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Federica Croci

Aggiornamento: 31 gen 2022


L’esperienza non è confinata in atelier, continua anche fuori, in ufficio, durante i colloqui o quando incontri chi piange o ride nella hall; qui vivi la vita comunitaria vissuta a trecentosessanta gradi, vivi gli ospiti e i colleghi con le loro storie, le loro fragilità, le loro gioie e le loro risorse.

E questo mi arricchisce tantissimo, mi fa pensare alla mia storia e a quello che sono io, mi permette di mettermi in discussione ogni giorno, di crescere e di cambiare.


 

Sono Federica Croci.

Ho una formazione artistica e ho convogliato la mia arte e la mia voglia di usarla come aiuto, formandomi come arteterapeuta.

L’arte per me è quello spazio e quel tempo dove ritrovo l’equilibrio e ritorno in pace con me stessa.

Lavoro a Villa Miralago da quando ha aperto e ho contribuito ad allestire quello spazio dedicato, ad uso esclusivo, che noi chiamiamo atelier.

L’atelier , in struttura , è una mansarda, un luogo raccolto ed accogliente, per alcuni un rifugio; come la tana del Bianconiglio dove ancora è possibile stupirsi, meravigliarsi e scoprire di riuscire a “fare”, dove ognuno può’ essere ciò che vuole o semplicemente se stesso, uno spazio protetto, senza giudizio, quasi come sospeso nel tempo.

I miei incontri cominciano con l’arrivo degli ospiti e il mio primo obiettivo per loro, ancor prima di creare, è partecipare e stare nel gruppo, perché un aspetto della malattia è anche la tendenza ad isolarsi.

Per soggetti iperattivi è difficile riuscire a stare seduti e fermi per circa un’ora, a questo si arriva per gradi, passando attraverso il giusto compromesso tra momenti seduti e momenti in piedi, come l’alzarsi per prendere ciò che serve per lavorare; questo intervento come altri vengono concordati e condivisi con l’equipe di riferimento, fondamentale il confronto, poiché il mio lavoro è solo una parte di “un tutto” che produce un programma individualizzato per ogni ospite.

Il secondo momento è la consegna da parte mia, di uno stimolo che può essere: un’immagine, un testo, un momento di movimento o altro, in modo che ognuno successivamente possa scegliere come lavorare e quali materiali utilizzare a seconda del proprio stato d’animo.



I materiali sono importanti perché portano a lavorare sull’importanza del tempo, sulle sensazioni e di conseguenza sulle emozioni appiattite dalla malattia.

Il tempo, per chi è affetto da disturbi alimentari, è un tema molto importante.

In questa lotta continua contro il tempo, gli ospiti tendono a voler vedere la fine della propria opera “tutto e subito” , i materiali con cui lavorano potranno suggerire ed insegnare che il tempo ha una sua importanza e una sua valenza e che ad esempio se si accelera l’asciugatura di una tempera o una creta, ci si troverà con un prodotto finito non nelle migliori condizioni e questo porterà ad una delusione e ad una frustrazione.

Io, in atelier, ho un cartello con scritto “Il Tempo dell’Attesa”, molto grande e molto visibile ma anche faticoso da interiorizzare.

Tutti i materiali dell’atelier che al tatto sono diversi, daranno sensazioni diverse.

Io a loro dico sempre di provare a “sentire” e “ascoltare” le sensazioni per recuperare ricordi ed emozioni.

Dai loro lavori emerge tanta sofferenza e tanto dolore, in questo l’arteterapia aiuta, utilizzando le risorse positive si ha la possibilità di riscoprire anche le emozioni positive sopite.

Alla fine di ogni sessione ci si raduna e ogni partecipante può condividere con il gruppo il lavoro fatto, io cerco sempre con fatica di far capire che non si deve giudicare né il lavoro degli altri né soprattutto il proprio.

Dalla mia esperienza quasi nessuno è mai soddisfatto di ciò che produce, il prodotto non è mai corrispondente ai canoni che si erano prefissati, canoni dettati da retaggi culturali o dalla ricerca continua di perfezione, acuita dalla malattia.

Io continuo a ripetere che il loro prodotto artistico è bello perché viene dalla loro storia ed è perfetto e unico perché è solo loro.

Si deve avere uno sguardo al prodotto finale ma facendo attenzione a quello che sentiamo e che ci succede mentre stiamo “creando”.

Lasciarsi andare anche solo per il piacere di creare qualcosa e allontanare i pensieri ricorrenti per un po'.


E per questo mi viene chiesto spesso di poter accedere all’atelier anche fuori dall’orario del loro gruppo.


Cinzia mi ha definito: “Restauratrice di Anime”, riferendosi al mio nascere professionalmente come restauratrice di dipinti. Questa definizione mi ha fatto molto piacere e mi ha fatto anche molto riflettere perché non mi ero mai vista cosi’. Mi piace pensare ad ogni persona come ad un’opera d’arte unica ed irrepetibile, un misto di fragilità e di forza.

L’arteterapia e il restauro potremmo considerarle due facce della stessa medaglia, in entrambi i casi servono dedizione, pazienza, amore e capacità di vedere e far riaffiorare cosa di bello si nasconde sotto la “superficie”.

Lavorare in questo contesto molto particolare, mi ha insegnato molto, sia come esperienza lavorativa che umanamente.

In questi anni di lavoro ci sono stati momenti difficoltosi e momenti gratificanti.

I momenti difficoltosi che mi vengono in mente ora sono questi:

far capire a qualcuno, che è sempre insoddisfatto di ciò che produce, che ciò’ che vede è una parte di se stesso e va accolta, far scoprire loro che hanno dei talenti e delle risorse.

I momenti gratificanti sono molti. Tutti i momenti che passiamo insieme in atelier dove oltre al lavoro si chiacchiera, ci si racconta, si scambiano emozioni e dove ogni piccolo passo in avanti fatto è una vittoria. Quando mi dicono: “ Oggi mi piace il mio lavoro, mi piace quello che sono riuscita a mettere sul foglio”, ad esempio quando un ospite mi ha detto “Non mi piace perché è bello ma perché è mio!”

E poi, quando alla fine di un percorso ci si saluta e mi ringraziano per esserci stata.

L’esperienza non è confinata in atelier, continua anche fuori, in ufficio, durante i colloqui o quando incontri chi piange o ride nella hall; qui vivi la vita comunitaria vissuta a trecentosessanta gradi, vivi gli ospiti e i colleghi con le loro storie, le loro fragilità, le loro gioie e le loro risorse.

E questo mi arricchisce tantissimo, mi fa pensare alla mia storia e a quello che sono io, mi permette di mettermi in discussione ogni giorno, di crescere e di cambiare.





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