Cinzia Fumagalli
- iononesistoblog
- 28 gen 2022
- Tempo di lettura: 6 min

" Questa malattia travolge e distorce tutto, mi sono resa conto che non riconoscevo più mia figlia. Ogni giorno ognuna di noi aggiungeva un mattone al quel muro di incomprensione e menzogna, di maschere e dolore. A volte provavo la sensazione di vederla attraverso un vetro senza poter sentire il suo calore, stava scivolando via come un dipinto che pian piano sbiadiva. Per una madre è innaturale pensare che un figlio se ne vada prima di lei "
Sono Cinzia, la mamma di Lucrezia che ha sofferto di anoressia e bulimia. Come la maggior parte delle persone conoscevo queste malattie superficialmente, ignoravo quel mondo che si cela dietro a tutto questo. Te ne rendi conto solo quando ti trovi in questo mare in tempesta su una barca senza vele e senza timone, mentre stai andando alla deriva con la consapevolezza che tu in quel mare non sai nuotare.
Lucrezia è stato il mio miracolo, io non potevo avere figli poi lei si è affacciata prepotentemente nella mia vita. Ricordo ancora quando andai sola a fare un’ecografia per capire se ci fossero nuovamente problemi, ricordo perfettamente l’incredulità di fronte a quello strano sfarfallio, non dimenticherò mai il momento in cui mi dissero che era semplicemente il battito del suo cuore: non era possibile, io ero sterile! Noi donne abbiamo il privilegio, in un determinato momento della nostra vita, di possedere due cuori: dare la vita è un’emozione indescrivibile ed è anche la ragione per cui ho faticato a comprendere la sua malattia e ad accettare la sua indifferenza nei confronti della morte.
Il legame con mia figlia è sempre stato forte e unico, sia perché è arrivata inaspettatamente sia perché poco dopo la sua nascita mi sono trovata a crescerla da sola. Ho avuto la presunzione di poter fare la mamma e il papà, ma non avevo scelta. Io sono cresciuta in una dimensione tutta al femminile e per me era normale prendere di petto la vita e le difficoltà. Lucrezia per me era tutto e questo “tutto” mi ha portato a commettere innumerevoli errori, l’eccesso di amore ti fa perdere di vista le tue responsabilità, e probabilmente ho nutrito la sua malattia.

Ho sempre cercato di proteggerla dai colpi bassi della vita e in tutto questo affannarmi non ho saputo proteggerla dalla vita stessa. Non sono stata in grado di mostrale le difficoltà che avrebbe potuto superare da sola, non ho saputo mostrarle le mie fragilità e le mie debolezze: dovevo sempre essere forte per lei, sempre presente ad aggiustare tutto, anche quello che non potevo aggiustare. Pensavo che fosse sufficiente darle la libertà, soprattutto quella di sbagliare, ma non mi ero resa conto che avrebbe dovuto essere lei a riparare ai suoi errori, non dovevo essere io, io avrei dovuto semplicemente starle accanto. Non ho avuto il coraggio di metterle tra le mani le sue responsabilità e quando la malattia è sopraggiunta mi ha presentato il conto dei miei errori. Le mie stupide convinzioni sono crollate ad una ad una, lasciando posto ai sensi di colpa e allo smarrimento. Cominci a vagare tra le macerie cercando di capire dove hai sbagliato, senza trovare risposte, provi unicamente frustrazione e impotenza e solo in quel momento ti rendi conto che non sei Dio. In quel preciso istante sei consapevole che devi consegnare a lei la sua vita, devi lasciare che sia lei a riordinarla e che il suo ordine non è il tuo. La paura di perderla ti paralizza, ti annienta, ma è un rischio che devi correre perché in quel momento sei disarmata. Ho dovuto guardarla in silenzio, sulla soglia, mentre toccava il fondo accanto alla sua nuova compagna di viaggio. Per un genitore è terribile osservare impotente la propria figlia che giorno dopo giorno va incontro alla morte con la stessa assurda leggerezza con cui vorresti che incontrasse la vita.
In alcuni casi quei canoni di bellezza, quegli stereotipi che ci vengono proposti possono influire sul disturbo alimentare, ma più frequentemente ci sono vuoti affettivi; nel caso di mia figlia è mancata una radice importante. La sua è stata più fame di riconoscimento, lei è stata cancellata ma in qualche modo aveva la necessità di essere visibile, di esistere, di uscire da quella invisibilità che non comprendeva. Una volta mi spiegò la bulimia in questi termini “sento dentro una voragine immensa di dolore che devo riempire, non ha alcuna importanza con che cosa. Ma quando il dolore del vuoto si placa subentra il senso di colpa che mi porta a vomitare e mentre vomito è come se vomitassi il dolore stesso, è come se vomitassi mio padre”.
Questa malattia travolge e distorce tutto, mi sono resa conto che non riconoscevo più mia figlia. Ogni giorno ognuna di noi aggiungeva un mattone al quel muro di incomprensione e menzogna, di maschere e dolore. A volte provavo la sensazione di vederla attraverso un vetro senza poter sentire il suo calore, stava scivolando via come un dipinto che pian piano sbiadiva. Per una madre è innaturale pensare che un figlio se ne vada prima di lei. Dopo la disperazione e lo sconforto assoluto ho deciso di accettare che non mi volesse più vedere, e pur di farla vivere l’ho costretta a chiedere aiuto a coloro che avevano gli strumenti per farlo.
In quel periodo il Tempo si è cristallizzato. Un Tempo in cui ho dovuto imparare a fermarmi, non ci ero abituata. Devo ammettere che la malattia di mia figlia è stata la cosa che mi ha scalfito più di ogni altra prova che ho dovuto superare nella vita, ma è stata anche quella da cui ho tratto i maggiori insegnamenti. Ho imparato a rallentare per godere della bellezza delle piccole cose e della semplicità. Ho capito che è necessario ammettere le proprie debolezze perché un genitore non è perfetto, può essere fragile e spaventato e dimostrandolo forse anche tua figlia riesce ad accettare le sue paure. Ho cambiato prospettiva, ho cominciato a guardare la vita nella sua totalità armoniosa. Ho riscoperto l’umiltà che avevo messo da parte perché dovevo essere sempre pronta a risolvere i problemi. Ho appreso ancora di più l’importanza della parola che accarezza ma che può ferire più di un pugnale. Ho imparato a fermarmi, a concedermi Tempo per rimettere in ordine i pensieri. Ho compreso che dovevo ricominciare ad amarmi un poco di più.

Purtroppo il pregiudizio nei confronti di queste malattie esiste, per quanto mi riguarda non ne ho sentito il peso. Da ragazza ero andata a vivere da sola molto giovane e all’epoca ero la “scappata di casa”; ho imparato a farmi scivolare addosso il giudizio degli altri perché ho sempre pensato che una persona deve essere sé stessa e questo è il messaggio che ho voluto trasmettere a mia figlia. Però esiste soprattutto l’ignoranza, quella stessa ignoranza che avevo io nei confronti della malattia e che inizialmente mi ha portato a sottovalutarla. Per alcuni esiste anche la vergogna di avere un figlio con problemi che riguardano la sfera mentale, perché questa fa ancora paura.
Penso che un ragazzo riesca a guarire dalla malattia nel momento in cui la riconosce come tale, quando cessa di considerarla come mezzo per raggiungere un obiettivo o ancor peggio quando si identifica in essa. Può guarire quando decide di chiedere aiuto per combatterla. Per un genitore è un po’ più complesso, è una cicatrice che si rimargina, ma resta la paura che la può far sanguinare di nuovo.
Ritengo che sia fondamentale far conoscere queste tematiche e sensibilizzare in ogni ambito, partendo da quello scolastico ma anche tra i medici, che spesso non hanno una preparazione adeguata, e negli ambienti sportivi dove sovente la performance è più importante dell’individuo.
Cosa direi ad un ragazzo che è prigioniero della malattia? Sono certa che non ascolterebbe una parola… Ma se decidesse di farlo gli direi di guardare oltre l’orizzonte perché c’è un’infinita bellezza oltre quella linea. Gli direi di provare di nuovo a credere nel valore dell’essere umano, nonostante le batoste e le delusioni e soprattutto di credere in sé stesso e di trovare il coraggio di guardare la bellezza che ha dentro. Alle persone che stanno intorno a lui…. Beh, direi più in generale a tutti, compresa me stessa e non solo nei confronti di questa malattia, di riscoprire un po’ di umanità e accettare quelle diversità che ci rendono migliori.
Cosa mi ha dato questo progetto? Io devo ringraziare ad una ad una tutte le persone che hanno deciso di partecipare perché per me è stato un arricchimento umano immenso. Ognuno di loro mi ha dato tantissimo ed ho avuto da loro le risposte a quelle domande che erano rimaste in sospeso. Ringrazio tutti anche per la fiducia che mi hanno concesso e che non era affatto scontata. Con questo progetto credo di aver dato, in parte, un senso alla malattia di mia figlia.

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