top of page

Federica


Vivevamo io e la malattia, sole in un unico abbraccio.

 

Mi chiamo Federica e ho quasi 21 anni. Il 28 luglio sarà un anno che sono ricoverata a Villa Miralago, ma per me questa non è la prima comunità terapeutica. Sono stata due volte a Villa Garda per circa 8 mesi ogni volta, ma questi percorsi non sono andati a buon fine.

Dopo il secondo ricovero sono stata seguita per circa tre anni da un’équipe privata di Milano, ma anche qui dopo qualche tempo le cose sono iniziate a peggiorare; a gennaio dello scorso anno ho iniziato un percorso di day hospital presso l’Auxologico di Milano ma dopo un mese il reparto ha chiuso per via del Covid 19.

Tutto è iniziato nel 2013/2014 avevo 13/14 anni. Io facevo ginnastica ritmica da quando avevo otto anni, e credo che questo abbia contribuito al mio disturbo alimentare, in quel periodo ero molto attenta alimentazione. Una delle allenatrici ci pesava ad ogni allenamento e se aumentavano anche solo di un etto ci faceva la ramanzina e diceva che avremmo dovuto perderlo immediatamente.

Ogni volta che uscivamo a mangiare la pizza, a fine anno, ci diceva che potevamo prendere solo pizza margherita, marinara o vegetariana, niente bibite e niente dolci. Quando abbiamo fatto i Campionati Italiani a Pesaro, per una settimana ci ha fatto mangiare solamente insalate perché secondo lei non potevamo permetterci altro.

A quel punto non sei più un’atleta, sei un risultato. C’è il risultato e la performance fisica, quindi esistono solo obiettivi rigorosi da raggiungere.

Quando ero piccola mi era stata diagnosticata una nefrocalcinosi midollare, una malattia che causa la formazione di cisti di calcio ai reni; per cui un nefrologo mi aveva dato una dieta priva di ossalati, pertanto non ho potuto mangiare cibi salati, pizza, salumi, cioccolato per tutta la mia infanzia. Intorno ai 7/8 anni sono stata ricoverata in una clinica in Germania dove mi hanno tolto questa dieta. Quindi anche da piccola ero molto limitata nel cibo perché non potevo mangiare praticamente nulla di quello che mangiavano i miei amici.

Non ricordo se questa cosa mi faceva sentire diversa dagli altri, però ricordo che una volta alle elementari ci avevano chiesto disegnare un nostro desiderio futuro e il mio desiderio era quello di mangiare un panino col salame.

Solo ultimamente mia madre mi ha raccontato che, quando si festeggiavano i compleanni da McDonald, lei arrivava col panino già preparato a casa e lo metteva nella confezione dell’Happy Meal per farmi sentire uguale agli altri.

Fino alle scuole elementari non ho avuto alcun problema, le medie però le ho frequentate presso una scuola privata paritaria, dove c’erano tutti i “figli di papà” che ti squadravano dalla testa ai piedi, per come eri vestita, ti chiedevano che marchi di vestiti avevi nell’armadio, mi giudicavano pesantemente e spesso mi escludevano, infatti non ho mantenuto i contatti con nessuno.

Io soffro di anoressia, e per me rifiutare il cibo significa sapere che quel numero sulla bilancia scende molto velocemente. L’anoressia ti spinge a digiunare, a fare moltissima attività fisica, così ti senti forte. Me ne sono accorta un anno fa, prima di entrare a Villa Miralago quando camminavo cinque ore al giorno intorno al divano, il sabato e la domenica li passavo fuori casa, dicevo ai miei genitori “vado a Milano con le mie amiche” invece andavo da sola, scendevo alla fermata della metropolitana più lontana per arrivare in Piazza Duomo.

Intorno a me c’era una solitudine pazzesca, non mi andava di sentire più nessuno, nemmeno di prendere in mano un cellulare e chiamare le mie amiche o la nonna. Non avevo voglia di vedere nessuno perché questo mi impediva di fare iperattività. Durante la malattia non provi più emozioni, sei completamente apatica. Ricordo che mio padre ha avuto un tumore alla prostata e a me non importava nulla, pensavo solo a dimagrire, a raggiungere il mio obiettivo senza mai accontentarmi perché volevo un peso sempre più basso.

Vivevamo io e la malattia, sole in un unico abbraccio.

Anche i rapporti coi miei genitori erano cambiati, durante la degenza a Villa Garda è stato terribile, non li volevo né vedere né sentire, soprattutto mia mamma. Non li chiamavo per giorni interi, finché mia madre ha chiamato la struttura per capire che fine avessi fatto. Quando è iniziata la fase del day hospital passavo pochissimo tempo in casa con loro, non volevo stare in casa, non li volevo proprio vedere e non so neppure il motivo. Non mi rendevo neppure conto del loro amore, solo adesso comincio a rendermene conto.

Adesso Federica non è più “la malattia”, ma faccio ancora un po’ fatica a scindere le cose, non metto più in atto tutti i comportamenti di prima, però a volte vorrei tornare indietro a quel sondino che mi avevano messo qualche anno fa.


Il sondino infatti sembra un traguardo da raggiungere: sei in una fase grave, va bene così e devi continuare. E non hai nemmeno paura, mi avevano detto più volte che potevo morire da un giorno con l’altro a causa della frequenza cardiaca troppo bassa; sono arrivata a 30 battiti al minuto, ma a me non interessava, era un’altra sfida: se oggi sono 30, domani devono essere 29.

Arrivi all’estremo, non ti fa paura nulla perché vuoi sparire. Ogni volta che mi guardavo allo specchio, e mi guardo tutt’ora per quel che posso, c’è la voglia di tornare indietro e non ne capisco neppure la ragione.

All’inizio della malattia, i miei genitori non sapevano proprio cosa fare e io non accettavo assolutamente di essere aiutata. Anche per quest’ultimo ricovero sono intervenuti loro; sono quasi arrivata ad un TSO perché non volevo proprio essere curata. Non mi rendevo conto della situazione, dei rischi che stavo correndo, dei calcoli renali, della flebite alla gamba…proprio zero.


Io pensavo di avere il controllo della situazione e non ho mai realizzato che invece era la malattia che aveva il controllo totale su di me.


Nonostante le mie giornate fossero piene allo stesso tempo erano assolutamente vuote, perché quella non era più vita. Dopo un po’ ho cominciato a sentire anche il vuoto dentro di me con quella sensazione di fame; ero ossessionata dalle persone che mangiavano e provavo la fame. Desideravo mangiare ma non potevo perché la malattia mi obbligava a non mangiare.

Il tempo per me era diventato solo un numero, dovevo rispettare determinati tempi, non potevo sgarrare, dovevo camminare sempre di più in quelle 5 ore a volte anche 6/ 7. Tutta la vita improntata sui numeri: numero delle calorie, numero dei passi, numero del peso, i voti a scuola dall’ 8 in su, il 7 era un sacrilegio; eppure i miei genitori non hanno mai preteso l’eccellenza, spesso mi dicevano che anche un 4 una volta ogni tanto ci stava…

Staccarsi dalla malattia è difficilissimo, ancora adesso in alcuni momenti sono ancora sua schiava anche se so che questo non porta a niente. Non vale la pena restare legata a lei, perché non ti dà niente, anche se talvolta mi sfiora il pensiero che è meglio restarci assieme.

Mi sto rendendo conto ora che questa malattia ti sottrae la vita: se uscivo, non era per godermi la giornata, ma per fare iperattività. Le mie giornate erano totalmente incentrate sul camminare e digiunare, camminare e digiunare.

Non so esattamente cosa sia la bellezza, razionalmente dico che risiede nell’interiorità, quando però penso a me la collego unicamente all’aspetto fisico.

Non so esattamente cosa sia l’amore, in questo momento l’amore più importante è quello che mi possono dare la mia famiglia sostenendomi, e le amicizie. Per me è ancora difficile ma vale la pena imparare ad amarsi.

Avevo perso completamente i sogni, non pensavo altro che al cibo e all’attività fisica. Adesso li sto ritrovando, vorrei viaggiare, andare in Australia a visitare i parchi nazionali e in America. Adesso non vedo l’ora di iniziare l’Università.

Sto riscoprendo anche il rapporto con gli altri, in occasione delle attuali uscite dalla struttura, riesco a godermi le uscite con le amiche, tra un po’ andrò al mare. Sto riscoprendo la bellezza della vita.

I miei genitori hanno fatto moltissimo, spesso ho pensato che fossi un peso per loro, per tutto quello che gli ho fatto e gli sto facendo passare. Non è che mi sentissi inadeguata, mi sentivo in colpa per tutti i soldi che spendevano per me, per il tempo che abbiamo sciupato così, quando avremmo potuto fare altro insieme.

A loro vorrei dire grazie per non avermi mai lasciata sola e per tutto quello che hanno fatto per me.



518 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Eleonora

Post: Blog2_Post
bottom of page