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Elisa


“ma se non mi mostro per come sono con coloro che vivono il mio stesso problema o con chi mi dà fiducia e mi comprende, con chi riuscirò a togliere questa maschera?”.


 

Sono Elisa ho 19 anni e soffro di anoressia nervosa da quasi cinque anni.

Sono pugliese e la mia è una famiglia numerosa per gli standard odierni, mamma e papà, tre sorelle e un fratello.

Le cose in famiglia non sono sempre state tranquille, c’erano frequenti discussioni tra mio padre e mia madre, spesso litigavano per problemi economici, soprattutto da quando mia madre ha smesso di lavorare dopo la nascita di mio fratello. Poi anche mio padre, per problemi di salute, non ha più potuto lavorare in campagna ma solo in ufficio.

Lo stipendio era misero e i soldi non bastavano mai.

Non è stato facile per nessuno accettare la malattia e iniziare a curarla, neppure io so come sia potuta arrivare a questo punto.

Mio padre soffre di un disturbo ossessivo compulsivo dal 2011 e mia sorella ne soffre da quando aveva 7 anni. Io e mia sorella ci siamo ammalate insieme di disturbo alimentare solo che per mia sorella è stato diverso, lei ha perso peso molto lentamente. Per me tutto è iniziato con una dieta che mi ha fatto perdere peso velocemente, senza che me ne rendessi conto. Anche mia madre non se n’è accorta, fino a quando mia nonna, che non mi vedeva da un po’ di tempo, ha esclamato“ma che stai combinando?”Il fatto che della mia malattia si fosse accorta la nonna e non i miei genitori, ha spiazzato mio padre.

Mi hanno accompagnata da una dietista che mi ha seguita per un anno e da una psicologa, a cui io mentivo continuamente dicendo che stavo bene e che mangiavo. Per mettermi alla prova, un giorno mi ha chiesto di cucinare dei muffin e mi ha proposto di mangiarli insieme, io naturalmente l’ho mangiato in tutta tranquillità. Poi però ho fatto esercizio fisico tutta la notte per smaltire quel muffin.


Nel periodo del day hospital a Lecce, mio padre, malato di depressione e DOC, non ha retto nel vedere che io non reagivo alle cure.

Non so perché, ma non ho mai avuto un buon rapporto con mio padre, solo quando sono arrivata a pesare pochissimo lui si è accorto della mia esistenza. Non ho mai avuto nemmeno amiche o legami profondi, la malattia invece mi ha permesso di essere considerata dai nonni, dagli zii, da chi mi prestava soccorso, dai compagni di scuola, dai professori che chiamavano i miei genitori: mi rendeva visibile agli occhi degli altri.

Adesso, mentre seguo il percorso di cure qui a Villa Miralago, mi rendo conto che temo di staccarmi da questa compagna di vita, perché mio padre si dimenticherà di me e non avrò più attenzioni da nessuno.

Se dovessi dare una definizione a questa malattia la definirei come “una p*****a che arriva subito al dunque”.

Sono molto legata a lei, qualche giorno fa la mia educatrice durante un colloquio mi ha detto che il disturbo alimentare è solo un sintomo: io questa cosa l’ho presa molto male, per me la malattia era diventata un po’ tutto, persino un’amica.

A volte rifletto sul fatto che la malattia in realtà non può essere un’amica, perché un’amica non ti priva delle cose belle, di questo spesso ne parlo con mia madre.

Penso alle ragazze che sono a ballare, vedo che le mie compagne di scuola hanno fatto le vacanze insieme dopo la maturità e mi dico “caspita, io sono ancora qua dopo cinque anni e non riesco a staccarmi da questo pensiero”.

In questi momenti mi rendo conto di quante cose e quante amicizie ho perso, quante persone avrei potuto incontrare; penso di non avere mai avuto neppure un hobby perché tutta la mia adolescenza l’ho vissuta con il disturbo alimentare. Se facevo qualcosa era solo perché dovevo farlo, se dovevo studiare lo facevo dalle due del pomeriggio all’una notte, perché doveva essere tutto perfetto e pretendevo il massimo dei voti. In un certo senso la vita era basata su numeri: voti, passi, calorie, peso.

Penso che oggi forse il mio hobby, se così possiamo definirlo, è conoscere ciò che non ho mai conosciuto, gli altri e me stessa, perché ho sempre indossato una maschera. All’inizio per me è stato difficile trovarmi uno spazio e delle amiche qui a Villa Miralago, stringere un rapporto con loro, ma pian piano sto cercando di mostrarmi per quella che sono.

Una grande maschera l’ho tolta un mese e mezzo fa perché io non facevo quello che mi veniva detto, avevo guadagnato la fiducia della mia équipe che mi aveva concesso l’autonomia, ma io non riponevo grande fiducia in loro, e facevo delle cose che non si potevano fare, come l’iperattività o vomitare dopo i pasti. Finché mi sono detta “ma se non mi mostro per come sono con coloro che vivono il mio stesso problema o con chi mi dà fiducia e mi comprende, con chi riuscirò a togliere questa maschera?”.



Ho sempre vissuto nascondendomi dietro a delle maschere. Ricordo che ero una bambina taciturna e impacciata, un giorno i miei genitori erano venuti a prendermi ad una festa di compleanno e mi hanno trovata sola a giocare mentre tutti i bambini erano radunati da un’altra parte. Quando oggi mia madre mi ricorda che volevo sempre andare alle feste anche se ero consapevole che mi avrebbero emarginata le si riempiono gli occhi di lacrime.

La solitudine è stata una costante nella mia vita, solo la malattia mi ha fatto sentire meno sola perché avevo “lei”. Anche se mi imponeva di fare determinate cose, “lei” era accanto a me, l’alternativa era la solitudine. Anche se oggi riconosco che è stata un’amica che mi ha tradita perché non mi ha fatta stare bene.


Non so neppure cosa sia esattamente l’amore, penso sia la famiglia, l’amore per sé stessi, qualcosa per cui continuare a lottare.

Sebbene io abbia paura di non essere più vista da mamma e papà e da tutti gli altri, sento il bisogno di avere una vita normale, ma non ho ancora trovato la chiave per aprire quella porta e uscire da questo incubo.

Il giudizio è stato un altro peso costante, l’ho sentito anche prima della malattia e penso sia stato il motivo per cui ho iniziato a fare quella dieta fai-da-te. Avevo un compagno di classe che continuava a fare commenti “che cosce grandi che hai, se ci metto il dito sprofonda”, ci rimanevo molto male. Anche papà mi diceva “sei ingrassata, grassottella mia” e questo faceva male.

Più perdevo peso e più mi sentivo felice, ero arrivata a 37/38 chili, però poi quando camminavo per strada, la gente mi guardava e diceva “scheletro, fai schifo”“ma ti sei guardata, tra un po’ ti escono le ossa”.

Giudizio e solitudine, due compagni di vita.


Ho avuto paura di scomparire definitivamente ma non m’importava, doveva finire così, avevo iniziato l’opera e dovevo finirla. Se la mia famiglia me l’avesse permesso sarei andata fino in fondo, sarei scomparsa. Non mi riconoscevo più, non sapevo più chi era Elisa.

Questo è il mio primo ricovero residenziale, prima ho fatto due anni di day hospital ma terminato il percorso non mi sentivo guarita perché guardando le foto di quando pesavo 38 chili avrei voluto ritornare così.

Ma ora sono qui e sono giunta alla conclusione che anche con questo corpo io mi sento bene e non vorrei tornare indietro.

Qui non abbiamo specchi, prima di entrare mi sono guardata sino all’ultimo momento pensando che qui sarei cambiata. In realtà non sono cambiata ma ho una composizione corporea molto diversa, qui possiamo vederci solo il viso e in realtà un po’ mi dispiace perché sono piuttosto vanitosa e mi piace specchiarmi. La sfida sarà a casa, perché mettersi in mutande e reggiseno e vedersi per intero, dopo mesi, sarà una prova.

Adesso per me il cibo è piacere, prima no, era una battaglia continua col cibo e con chi mi nutriva.


Sembra banale dirlo ma io avevo fame dell’amore dei miei genitori, di serenità, di un abbraccio.


Un abbraccio significa tante cose, è qualcuno che ti stringe perché sei nella sua mente e sta facendo quel gesto per riempirti di affetto.

Anche l’arte ha tante sfaccettature, una fotografia con un sorriso, due mani che si stringono. L’arte è poesia, mi piace tanto scrivere poesie e anche se agli altri possono non piacere non mi importa perché è un modo per esprimere le emozioni che mi sono tenuta dentro per troppo tempo.

Non avendo mai fatto un ricovero residenziale l’impatto iniziale con la comunità è stato piuttosto forte e difficile, un sacco di regole. Dopo un mese avevo chiesto la lettera di dimissioni perché volevo andarmene, poi invece ho scoperto tanti aspetti fantastici della comunità. Vivi con queste persone 24 ore su 24 e non devi necessariamente essere amica di tutti, ma quelle con cui vai d’accordo … vederle la mattina tutte scompigliate, senza trucco, che ti abbracciano, è una cosa fantastica! Qui dentro non devi spiegare nulla, ciascuna è sé stessa, senza schemi, non c’è niente di costruito, ci siamo noi e basta ed è bello. Questa malattia mi ha insegnato ad apprezzare la vita anche nelle piccole cose, nei piccoli gesti.

Quando uscirò da qui sarò una persona diversa. Tra una settimana tornerò a casa dopo cinque mesi, mi sembra un po’ strano ma ho una terribile voglia di affrontare questa prova. Andrò anche ad una festa e sono molto eccitata.

Adesso vorrei essere libera da tutti gli schemi, da tutto ciò che circonda questa malattia. La libertà per me è il mare, mettersi in costume, baciare la persona che ti piace, innamorarsi, stare con la mia migliore amica. La libertà è anche mangiare.

Io vorrei diventare un medico, nello specifico una psichiatra anche se quest’anno non ho potuto fare gli esami di ammissione. Ma sono convinta che il prossimo anno sarà diverso e spero di riuscire ad entrare in università.

Ho deciso di raccontarmi perché se questo progetto viene divulgato anche nelle scuole forse si può far capire che queste malattie esistono e sono molto dolorose,

a volte ci si scherza su, senti dire “magari perdo un po’ di chili così divento anoressica”e non ci si rende conto che si rischia di entrare in un incubo senza fine.




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