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Cristina Caldironi



"...Ancora oggi al di fuori della struttura incontro persone che mi dicono “tu lavori in una struttura per DCA, dove ci sono quelle ragazze che vogliono fare le modelle?” Ecco, c’è ancora pochissima conoscenza riguardo a queste malattie, perché la realtà non è questa, è tutt’altro..."

 

Sono Cristina Caldironi, Operatore Socio Sanitario, lavoro a Villa Miralago da 11 anni.

Ho fatto degli stage in ospedale ed anche in RSA, però ho sempre sognato di lavorare con i giovani e quando mi si è presentata questa opportunità ho accettato con grande piacere perché si stava realizzando il mio sogno.

Lavorare in una struttura per disturbi del comportamento alimentare per me era un’esperienza nuova, perciò all’inizio è stato tutto uno sperimentarsi. All’epoca eravamo di fronte ad ospiti che soffrivano di anoressia pura, ora invece la tipologia dei pazienti è un po’ cambiata, sembra che abbia seguito il cambiamento della società.

Non esistono più le famiglie tradizionali, e di questi cambiamenti chi ne risente maggiormente sono i figli. Forse sono tutte le problematiche che ruotano intono a queste nuove famiglie a poter sfociare poi nel disturbo alimentare.

Ho notato inoltre che sono aumentati i casi di autolesionismo, che nei primi tempi erano molto rari. Quando accade sembra che i ragazzi non provino dolore, cercano di farsi del male per soffocare un male più grande. Utilizzano questa modalità in un certo senso per punirsi, e in questa sorta di punizione il dolore diventa per assurdo quasi un piacere per loro. Sono episodi devastanti, che richiedono l’affiancamento del paziente, soprattutto quando ci sono tentativi di suicidio.

Io e le mie colleghe ci definiamo come una sorta di angeli custodi, cerchiamo di tutelare i pazienti, di contenerli, e questo non è assolutamente facile. In questi anni più volte ho pensato “mollo, perché non ce la faccio”.

Non è facile assistere a questa sofferenza: soprattutto i primi tempi mi portavo a casa queste emozioni, questo dolore. So che questo non è un atteggiamento corretto, però a mantenere il giusto distacco lo si impara gradualmente, con l’esperienza. Col passare degli anni si riesce, ma non sempre, a distinguere il lavoro dalla propria vita. Innanzitutto cerco di non affezionarmi troppo alle pazienti perché questo non va bene, ultimamente mi stavo affezionando ad una ragazza malata da molti anni perché avevo una grande fiducia in un suo possibile cambiamento, ho provato ad aiutarla per quanto mi competeva, ma alla fine ho gettato la spugna, rendendomi conto, con grande dispiacere, che non si poteva fare nulla per lei. In ogni caso, qualche frammento della loro sofferenza ce lo portiamo inevitabilmente addosso.

Penso che i ragazzi con questi problemi fatichino a fidarsi degli altri, spesso si riesce ad ottenere la loro fiducia solo dopo mesi che sono in struttura, quando riescono a capire che forse c’è qualcosa di autentico nelle persone che hanno intorno.


Spesso gli ospiti arrivano e subito vogliono già andarsene, oppure dopo poco tempo pensano di aver capito tutto, hanno la convinzione di essere guariti e la comunità inizia a diventare stretta, ma la realtà è ben diversa. Il lavoro da fare su di loro è tanto, ma purtroppo sono talmente immersi nella malattia che questa cosa non la percepiscono. Talvolta sono consapevoli di aver ancora bisogno di aiuto, affrontano una sorta di tiro alla fune con la malattia e spesso è quest’ultima ad avere la meglio.

Tutti gli ospiti sono diversi e con problemi differenti, non c’è mai nessuno uguale all’altro, ma molto spesso si confrontano tra loro, guardano se uno cammina tanto, se l’altro ha nascosto il cibo in sala pasto e spesso lo riferiscono agli operatori, non perché si sentono loro alleati, ma perché in quel momento pensano “lui ce l’ha fa e io non sono in grado di farlo, non ne sono capace, perché lei sì e io no? “

Iperattività ne fanno a iosa, anche chiusi in bagno, saltano e compiono ogni sorta di movimento pur di consumare energie, li troviamo nel corridoio o girano ripetutamente intorno alla struttura, sempre da soli. Noi li fermiamo, ma si fermano solo per un attimo, per poi riprendere dicendo:“non ce la faccio, non riesco”.

È capitato diverse volte a noi e agli educatori di rincorrere pazienti che scappano, cercare di fermarli, di contenerli, di farli ragionare. Li riportiamo in struttura e l’infermiere avvisa subito lo psichiatra ed è compito suo o dell’educatore avvisare la famiglia. I ragazzi tentano queste fughe spinti dalla paura, la paura che hanno dentro, quindi scavalcano e cercano di scappare.

In questi anni ho notato che, mentre i primi tempi non riuscivo a percepire realmente il loro dolore, ora riesco a comprenderlo meglio, perché proprio loro mi hanno spiegato questo disagio, questo malessere. Il loro dolore l’ho visto manifestarsi sotto varie forme, alcuni ragazzi cercano disperatamente il cibo nella spazzatura, entrano in dispensa, fanno buchi nella rete, oppure te li trovi in cucina. Anni fa avevamo una paziente che nel periodo delle castagne le raccoglieva e le mangiava crude. Queste cose, se non le vivi in prima persona, non riesci neppure ad immaginarle. Ancora oggi al di fuori della struttura incontro persone che mi dicono “tu lavori in una struttura per DCA, dove ci sono quelle ragazze che vogliono fare le modelle?” Ecco, c’è ancora pochissima conoscenza riguardo a queste malattie, perché la realtà non è questa, è tutt’altro.


I momenti più complicati del mio lavoro sono gli affiancamenti, che vengono fatti per contenere i ragazzi che si vogliono far del male. Il nostro lavoro non è semplice, lo devi sentire, devi essere predisposto, avere una buona capacità ad empatizzare. Io ho affiancato anche parecchie ragazze che volevano entrare qui a lavorare, ma su 15 persone soltanto una ha deciso di accettare questo lavoro, perché molte si spaventavano. Da un anno a questa parte mi capita di pensare che, dopo tanti anni, non ce la faccio più; però poi mi rimetto in gioco e capisco che ce la posso fare, che posso ancora dare qualcosa, posso ancora aiutare, e vado avanti.

Ogni giorno c’è qualcosa che ti gratifica; quando inizio il turno percepisco la dolcezza di questi ragazzi, vengono e ti abbracciano, spesso ti ringraziano, ti fanno i complimenti quando invece dovremmo essere noi a farli a loro e questa cosa mi gratifica tantissimo. Fanno aumentare anche la mia autostima, ed è anche per questo che non voglio lasciare questo lavoro, perché mi dà davvero tanto. Ultimamente questi momenti sono più sporadici perché le situazioni difficili vengono distribuite tra i colleghi in modo equilibrato. Per me ogni giorno che passa è un giorno donato e quando vedo i ragazzi e che mi regalano un sorriso e mi raccontano qualcosa di loro, riescono a fare un piccolo passo in avanti, provo una grande soddisfazione.

Il rapporto che si instaura tra noi e gli ospiti è differente ogni volta, perché ognuno di loro ha la propria personalità, con alcuni si riesce a costruire un bel rapporto, altri si chiudono nel loro guscio e si fa più fatica ad entrare in relazione con loro, a volte te lo impediscono proprio; noi non le sforziamo, le lasciamo tranquille. Poi, quando vedono che di te possono fidarsi, pian piano si lasciano andare.

Uno dei momenti più difficili è la presenza in sala pasto con gli educatori; le ospiti spesso mettono in atto dei veri e propri riti dinnanzi al cibo, oppure compiono certe azioni prima di iniziare a mangiare, hanno anche delle ossessioni, portano con sé degli oggetti nascosti, come portafortuna. A volte capita che qualcuno prima di andare in sala pasto debba assolutamente andare in bagno a compiere certi riti, io non mi meraviglio più di nulla perché ognuno di loro affronta le ansie della sala pasto a modo proprio. All’inizio queste cose vengono lasciate fare, poi interviene il terapeuta per correggere queste abitudini e vedo che col passare del tempo le abbandonano.

Nel caso della bulimia i ragazzi dopo il pasto hanno la fase di controllo, dalle 13 alle 15,30 e, alla sera, dalle 20 alle 21, in una saletta dove abbiamo un televisore, un terrazzo, dei divani e un bagno. Il controllo consiste nell’impedire loro di andare in bagno a vomitare, in caso di necessità le ragazze devono essere accompagnate da noi operatori e se vogliono vomitare avvisiamo gli infermieri che somministrano la terapia a loro assegnata. Durante il controllo c’è chi dorme, chi ascolta la musica con le cuffiette e chi guarda la televisione. Io sono una persona creativa a cui piace fare dei lavoretti e nei primi tempi mi portavo la mia cassettina con tutto il materiale, all’inizio molti ospiti sono entusiasti di fare queste cose, ma dopo due o tre giorni rinunciano perché sono troppo presi dalla loro malattia.


Ho portato questo lavoretto fatto prendendo spunto dalle giornate in cui, prima della pandemia, portavamo fuori le ragazze a fare shopping. In un negozio ho visto dei quadretti che costavano molto ed ho pensato” perché non farli con i ragazzi?” Abbiamo quindi creato questo angelo dei DCA con l’abito color lilla; a questo primo lavoretto ne sono seguiti altri, che potete vedere nella bacheca dove ognuno ha scritto una frase. Sono molto affezionata a questo quadretto perché mi piacerebbe che il momento del controllo dopo pasto non lo sentissero come un peso, dovrebbe passare velocemente, anche durante l’affiancamento io propongo delle attività manuali, ma loro spesso non se la sentono perché fanno molta fatica a staccarsi malattia. In quel caso in genere giocano a carte oppure fanno giochi di società.

Diversamente dagli altri Operatori Socio Sanitari, qui siamo di supporto agli educatori, cosa che mi piace molto. Questo lavoro in certi momenti ti dà tantissimo ma a volte è molto pesante, molti lo considerano un lavoro umile, ma io non la penso così: in un contesto come questo arricchisce tantissimo e le energie che si spendono qui dentro non sono spese male, perché possono aiutare questi ragazzi a riprendersi la loro vita fuori di qui.

È la prima volta che faccio un’intervista ed ho accettato con piacere perché voglio dare il mio piccolo contributo e raccontare la mia esperienza in questa struttura. Penso che questo progetto sia un’iniziativa bellissima.



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Eleonora

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