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Desirè Luppi



" Come donna e mamma queste patologie mi spaventano perché ho una bambina, mi sono immaginata nei panni di un genitore che vive una situazione di questo tipo, e mi sono chiesta cosa potrei provare se succedesse a me. Penso che sia devastante ciò che prova un genitore in questi frangenti "

 

Sono Desiré lavoro a Villa Miralago come Operatore Socio Sanitario da sette mesi. Ho iniziato il mio lavoro nella comunità grande e successivamente dopo aver fatto qualche turno di sostituzione nella comunità Ginestra, ho deciso di chiedere alla mia responsabile se poteva spostarmi in questa comunità che è quella più complessa, dove ci sono i casi più delicati.

Ho capito fin dall’inizio che questa comunità valorizzava maggiormente le mie attitudini, quello che era la mia persona. Lavorare in un contesto più familiare valorizza maggiormente le mie caratteristiche, e soddisfa anche il mio desiderio di dare maggiore attenzione alle persone che hanno più bisogno.

Fare l’operatore socio sanitario in questo contesto è completamente diverso dall’attività che si svolge presso un ospedale o una RSA. Qui si collabora con tutte le altre figure dell’équipe.

Noi siamo presenti anche durante i pasti, momenti particolari in cui le ragazze si trovano ad affrontare quello che considerano il loro nemico: il cibo; e si cerca di far funzionare le cose nel miglior modo possibile, creando un’atmosfera rilassata, in modo che le ragazze sentano meno la loro problematica. Spesso ho notato che quando una di loro entra in crisi anche le altre avvertono questa tensione e vanno in crisi a loro volta, e se l’ambiente non è rilassato si ingarbuglia tutto quanto e si entra nel panico totale.

Io non vivo in modo problematico le difficoltà delle ragazze, ho capito quali sono le loro difficoltà e considero il mio lavoro come fosse un aiuto per loro.

Quando sono entrata in questa struttura non conoscevo assolutamente i disturbi del comportamento alimentare. All’inizio mi sono posta un sacco di domande e mi sono documentata, ma per comprendere a fondo queste problematiche penso ci voglia ancora tempo, credo di non averle ancora capite totalmente, le sfumature più nascoste non le ho ancora comprese, ho ancora molti interrogativi.

Ho cercato anche di capire da che contesto familiare arrivavano le ragazze, per comprendere da dove scaturissero certe difficoltà.



Appena sono arrivata ho provato una serie di emozioni contrastanti: tanta tristezza, comprensione verso le ragazze e anche paura a volte. Quando sono stata trasferita in Ginestra ho vissuto un’esperienza che mi ha un po’ spaventata, ma poi condividendola coi colleghi sono riuscita a superarla, e ora, lentamente, sento che sto diventando più forte.

Come donna e mamma queste patologie mi spaventano perché ho una bambina, mi sono immaginata nei panni di un genitore che vive una situazione di questo tipo, e mi sono chiesta cosa potrei provare se succedesse a me. Adesso che sono in questo contesto e conosco un po’ più a fondo la malattia, mi spavento. Penso che sia devastante ciò che prova un genitore in questi frangenti.

Qui dentro il disagio, il dolore e la sofferenza le senti ogni giorno, ma se devo essere sincera solo una volta mi sono portata a casa non tanto il dolore, ma la tensione per cose che sono accadute. Generalmente ho la capacità di staccare, di separare le cose, se porto a casa qualcosa non è la sofferenza, ma un pensiero positivo, mai negativo nei confronti delle ragazze. Certo a casa mi capita di pensare a loro, a cosa stanno facendo o come stia andando la giornata, ma mai in senso negativo.

I momenti più complicati sono quando qualche ragazza ha dei pensieri brutti, e, al momento delle consegne capisci che ti aspetta una giornata difficile, che devi saper gestire con le altre colleghe.

A volte di fronte ad episodi di autolesionismo si prova un grande senso di impotenza, perché non ci si è accorti per tempo e quindi non è stato possibile impedire il gesto. Tante volte mi capita invece di pensare di aver fatto un progresso, assieme agli altri colleghi, e poi vedere che la situazione si ribalta, si va un po’ avanti, poi si torna indietro, poi magari si torna a fare due passi in avanti e a volte si torna indietro di dieci.

Non è un lavoro semplice, però se lo si fa con lo spirito giusto e per scelta, non pesa.

Ci sono anche momenti di grande gratificazione, a volte prima di andare a casa qualche ragazza mi aspetta in cucina per salutarmi, o quando prendo servizio vengo accolta con sorrisi e affetto, gesti che mi fanno comprendere che sono felici del mio arrivo.

Con qualche ospite si entra subito in empatia, mentre con altri si incontra un muro, a volte si tratta di atteggiamenti che suscitano tenerezza, a volte sono atteggiamenti più aggressivi, ma io sono contenta di ogni loro obiettivo raggiunto.

Raggiungono consapevolezza quando cominciano a migliorare, ma c’è sempre una continua lotta con se stesse e con la malattia. E’ un po’ come nel caso della tossicodipendenza o dell’alcolismo, è una dipendenza da cui risulta difficile staccarsi. Quando fanno iperattività credi di poterle fermare, ma si riesce solo per pochi minuti, poi ci si gira, e la situazione precipita di nuovo, perché proprio non ce la fanno, lì ci si sente impotenti.

Queste ragazze hanno una fame diversa da quella fisiologica, qualcosa non ha funzionato nella loro vita, in un determinato momento qualcosa si è rotto. Hanno bisogno di attenzioni, a volte anche da parte dei genitori, perché noi genitori non siamo invincibili e perfetti, e a volte la vita ci porta a fare delle scelte che involontariamente fanno soffrire i figli. Penso che queste ragazze abbiamo fame di comprensione, di amore, il loro è un grido di dolore, una ribellione.

Questo contesto e queste malattie mi hanno insegnato a non giudicare mai le persone, mi hanno insegnato a comprendere, ho scoperto che si può affrontare la malattia con persone che interagiscono fra loro per aiutare meglio chi soffre. Ho imparato a lavorare insieme agli altri.

C’è ancora poca conoscenza nei confronti di queste malattie; si è portati a giudicare. Ho notato che in questi casi si rompe un po’ il meccanismo che tiene tutto in equilibrio, loro si confrontano tutti i giorni sia sul cibo che sul corpo, si confrontano sulle idee e su qualsiasi cosa.

Mi ha fatto molto piacere partecipare a questo progetto perché ci sto mettendo il cuore nel lavoro che faccio, non avrei mai pensato di lavorare in un ambito così particolare, ma oggi non cambierei, in questo contesto, dove la fragilità è più complessa, l’aspetto psicologico prende il sopravvento su tutto.




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