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Giada


"A volte mi chiedo perché non riesco a far capire quanto è bello il mondo fuori, anche se talvolta a modo mio ci riesco. Però frasi del tipo “voglio morire “ oppure “uccidimi” mi lasciano senza parole"


 

Mi chiamo Giada, ho 25 anni e sono infermiera, lavoro a Villa Miralago da circa due anni.

Il mio è un lavoro particolare perché l’ambito dei disturbi del comportamento alimentare è piuttosto complesso, una branca specifica della psichiatria, occorre quindi una certa predisposizione e una particolare attenzione nei confronti di questi disturbi. Io ho già lavorato in altre comunità psichiatriche, e sono felice di lavorare in questo contesto.

Da due anni a questa parte è cambiato molto il mio approccio al lavoro. All’inizio ero impaurita, a volte spaventata, mentre ora vedo le cose con occhi differenti. Mi sento una persona diversa e questa trasformazione mi piace, credo di aver dato un aiuto alle pazienti e loro hanno dato tanto a me, mi hanno aiutata ad essere una persona migliore e a guardare le cose da una prospettiva differente.

In alcuni momenti mi trovo ad affrontare situazioni difficili, quando ad esempio una ragazza mette in atto l’autolesionismo. Inizialmente le mie emozioni erano prevalentemente di shock, perché vedere persone molto giovani che compiono atti di autolesionismo, a volte gravi, era molto traumatico. Anche adesso è una cosa che mi tocca nel profondo, ma riesco a mettere da parte l’emotività e l’istinto, cerco di essere razionale e intervengo prima di tutto preoccupandomi dell’aspetto fisiologico e organico, poi cerco di capire cosa ha spinto la persona a compiere un gesto simile. Noi infermieri ci riteniamo anche un po’ psicologi e un po’ educatori, perché non ci occupiamo solo dell’aspetto clinico, ma guardiamo anche all’aspetto psicologico e cerchiamo di essere disponibili e accoglienti. Ho scelto proprio per questo un ambito così particolare.

Sono una persona che lavora molto nella sfera sociale e non lavorerei in nessun altro posto perché mi sento portata a livello umano ad accogliere i pazienti.

Provo emozioni molto contrastanti; quando torno a casa mi interrogo sul perché un paziente ha fatto una determinata cosa, su come avrei potuto intervenire o prevenire questo atto di autolesionismo, se solo avessi colto quei segnali che non sempre si riescono a cogliere. Mi interrogo molto e mi valuto molto, perché spero sempre di migliorare strada facendo.


Porto a casa il disagio e la sofferenza delle ragazze, non ho ancora capito se questa è una cosa positiva o negativa. Parlandone con gli amici o con la famiglia mi sento dire che, se sono così coinvolta, significa che c’è qualcosa che non va, che dovrei essere più distaccata, ma non ci riesco proprio. Questo è il mio carattere, sto cercando di migliorare sotto questo aspetto: mi prendo a cuore le cose, ma cerco di lasciarle a Villa Miralago, quando esco provo a stemperare un po’ la tensione, cerco di non rimuginare troppo su ciò che è accaduto durante la giornata.

Conquistare la fiducia delle pazienti a volte è difficile. Mi piace definirle un po’ come le ostriche, ermeticamente chiuse, difficilissime da aprire, ma se si riesce ad entrare in empatia profonda con loro, lentamente si aprono e si vedono cose meravigliose. Ci vuole tempo, fatica, energia, però alla fine si prova una grande soddisfazione e si fa di tutto perché l’ostrica non si chiuda nuovamente, vista la fatica di entrambe. Si giunge così ad una situazione molto gratificante, ti cercano, quando prendi servizio sono contente, sanno che se hanno un problema te ne possono parlare, in un certo senso si sentono sicure e protette; questo è quello che io percepisco e che anche loro mi dicono.

Avendo 25 anni riesco a capire le adolescenti perché io stessa sono uscita dall’adolescenza da poco, e riesco a capire anche le ragazze un po’ più grandi perché mi sto avvicinando al mondo degli adulti; penso che la mia età sia un vantaggio perché le ragazze mi considerano la loro confidente anche per questa ragione.

Di momenti difficili nel mio lavoro ce ne sono parecchi, soprattutto quando le pazienti disperate arrivano e mi dicono “io voglio morire”.



Rimango basita perché non riesco a capire perchè una persona possa arrivare a queste affermazioni, si tratta di persone splendide, con una bella famiglia, tanti amici, benvolute, persone speciali. A volte arrivano con queste frasi di forte impatto e io mi domando come fare per sollevare loro il morale partendo dal loro presupposto di voler morire. Questo è uno dei momenti in cui mi trovo in difficoltà, e quando le ragazze mi dicono questa frase io ripeto loro una frase dei Negramaro che ripeto anche a me stessa come mantra “ meraviglioso, ma come non ti accorgi di quanto il mondo sia meraviglioso” perché mi chiedo come facciano a desiderare di morire quando fuori c’è una vita bellissima che è pronta ad accoglierle una volta uscite da qui: perché Villa Miralago non è la vita, la vita è fuori. Questa è solo una fase di transizione tra la malattia e la guarigione, io dico alle pazienti che ci sono malattie per le quali non esiste una cura e il paziente si rassegna, ma in questo caso si può guarire. A volte mi chiedo perché non riesco a far capire quanto è bello il mondo fuori, anche se talvolta a modo mio ci riesco. Però frasi del tipo “voglio morire “ oppure “uccidimi” mi lasciano senza parole. Ricordo una a paziente che mi diceva “buttami giù dalle scale perché non ce la faccio più” e mi implorava con gli occhi come a dirmi di far qualcosa per porre fine alla sua sofferenza, senza rendersi conto che quello non era certo il modo migliore per trovare una soluzione. Ci sono stati momenti particolarmente difficili, ricordo una ragazza che prese le forbici dall’infermeria e minacciava di farsi male, in quel momento non sapevo se intervenire per togliere l’arma o cercare di fare un ragionamento psicologico per tranquillizzarla e fare in modo che fosse lei a porgermela dopo aver capito quello che aveva detto e fatto. Queste sono le difficoltà maggiori, vedere ragazze con tagli profondissimi arrivare sanguinanti in infermeria, bruciature sulle braccia e sulla fronte. Poi ti rendi conto che quello che stanno lanciando è un grido d’aiuto e tu devi saperlo cogliere anche se rimani sempre turbata, penso che anche dopo vent’anni di esperienza vedere queste cose sia sconvolgente.

Ci sono però anche momenti molto belli, soprattutto quando vengono dimesse quelle pazientii con cui hai instaurato un legame più stretto e ti ringraziano perchè senza di te, senza il tuo supporto e anche senza le tue costrizioni non ce l’avrebbero fatta. A volte ci si deve imporre è necessario costringerle a fare determinate cose come mangiare o mettere il sondino naso-gastrico. A volte impieghi ore per cercare di mettere un sondino e loro ti dicono grazie perché nonostante sei sembrata aggressiva o hai dovuto usare dei modi non proprio dolci gli sei stata d’aiuto. Il sondino naso-gastrico è un presidio che si inserisce all’interno del naso e arriva fino allo stomaco per alimentare i pazienti che non sono in grado di alimentarsi autonomamente; quando sento delle ragazze che affermano di voler ritornare al sondino mi vengono i brividi, perché significa che vogliono tornare ad essere malate, ad essere ricoverate in ospedale come quando le loro condizioni di vita erano al limite. Generalmente lo fanno per tornare ad avere le attenzioni dei genitori, dei parenti e degli amici, lo fanno per essere “viste”, perché dimostrare che stanno male, che sono in punto di morte significa obbligare le persone a prendersi cura di loro, vogliono dimostrare che esistono. E’ un messaggio per dire “se non mi consideri quando sto bene, allora devo per forza stare male per avere attenzione”. Talvolta si innesca una sorta di gara tra le pazienti: se lei non mangia allora non mangio neppure io, perché se mangio dimostro di essere forte e di essere sulla via di guarigione, se invece non mangio significa che sto male, che sono quella che sta peggio di tutte e quindi voglio arrivare a un BMI bassissimo in modo che gli altri dicano che sono la ragazza magra, la più magra della struttura.

Il sondino in realtà è il demonio, perché quando dici a una ragazza che è necessario mettere il sondino, praticamente le stai dicendo che peggio di così non può andare, ma che le stai offrendo un aiuto. perché con quello tu le salvi la vita. Per alcune il sondino è un deterrente, a volte lo si usa come ricatto, della serie “tu tieni il sondino, ma devi mangiare e se non lo fai io ti ti devo nutrire con la sacca”. Altre pazienti invece devono davvero essere alimentate con sacche di nutrienti che scendono a goccia lentissima e per loro questo è devastante ma è l’unico modo per salvare loro la vita.

Il momento più bello è quando ti scrivono, ti fanno dei piccoli regali o chiamano in struttura cercandoti per salutarti: allora pensi che si ricordano di te e di quello che hai fatto e questa è una grande gratificazione.

Questo ambiente, queste malattie mi hanno insegnato a guardare le cose da una prospettiva diversa: se ho un problema non mi devo fossilizzare su quello ma devo imparare a chiedere aiuto, perché a volte certe situazioni non le so gestire da sola. Mi hanno fatto capire quanto io sia fortunata, prima di tutto a non avere un disturbo alimentare, ma soprattutto ad avere delle persone che mi vogliono bene. Queste ragazze mi stanno facendo cambiare la prospettiva su tante cose, mi hanno fatto capire l’importanza delle piccole cose, di quali siano le priorità a volte semplicemente dicendomi“ tu puoi uscire, finito il turno puoi uscire, puoi andare al lago, puoi fare una passeggiata con le amiche mentre io sono costretta a stare qui dentro”. A volte si da tutto per scontato, anche il solo fatto di essere libera di uscire per fare la spesa: per noi è normale e sottovalutiamo questa cosa, in realtà anche questa è libertà , una libertà che a noi è concessa mentre a loro no, sono costrette a stare qui giorno e notte per mesi e a volte anche anni.

Ho imparato anche una cosa molto importante, a non giudicare nessuno prima di conoscere la loro storia, perché ognuno porta con sè una grande storia.

Credo che queste ragazze abbiano fame di attenzioni, chiedono di essere messe al centro, vogliono essere considerate e capite.

Prima di venire a lavorare qui non conoscevo a fondo i disturbi alimentari; quando ho finito l’università sono rimasta in contatto con una ragazza che lavorava in una clinica per DCA a Monza ed era un ambito che mi ha sempre interessato, ma non mi aspettavo che dietro ai disturbi alimentari ci fosse questo impensabile mondo di infinite variabili. Non cambierei questo lavoro, anche se talvolta a fine turno sono stremata, ma quando torno il giorno successivo e vedo le pazienti penso di aver tanto da dare e c’è sempre un riscontro da parte loro che mi motiva a fare sempre meglio. Mi piace questa realtà, perché ogni giorno è un arricchimento umano.





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