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Celeste Isella


" Per noi professionisti è importante poter rielaborare ciò che più ci tocca per poter essere d’aiuto con una mente serena. Da un punto di vista umano, questo lavoro mi sta insegnando a dare valore ai momenti positivi, a goderne e non dare mai nulla per scontato "

 

Sono Celeste Isella, lavoro a Villa Miralago da gennaio 2020 e sono la psichiatra responsabile della comunità Gardenia.

Ho iniziato ad appassionarmi rispetto alla mente umana e alla psicologia ai tempi del liceo, grazie alle lezioni di una professoressa a sua volta molto interessata all’argomento. Dal canto mio sentivo anche una forte inclinazione verso il mondo della medicina e negli anni la scelta della psichiatria è stata chiara.

Non ho iniziato il mio percorso di studi con l’idea di lavorare sui disturbi alimentari ma, man mano che mi ci dedicavo, l’interesse è divenuto sempre più forte.

Durante l’adolescenza, a scuola, avevo visto diverse compagne soffrirne e, nonostante fossero in cura, le vedevo spesso alternare momenti di risalita a ricadute. Ricordo che me ne dispiacevo molto e in alcune occasioni mi arrabbiavo. Continuando a studiare mi sono resa conto che con la psichiatria avrei potuto dare un mio contributo, un pezzettino in un mare, ma pur sempre un pezzettino in più.

Questo lavoro è un lavoro articolato, in verità quanto lo possono essere tutte quelle realtà che hanno a che fare da vicino con le persone, con le loro emozioni e con le tante sfaccettature dell’animo umano. Sapere come sta un paziente e come starà è poco prevedibile, tante sono le variabili in gioco. Si tratta per lo più di condizioni a origine per buona parte interna, spesso non esiste materiale tangibile o che permetta di fare previsioni.

Davanti al dolore della malattia per molti la sensazione è di grande interrogativo. Ci si chiede come mai la sofferenza possa far arrivare a tanto e se sia realmente possibile uscirne. Questa sensazione di interrogativo genera anche in me un iniziale senso di impotenza ma allo stesso tempo anche una spinta di forza ben maggiore a comprendere e ad essere vicina in maniera costruttiva, cercando di cogliere cosa accade per ogni paziente e chiedendosi sempre cosa sia possibile fare insieme per comprendere ed affrontare questa sofferenza.

Intraprendere una relazione terapeutica è complicato perché si tratta di disturbi in cui, in molti casi, i pazienti non hanno consapevolezza, quantomeno nelle fasi iniziali, ma non solo. La fiducia è fondamentale ed ovviamente ottenerla non è affatto scontato. Una cosa che mi sono sentita dire spesso è : “Mi sento come se in me convivessero un angioletto e un diavoletto, la me buona e la me cattiva, la me sana e la me malata. Il più delle volte la me malata ha una voce tanto più forte rispetto alla me sana …” . Per qualcuno che sente di non potersi fidare nemmeno di se stesso è essenziale avere attorno una cornice, un luogo compatto dove poter trovare dei professionisti che insieme si impegnano e collaborano, hanno un pensiero e compiono azioni con il paziente e per il paziente: questo è il lavoro di equipe. L’equipe è una guida e crea coinvolgimento, permette che il lavoro insieme non venga percepito come un qualcosa da subire ma del quale essere parte attiva.

Il lavoro con i pazienti permette a ciascun membro dell’equipe di essere parte della loro quotidianità e porta ad attraversare con loro momenti belli e altri meno belli. Vivere dei momenti positivi insieme, ad esempio partecipare all’istante in cui una ragazza che non gioisce da anni e ha pensato alla morte si ritrova a sorridere, è un regalo. Quel sorriso ti riempie, ti gratifica. Quando mi chiedono quale sia una delle cose più gratificanti di questo lavoro la risposta più facile potrebbe essere: “una bella dimissione” oppure “un passo avanti in più”; la verità però è che i momenti davvero impagabili sono quelli in cui si condividono emozioni e, perché no, anche piccole vittorie insieme.

Un aspetto molto delicato, un tema purtroppo col quale ci si trova spesso a tu per tu è quello della morte e delle manifestazioni “contro” di sé. Basti pensare all’autolesionismo, ai pensieri di suicidio fino a veri e propri tentativi, ma anche i sintomi e i comportamenti alimentari stessi. Vedere qualcuno che pensa intensamente alla morte, si avvicina ad essa, talvolta la cerca crea un senso di impotenza, ci si chiede: e se accade? Pur facendo del proprio meglio quanto si può realmente distoglierne una vicinanza che può diventare ossessiva od onnipotente? Quello della morte è un tema che viene affrontato anche con le pazienti e che è bene non trascurare. Quello che spesso emerge e che colpisce è che per molte ragazze la morte di altre, non è un monito, talvolta diventa quasi un traguardo inarrivabile o qualcosa che si può avvicinare tenendolo a bada.

Per noi professionisti è importante poter rielaborare ciò che più ci tocca per poter essere d’aiuto con una mente serena. Da un punto di vista umano, questo lavoro mi sta insegnando a dare valore ai momenti positivi, a goderne e non dare mai nulla per scontato.


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