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Eleonora Bianchi e Bianca Borcini


"...noi cerchiamo di trasmettere questa gioia di muoversi in modo che si possa creare un gruppo dove la malattia resti fuori, anche se solo per pochi momenti..."


 

Siamo Eleonora e Bianca e siamo chinesiologhe.

Chinesiologa significa esperta del movimento,qui a Villa Miralago ci occupiamo della parte motoria sia in piscina che in palestra, ma non solo. Il nostro lavoro è a 360°, ci occupiamo insieme all’équipe di tutte le questioni legate al movimento: l’iperattività, la funzione del movimento corretto all’interno di uno stile di vita sano.

Organizziamo le attività giornaliere, sia quelle di gruppo che quelle individuali, con l’obiettivo di rendere piacevole il movimento, in modo che i ragazzi riescano ad interiorizzare cosa vuol dire muoversi e cosa significa farlo piacevolmente, in relazione al senso di benessere e di sensazioni positive rispetto al corpo.

Cerchiamo innanzitutto di creare all’interno dei gruppi un clima piacevole, mettiamo della musica e facciamo in modo di trovare dei momenti di dialogo con i ragazzi. Facciamo comprendere che svolgere attività fisica non è nascondersi, stare da sole o farlo nei momenti più impensabili, ma avere un’organizzazione e una quotidianità in cui vivere un momento gradevole. Quando siamo in piscina, in fondo all’edifico, con vista sul giardino, si ha l’impressione di essere un po’ fuori dalla struttura e ciò permette di lasciare in disparte tutte le preoccupazioni e le problematiche, questo aiuta molto i ragazzi, permettendo loro di vivere il movimento con una diversa modalità. Già spostarsi dalla camera, dal corridoio, o dai posti più improbabili per unirsi ad un gruppo in palestra con la musica o in piscina procura sensazioni gradevoli e aiuta.

Insegniamo ai ragazzi l’importanza “del fermarsi”, perché molti di loro sono abituati all’iperattività altri invece hanno il problema opposto, ovvero l’ipoattività. È molto importante impiegare parte del tempo a non muoversi; a questo scopo l’acqua si presta molto perché non è possibile avere la velocità che si ha sulla terraferma, l’acqua obbliga a rallentare, a fermarsi. Spesso impostiamo il lavoro proprio su questo principio: adesso proviamo a fermarci, proviamo a non fare movimento, limitiamoci a respirare, e poi proponiamo un movimento più giusto e corretto. Questo lavoro cerchiamo di impostarlo giornalmente ad un determinato orario e il giorno successivo aggiungiamo un altro pezzo. Così imparano a muoversi ma anche a fermarsi, a riposarsi, il movimento che faranno il giorno successivo o la settimana dopo sarà più piacevole e sano.

Siamo quindi un po’ delle figure che obbligano a star fermi. Ognuna di noi segue due comunità, però nella pratica i gruppi non sono divisi, sono eterogenei. Gran parte del nostro lavoro è cercare di far sì che vengano rispettate le regole concordate dal punto di vista motorio. All’inizio gli ospiti ci considerano un po’ come le persone che “non concedono” o che propongono attività ad orari impensabili (ad esempio alle 9.30 del mattino) e quindi trovano tutti gli escamotage possibili per non venire in piscina o in palestra. Affianchiamo il personale medico ma non siamo “terapeuti”, proprio per questo a volte con noi nasce un rapporto più privilegiato, nel senso che certe ospiti ci raccontano alcune cose che fanno fatica ad esternare coi medici, informazioni che poi ovviamente noi condividiamo in équipe. Capita talvolta che durante un’attività di gruppo ci raccontino qualcosa della loro vita, dell’infanzia o della loro adolescenza, che riemerge ascoltando una determinata canzone o brano musicale.


La multidisciplinarietà nella terapia è importante anche per consentire l’espressione di un proprio stato d’animo, quando osserviamo i ragazzi durante un’attività di gruppo ci rendiamo conto immediatamente se uno di loro quel giorno non sta bene, è particolarmente preoccupato o pensieroso già da quando entra in acqua, perché il nostro corpo trasmette le emozioni soprattutto mentre si muove. Spesso negli ospiti c’è difficoltà a rimanere concentrati, noi lavoriamo molto anche sul dare un ritmo all’attività, non proponiamo esercizi veloci senza uno scopo, una finalità e per loro adattarsi è complicato, perché si passa dal seguire uno schema al dover ascoltare il proprio corpo . Sentirlo muoversi in un modo diverso, differente da quello finalizzato all’esercizio o allo sfogo capire che questo tipo di lavoro implica una percezione diversa del corpo non è sempre piacevole, anzi spesso fa paura. Questo movimento nuovo può suscitare in loro sensazioni buone e meno buone, che poi devono essere elaborate.

Il momento più complicato del nostro lavoro è “agganciare” il paziente ed aiutarlo a trarre beneficio dall’attività che noi proponiamo. La difficoltà è quando la relazione viene meno, quando avverti che stai provando a “fare”mettendo in campo tutta una serie di strategie e vedi che non c’è il terreno sulle quali queste possano germogliare. Con l’esperienza abbiamo capito che la persona entra in relazione con questo lavoro quando affronta consapevolmente il percorso di cura. L’arte, il movimento, la psicomotricità sono attività che aiutano molto, ma se manca l’aspetto relazionale allora diventa davvero complesso.

Poi ci sono le difficoltà pratiche, noi veniamo chiamate dai ragazzi a qualsiasi ora del nostro turno, “Bianca posso fare questo … Eleonora vorrei venire al gruppo … ma se salto la palestra posso fare il gruppo in piscina?... ma se il gruppo non c’è allora cosa faccio?”, questa è la quotidianità. Impostare un lavoro affinché possa portare ad un risultato richiede uno sforzo continuo e quotidiano, perché ogni giorno i ragazzi cercano di trovare la via più semplice e quindi è necessario non perdere di vista una serie di cose tutte insieme: e noi siamo solo in due.

I momenti di maggiore soddisfazione sono i sorrisi dei ragazzi che entrano in acqua la prima volta dopo tanti anni perché si vergognavano a mettersi in costume e riscoprono questa gioia di muoversi un po’ ludica, in certi momenti anche un po’ infantile. Un’altra cosa gratificante è


ritrovare i ragazzi che hanno terminato il percorso che ci dicono che hanno ripreso a fare sport con questa o quella squadra, hanno ripreso a fare ginnastica che a loro piaceva tanto, oppure non vanno più in palestra come prima. Ricordo un episodio di qualche anno fa dove abbiamo insegnato ad una ragazza ad andare in bicicletta: sembra una sciocchezza ma lei che aveva 20/21 anni non era mai andata in bicicletta. Facevamo gli esercizi in palestra per insegnarle a salire e a scendere, perché era una paziente sovrappeso, e alla fine abbiamo fatto arrivare una bicicletta. La guardavo fare giri nel parco e vederla contenta come una bambina per noi è stato bellissimo. In quel momento il sintomo, la malattia non esiste più, non è la ragazza anoressica o sovrappeso che va in bicicletta, è “lei” e basta.


Non farsi coinvolgere da tutta questa sofferenza richiede tempo: io lavoro nella struttura da quattro anni e i primi tempi è stato difficile. La chiave per non farsi sopraffare sta nella condivisione con l’équipe, quando ci sono delle difficoltà è importante parlarne coi colleghi, non essere soli in mezzo a tutto questo dolore. Poi il tempo e l’esperienza aiutano. All’inizio mi sono trovata di fronte ad una realtà molto complessa che non conoscevo: nel mio percorso universitario di scienze motorie mi avevano parlano dell’anoressia e dell’iperattività forse solo un paio di volte, anche se in ambito sportivo queste cose accadono di frequente e saperle riconoscere fin da subito sarebbe importantissimo per la prevenzione e una cura tempestiva.

E’ importante parlare di queste patologie già nella scuola per sensibilizzare sui disturbi del comportamento alimentare a 360°. Da un punto di vista delle società sportive questo richiede un po’ più di tempo perché significa far comprendere che prima di mirare alla prestazione, alla ricerca dell’agonismo in età molto precoce è necessario preoccuparsi della persona e delle sue difficoltà. Penso sia importante dare qualche strumento in più anche agli allenatori, ai preparatori atletici che non ne hanno conoscenza. Questo è il concetto che noi cerchiamo di far passare nei centri sportivi, nelle palestre, in piscina, nei luoghi dove lo sport è la quotidianità.

Lo sport è sì prestazione e risultato, però il percorso per arrivarci deve essere tutelato, altrimenti non possiamo più parlare di sport, non lo si pratica più per piacere. L’agonismo è una realtà che ti dà soddisfazione come atleta solo se lo vivi e lo pratichi in modo sano, con uno staff, un preparatore, un allenatore che ti supportano, che ti aiutano e ti guidano. Quando diventa altro, allora non è più sport e non è più agonismo.


Io lavoro in struttura da dieci anni e all’inizio affiancavo anche gli educatori, mi è capitato di fare assistenza in sala pasto, e in altre situazioni che non erano strettamente legate alla mia professione; accompagnavo i ragazzi in camera a farsi la doccia, vedevo le loro camere, ho avuto la possibilità di osservare qualcosa che andava oltre al mio lavoro e questo mi ha fatto capire che il disturbo alimentare non è solo il ragazzo che non mangia o che vomita o mangia troppo, ma è tutt’altro. Qui dentro è un mondo dove ancora oggi, dopo dieci anni, scopro ogni giorno qualcosa di nuovo proprio perché i ragazzi sono uno diverso dall’altro e quindi anche il percorso non può essere uguale per tutti.

Per me inizialmente la difficoltà maggiore è stata l’uso della parola. Ho imparato a soppesare le parole, i termini da usare, cosa poter dire e cosa no. Essendo per me una realtà nuova, che non conoscevo, era molto complicato perché non capivo cosa fosse giusto o sbagliato. Ricordo una situazione in cui mi sono trovata spiazzata, non sapevo cosa dire quando per la prima volta ho affiancato una ragazza con il sondino e in ascensore mi ha chiesto che attività potesse fare. In quel momento mi sono chiesta “ma come, pensare ad un’attività con il sondino?”. All’inizio mi sembrava impossibile, adesso ormai siamo abituate. Quando l’équipe ritiene che un ragazzo è pronto, le staccano la sacca, lo mandano a fare l’attività e poi gliela riattaccano. L’unica cosa che non possono fare col sondino è la piscina per il rischio di infezioni. Il nostro modo di lavorare qui in struttura è in continua evoluzione.

Lavorare in questo contesto mi ha fatto acquisire una maggiore sensibilità, mi sono resa conto che certe realtà, certe situazioni le vivo in maniera differente perché riesco a capire che dietro c’è un disagio, una difficoltà.


I ragazzi ci danno tantissimo, sia dal punto di vista umano che come gratificazione, anche nelle piccole cose, soprattutto quando scatta in loro quel “click”, dall’iperattività al dire da domani non lo faccio più e questo accade veramente, quando vedi che fanno quel passaggio è molto bello ed è anche la parte più complessa del nostro lavoro. Queste emozioni le percepisci ogni giorno, quando il venerdì facciamo le camminate nei boschi o quando abbiamo fatto la “Stramilano”,noi cerchiamo di trasmettere questa gioia di muoversi in modo che si possa creare un gruppo dove la malattia resti fuori, anche se solo per pochi momenti.









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