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Chiara De Santis


"Dietro il loro silenzio c’è il vuoto, una sofferenza indicibile; hanno udito tante parole che le hanno ferite, ascoltato giudizi a volte taglienti o affermazioni incomprensibili, urla e litigi che trasmettevano loro la sensazione di essere inadeguate, oppure ci sono parole non dette, perché anche il “non detto crea una parola”.


 

Sono Chiara De Santis, una psicologa, lavoro a Villa Miralago da pochi mesi, da novembre 2020. Quando sono arrivata sono stata assegnata prevalentemente ad un’ospite, una ragazza a cui dedicavo quasi tutte le mie ore. Venivo da una realtà completamente diversa: ho lavorato 12 anni in una comunità per le dipendenze. Qui svolgo un’attività psico educativa, un incrocio tra un lavoro psicologico ed educativo.

In comunità l’educatore affianca gli ospiti in tutte le attività quotidiane. Gestisce le attività educative di gruppo, effettua colloqui di supporto e sostegno, fornisce supporto in sala pasto ed anche nella gestione delle camere. Convive con l’ospite, tenendolo per mano.


Educare qui significa accompagnare, sostenere ed insegnare.


Credo che per un genitore sia difficile comprendere a fondo il nostro ruolo, cosa significa vivere la quotidianità, vivere insieme tutto il giorno e affrontare insieme la malattia.

Penso che il genitore fatichi anche a comprendere il significato della malattia. Accettare che il figlio o la figlia abbiano difficoltà che a volte dipendono proprio dal contesto familiare non è semplice.

Esiste una notevole differenza tra” fidarsi e “affidarsi”. Sembra, a volte, che le famiglie ci affidino i figli, come fossero pacchetti, sottintendendo:“guariscili, curali” rimandali a casa sani. Per avere fiducia bisogna invece riconoscere in primo luogo i propri limiti, che qualche mancanza c’è da parte della famiglia; ciò non significa che la famiglia sia inadeguata, ma che semplicemente qualcosa, nel processo educativo, non ha funzionato. Non è semplice riconoscere i propri limiti umani, capire che, per quanto in buona fede, non siamo stati in grado di vedere e affrontare per tempo alcune difficoltà dei nostri figli; perché, purtroppo, quando esiste un forte legame affettivo, diventa più difficile analizzare lucidamente certi processi. In questo caso una terza persona, che interviene, risulta indispensabile; riconoscere e accettare il ruolo di questa figura è sicuramente difficile ma fondamentale.


Creare un rapporto di fiducia col paziente è possibile ma è molto complesso. Dipende molto dalla storia personale del paziente, ci sono ragazzi che si fidano subito, a volte troppo. Capita di dover dire:“con calma, costruiamo un rapporto” perché il rapporto di fiducia non si instaura con un semplice schiocco delle dita, ma lo si costruisce insieme. Altri ragazzi invece edificano muraglie il cui abbattimento richiede un lunghissimo e difficile lavoro. Poco alla volta noi ci avviciniamo e cerchiamo di capire come sia possibile abbatterle.

Superare barriere non è semplice, spesso veniamo visti come la mamma, il papà, il fratello, la sorella. A volte ci troviamo nella condizione di dire loro “io non sono tua mamma, tuo papà, tuo fratello, cerchiamo di costruire un rapporto diverso”. Dopo che gli ospiti hanno compreso ciò, ripongono in noi la loro fiducia e diventiamo il loro principale punto di riferimento. Cercano la nostra approvazione, nel loro sguardo leggiamo domande quali:“ho fatto giusto? Ho sbagliato?

Esistono anche i NO. NO è la parola più difficile da pronunciare perché mina la loro fiducia, li riporta ai rifiuti, ai limiti imposti nel contesto familiare; occorre allora convincerli che alcuni limiti sono funzionali educativi e costruttivi, in certi casi salvifici.

Il mancato riconoscimento dei ruoli è distruttivo, genera mancanza di rispetto, la convinzione che tutto sia concesso: la mamma è come un’amica, con papà posso fare tutto quello che voglio; quando poi arriviamo noi ai dire NO, non puoi. Allora diventa faticoso riconoscere l’autorevolezza del genitore, dell’educatore, della stessa società.

Nella mia esperienza ho notato che il padre spesso indietreggia in presenza della figlia, incontra delle difficoltà a relazionarsi con la sua malattia:“cosa faccio? Come mi muovo?”Subentrano paura e smarrimento, il senso d’impotenza, interrogativi a cui non si trova risposta:”è impossibile che mia figlia sia malata”, “che sia capitato proprio alla mia famiglia”; si attivano meccanismi di difesa.

Succede anche che il genitore si vergogni di parlare della malattia del figlio e il figlio, che invece utilizza la malattia per attirare l’attenzione, interpreta questo atteggiamento come se il genitore si vergognasse di lui. Hanno un disperato bisogno d’affetto, chiedono amore, attenzione, presenza e i loro genitori si vergognano?......

E’ difficilissimo mantenere il giusto distacco dal dolore che questi ragazzi manifestano: quando provavano ad esternarlo a casa non ricevevano un riscontro, pertanto si allontanavano dai loro congiunti, innalzando una barriera. Qui ci affidano la loro sofferenza, spartiscono con noi la difficoltà di portare un fardello molto pesante, noi cerchiamo di alleggerire questo carico, di contenere la loro sofferenza senza gravarcene. Qualcosa però penetra anche in noi, è impossibile restare completamente distaccati.

La rinascita rappresenta la nostra e la loro più grande soddisfazione, il dono più bello che possiamo offrire loro è la possibilità di rivivere o di vivere perché, in alcuni casi, si tratta di vite non vissute. La rinascita significa conoscersi veramente, non più attraverso un velo che celava le reali sembianze, la loro essenza.

A volte dico: “cerchiamo di capire cosa ti piace veramente”, “cosa vorresti fare nel tuo tempo libero”, e quando rispondono: “non lo so” mi rendo conto che hanno velato le loro emozioni, i loro interessi e le loro passioni.

Mi piace la definizione“dispensatori di sogni”, calza bene a noi educatori, perché in effetti questi ragazzi, con la malattia, hanno perso tutti i sogni e le emozioni. Guido un gruppo dove si lavora sulle emozioni positive vissute nel corso della giornata e della settimana. A turno gli ospiti devono descrivere un episodio positivo vissuto, mi rendo conto che per loro è difficile trovare un momento positivo, anche semplice come potrebbe essere quello di guardare un film, leggere un libro insieme o un abbraccio.

Per loro un abbraccio è tutto. Per noi è quella piccola coccola che concediamo loro per aiutarli a tornare a credere che qualcuno possa volergli bene, che l’affetto esiste. A differenza di psichiatri e psicoterapeuti abbiamo il privilegio di poter dare un abbraccio.

La sessualità è un tema difficile da affrontare perché implica fare i conti con il proprio corpo, prendere contatto con esso, conoscerlo e capirlo. Per alcuni la sessualità è solo dare piacere all’altro, mi butto via pur di dare piacere a qualcuno così ho un valore. Il mio unico valore è quello di regalare il mio corpo all’altro. Non è facile comprendere la propria sessualità non conoscendo il proprio corpo. Poi c’è l’innamoramento facile, mi innamoro di tutti pur di avere qualcuno che mi vuole bene. Non capisco se è amore per il corpo o amore per la mente.

Il rapporto difficile con la sessualità deriva anche dalla difficoltà di trasformare il lato fanciullesco a favore di quello della donna consapevole che il corpo non si svende e non si usa solo per compiacere l’altro. Del corpo occorre avere cura, la sessualità deve considerare i propri sentimenti e le proprie emozioni.

Lavorare sull’aspetto femminile coinvolge anche la nostra femminilità, perché rappresentiamo per loro un esempio, ci osservano e, talvolta noi rappresentiamo le donne che loro vorrebbero essere. Ci mettiamo quindi in gioco, consapevoli che, col nostro esempio, forniremo degli spunti. Ai loro occhi incarniamo la femminilità reale, donne che lavorano, che vivono la quotidianità senza filtri e ritocchi.

Il momento più complicato del mio lavoro è quando mi trovo davanti ad un muro, quando la malattia diventa ingombrante perché invade quotidianamente i pensieri e la vita della persona. E’ complicato anche trovarsi di fronte ad una crisi acuta, che scatena irrequietezza e agitazione, occupa tutti i pensieri del paziente dando l’impressione che non ci sia uno spiraglio.

Il momento più gratificante è il sorriso sincero e spontaneo che ti fa pensare:“ce l’ho fatta, ci sono riuscita”. La gratificazione arriva anche semplicemente quando un’ospite che, fino ad un mese prima, sosteneva di non essere in grado di consumare un piatto di pasta e invece finalmente vuota il piatto e ti dice: “ ce l’ho fatta”. E’ un piccolo traguardo molto significativo per entrambi.

Con i ragazzi lavoro molto sulla “parola”. La parola è liberazione, ma per loro rappresenta un tabù. Faticano a verbalizzare sensazioni ed emozioni. Dietro il loro silenzio c’è il vuoto, una sofferenza indicibile; hanno udito tante parole che le hanno ferite, ascoltato giudizi a volte taglienti o affermazioni incomprensibili, urla e litigi che trasmettevano loro la sensazione di essere inadeguate, oppure ci sono parole non dette, perché anche il “non detto crea una parola”.

Io credo fermamente nel potere della parola, rieducare lentamente ma progressivamente alla verbalizzazione, continuando a parlare con loro,un po’ come si fa con i bambini “ti re-insegno a parlare”. Stiamo insieme durante la giornata, parliamo insieme, vedi che è possibile parlare? è possibile chiedere come stai? A volte ti sto vicino anche in silenzio però ci sono. La presenza silenziosa alimenta anche la parola, io ti sto vicino, seduta accanto a te, quando vorrai parlare sono qua e ci sono anche se taci.

Il momento più critico è quello del pasto, sui loro volti si legge angoscia, puro terrore: Il cibo ai loro occhi non rappresenta il nutrimento, una sorgente di vita ma qualcosa che distrugge, che impedisce il controllo del proprio corpo. Questa malattia impone un controllo rigido, rimuovere questo blocco è la parte più complessa del nostro compito. Solo costruendo con la persona un rapporto di fiducia si raggiunge un risultato.

In tante occasioni ci si sente dire:“io ho bisogno di controllare quello che faccio”, “ho bisogno di controllare le calorie che assumo, però so che è sbagliato”, è come se si trovassero in mezzo a due fuochi.

Penso che sotto un certo punto di vista siano più forti i ragazzi rispetto ai genitori, perché qui convivono quotidianamente e faticosamente con la malattia, indagano il loro malessere, lo elaborano con grande coraggio.

Sarebbe bello che i ragazzi riuscissero a vedere la loro bellezza attraverso i loro occhi, però cominciano a vederla attraverso i nostri. E’ molto importante il nostro sguardo, che non è uno sguardo giudicante ma amorevole, accogliente.

Questa malattia insegna a vivere le relazioni in modo diverso, in modo nuovo, insegna che è possibile condividere le emozioni, parlare di sé stessi senza barriere e accettare.

Durante il lockdown li ho visti soffrire perché non potevano avvicinarsi tra loro, e dovevano mantenere una certa distanza anche da noi, non poteva esserci contatto fisico. Era difficile per noi privarli di quello che necessitavano maggiormente, ripetere “non potete abbracciarvi” “tieni su bene la mascherina” “no, dovete stare distanti”; imporre il contrario di quello che suggeriamo in condizioni normali.

Molti di loro temono la relazione con l’altro, riuscire a vincere la loro paura e avvicinarsi a qualcuno è stata una tappa fondamentale del loro percorso e convincerli che le limitazioni non erano correlate al loro modo d’essere, ma erano dettate dal Covid; insomma non farli sentire inadeguati, è stato faticoso.

La porta degli abbracci mi è sembrata una soluzione bellissima. Era quasi un messaggio, “nonostante ci sia la malattia, il Covid, il lockdown, c’è sempre un modo per volersi bene”.

Questo lavoro arricchisce tantissimo perché nella vita si danno tante cose per scontate, e quando vedi che proprio nei piccoli gesti quotidiani c’è un mondo; rivaluti certi valori, certe relazioni. Rivaluti i sentimenti.

Chi non sperimenta la vita in comunità, non conosce queste malattie, non comprende che qui ci si arricchisce emozionalmente, si scoprono valori immensi, quello che conta realmente nella vita. A volte gli ospiti che sono un po’ più avanti nel percorso dicono “io non ho apprezzato le piccole cose che avevo qua, non ho apprezzato la passeggiata,una chiacchierata; non ho apprezzato stare con i miei genitori”, ci si rende conto di quante volte anche noi non riusciamo a gioire di queste piccole cose, travolti dal lavoro e dagli impegni.

Questa malattia ti insegna a fermarti, ascoltarti e ascoltare anche l’altro.

Penso che questo progetto sia assolutamente importante perché credo che il mondo dei disturbi alimentari sia ancora un po’ stigmatizzato, poco conosciuto. C’è disinformazione riguardo al sintomo e al suo trattamento, un buco nero che va colmato. Lo ritengo utile per la prevenzione e la sensibilizzazione, ma lo considero importante anche per i ragazzi e tutti coloro che ruotano attorno al disturbo alimentare.




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