangia, ed era anche l'idea generale che c'era sui disturbi alimentari alcuni anni fa, in questi 12 anni fortunatamente la conoscenza sui DCA grazie anche al lavoro che svolgiamo a Villa Miralago si è evoluta tantissimo.

Mi ha colpito molto la complessità del lavoro da fare assieme a queste ragazze, da subito ci ho messo tanta passione e tanto amore.

Credo che questo sia stato un filo conduttore che mi ha sempre accompagnato nel mio lavoro, fare le cose perché le sento, smuovere emozioni e trasmetterle all’altro.

Inizialmente il rapporto con gli ospiti doveva essere distaccato, poi c’è stata un’evoluzione nella visione comune, e si è passati al coinvolgimento emotivo che porta inevitabilmente ad un livello empatico alto, e che aiuta la persona che hai di fronte ad aprirsi. Io fortunatamente a livello empatico ho sempre avuto un ottimo scambio.


La sofferenza e il dolore che vivi e che ascolti ogni giorno non è vero che non te lo porti a casa, ognuno di noi ha delle strategie per non portarselo con sè totalmente, ma una piccola parte comunque rimane, la cosa importante è imparare ad elaborarlo, riflettere sul fatto che se ti lasci coinvolgere troppo dal dolore altrui poi hai difficoltà ad aiutare, perché passi da un aspetto empatico ad un aspetto amicale e l’aspetto amicale in questo lavoro spesso non aiuta, alimenta la sintomatologia.

In questo contesto ci sono diversi momenti complicati, quelli che io trovo veramente difficili sono quando cerco di trasmettere all’ospite che ho di fronte un mio pensiero, una mia linea, un modo per poterlo aiutare, che in quel momento non viene accolto, non attecchisce, perché l’ospite non è pronto, non viene recepito perchè in quel momento non esiste un legame. E’ molto importante la costruzione di un legame che permetta all’altro di mettersi in discussione. Continui a spiegare, a rispiegare, a cercare di trovare delle soluzioni, anche delle soluzioni creative per fare in modo che chi hai di fronte riesca a recepire quello che tu vuoi far passare.

Altri momenti complicati sono quando l’ospite abbandona il percorso, non c’è stata purtroppo la possibilità di costruire un legame, c’è il fuggire da quello che potrebbe essere un momento importante, che può aiutarlo ad uscire da una fase acuta da cui non riesce evidentemente ad uscire. I momenti più difficili sono quando si perdono gli ospiti, quando subentra la morte, lì cerchi di elaborare e capire se quello che hai fatto anche a livello di coscienza è stato il massimo che potevi fare, se avresti potuto fare di più o fare diversamente, se quello che hai fatto ha contato qualcosa oppure no. Sicuramente fa pensare tanto, le riflessioni sono infinite.

Ci sono anche tantissimi momenti meravigliosi, sono quelli che ti aiutano ad andare avanti e a proseguire nel tuo lavoro con entusiasmo. Succede quando gli ospiti entrano in grave stato ed escono consapevoli di essere cambiati in qualche modo, con degli obiettivi e l’intento di riprendere in mano la loro vita. Quando vengono dimessi leggi nei loro occhi il ringraziamento, lo manifestano anche con piccoli doni, ma soprattutto nella modalità con cui si rapportano con te, completamente diversa da quando sono entrati. Ci sono a volte ricoveri che durano un anno, un anno e mezzo, si crea un legame terapeutico, e si diviene un punto fondamentale della loro vita, da cui partono per ricominciare a pensare a loro stessi e riprendere a vivere. Trovo ciò meraviglioso, è la cosa che mi gratifica maggiormente ed io mi ritrovo spesso a dirglielo.

Baso il mio rapporto con gli ospiti sulla sincerità, anche quando attraversano un momento difficile e non sembrerebbe la cosa migliore, ma devono comprendere che si trovano di fronte a persone sincere. Quando stanno male dire “stai male”, quando stanno un po’ meglio dire che stanno meglio, bisogna sempre lavorare su questo.

La mancanza di consapevolezza nei confronti della malattia è un altro dei punti cardine su cui ci sarebbe molto da dire. La consapevolezza degli ospiti di essere malati, e di avere una patologia talmente complessa che necessita del lavoro di un’intera èquipe, la consapevolezza della famiglia, spesso impaurita, che ritiene che la guarigione sarebbe molto semplice, perché basterebbe mangiare. Quando vengono chiarite le problematiche collegate alla patologia, la famiglia diviene più consapevole, ed è possibile lavorare insieme. Questa è una tappa fondamentale, perché dopo il percorso di cura dell’ospite diviene meno complicato. L’appoggio della famiglia è fondamentale.

Spesso il genitore ha il timore di agire, non sa come comportarsi al momento del rientro a casa del figlio. Il consiglio che diamo è quello di comportarsi come si comportano generalmente tutti i genitori, ossia di essere consenzienti e concessivi, ma anche di saper dire NO quando necessario, senza farsi condizionare dalla malattia del figlio. Occorre comunque saper dare dei limiti.

Le pazienti sanno molto bene che i genitori in questo momento sono fragili e spaventati, per questa ragione è necessario uscire da quel circolo vizioso: dimostrare che non si è ricattabili significa poter dare loro un aiuto maggiore, perché l’atteggiamento tipico in questa malattia è vedere fin dove si possono spingere e fino quando dall’altra parte non c’è un NO loro continueranno a ricattare e ad andare in quella direzione.

Naturalmente per il genitore esiste tutto quell’aspetto affettivo per cui difficilmente riesce a staccarsi, a non essere coinvolto; poi subentra anche la paura di non sapere come arginare qualcosa che non è tangibile, la paura di perdere il figlio o la figlia. Una malattia come l’influenza è tangibile, perché si manifesta con la febbre oppure la tosse. Invece il disturbo alimentare ha talmente tante sfaccettature da non essere facilmente riconoscibile, e non è facile definire l’azione da mettere in atto per poter aiutare.

La creatività è un altro mood della mia vita, è grazie ad essa che riesco a fare questo lavoro e a fare qualsiasi cosa nella mia vita. La creatività è quella cosa che ti aiuta a volte a trovare le strategie per arrivare all’altro; è un linguaggio diverso, che non è prettamente legato alla parola ma a qualcosa che ha segni e simboli, a idee che in quel momento sembrano assurde ma vanno a costruire qualcosa che permette il superamento del problema. Anche all’interno dell’aspetto educativo essere creativi aiuta molto perché ti permette veramente di ascoltare l’altro e trovare la strategia da mettere in atto per provare a superare quel problema: cosa possiamo inventare?

Devo dire che molti degli ospiti che incontriamo qui hanno un aspetto creativo estremamente elevato, che talvolta è “assopito” o bloccato, esattamente come le emozioni e i sentimenti, ma quando poi torna a galla li aiuta veramente e agevola il percorso di cura.


Mi chiedi cos’è il Tempo. La mia famosa frase è “l’attesa è terapeutica”, perché secondo me ogni cosa ha bisogno di un tempo e di un momento, qualsiasi cosa si debba passare all’altro deve avere il tempo per sedimentare. Grazie al tempo puoi arrivare ad avere delle deduzioni, il non volere tutto e subito o il non avere una risposta immediata fa sì che si giunga a quei punti fondamentali che altrimenti non riusciremmo a vedere.

Questa malattia mi ha fatto capire qual è il male di questo tempo, in cui sembra di avere tutto ma in realtà si perdono quelli che sono i valori fondamentali. Quello che ho potuto capire dai ragazzi che ho seguito fino ad oggi è che spesso si cercano cose elaborate, ma loro desiderano solo la semplicità. Sicuramente questo contesto mi ha dato una seconda gioventù, perché lavorando con i giovani si rimane giovani e ho scoperto una modalità di interagire con loro che altrimenti non avrei mai scoperto lavorando in altri ambiti e questo mi piace molto, mi entusiasma. Sono molto contento di poter lavorare con ospiti di questa fascia d’età proprio per questa ragione, fanno emergere in me quell’aspetto paterno, affettivo e genitoriale che io non ho potuto avere e che quindi metto volentieri in gioco.

L’abbraccio terapeutico è una cosa legata alla creatività che io mi sono inventato quando ho iniziato a lavorare qui; ho capito che i ragazzi hanno bisogno anche di quell’aspetto affettivo, di quel contatto che loro non ricevono o non hanno ricevuto o hanno ricevuto troppo in maniera differente e quindi mi sono inventato questo abbraccio terapeutico, che ora per via del Covid purtroppo ho dovuto abbandonare. Noi ci vediamo in colloquio e anche se discutiamo o litighiamo, o se le risposte che loro ricevono non sono quelle che vorrebbero sentire ed entrano in confusione, noi al termine del colloquio facciamo quello che io chiamo abbraccio terapeutico: ma in realtà è l’abbraccio affettivo per far capire che io ci sono, sono qui e sono disponibile e raggiungibile quando ne hanno bisogno, che possono venire da me e che in definitiva è quello di cui loro hanno bisogno. Loro poi ti riconoscono in questo ruolo, come qualcuno che dà loro qualcosa senza chiedere nulla in cambio se non quello che secondo me è importante, cioè lavorare su qualsiasi tipo di strategia per uscire dallo stato in cui si trovano. Io chiedo di mettere in atto questa modalità: io ti do qualcosa e tu lavori su te stessa, io ti aiuto in quella direzione e tu ci metti l’energia per lavorare in quella direzione e ce lo diciamo schiettamente, ha funzionato o non ha funzionato, e loro questa schiettezza la rispettano e la rivedono anche come una schiettezza affettiva, sicuramente non qualcosa che li blocca o li ferma.




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Eleonora

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