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Giada


" Questo progetto mi ha fatto conoscere un mondo nuovo, mi ha fatto cambiare prospettiva. A volte ti fai un’idea di una persona, poi leggendo la sua storia e il suo vissuto comprendi di essere completamente fuori strada, che non avevi capito nulla, oppure rafforza le tue convinzioni. Spesso si giudica senza conoscere e si cade nell’errore "


Sono Giada e ho 15 anni, sono stata ricoverata a Villa Miralago per anoressia nervosa e sono uscita da circa un mese. Ho sofferto di disturbo alimentare da quando avevo 12 anni. Credo che sia partito tutto dal fatto che mi sentivo tanto sola e anche per la morte del mio cane: per me è stato il primo lutto e il primo incontro con la morte. Queste due cose sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Sono stata ricoverata cinque volte, il primo ricovero al San Raffaele dove però il percorso non ha funzionato e sono entrata nel loop più completo. Io non mi rendevo conto di essere ammalata, mi vedevo bene e mi sentivo potente. Oggi, se riguardo le fotografie di quel periodo, mi chiedo come ho potuto arrivare fino a quel punto, ma a all’epoca io sentivo di poter far tutto mi sentivo invincibile e la mia psichiatra ha definito questa patologia “la malattia del super eroe”. Non mangiando avevo la convinzione di essere forte, e facendo iperattività mi sentivo potente. Più vedevo scendere i chili sulla bilancia e più ero felice, quando sono scesa sotto i 35 chili non ragionavo più, il mio cervello era completamente andato in tilt. Sentivo solo la mia vocina interiore che mi comandava di muovermi e di non mangiare, muovermi e non mangiare. Era una cosa che non riuscivo più a sopportare, io volevo morire. Non ce la facevo più, volevo uscirne ma la malattia era più forte.


Nel periodo della malattia, soprattutto durante il lockdown, mi sono legata tantissimo a mia mamma. Era il mio unico punto di riferimento ed era l’unica persona a cui potevamo attaccarci, sia io che la malattia. Questa malattia coinvolge tutti, i familiari e gli amici. Mi sono resa conto che la malattia si nutriva anche attraverso mia madre e ne ho avuto la certezza leggendo la sua intervista; fino a quel momento non mi ero resa conto di quanto l’avessi fatta soffrire. E’ stato importante leggere le sue parole, mi ha fatto capire quella che ero diventata e che non voglio più essere. Ho compreso la sua forza: penso che se fossi stata nei sui panni io non ce l’avrei fatta. Credo di non amare mia mamma quanto lei ama me. Questo progetto mi ha fatto conoscere un mondo nuovo, mi ha fatto cambiare prospettiva. A volte ti fai un’idea di una persona, poi leggendo la sua storia e il suo vissuto comprendi di essere completamente fuori strada, che non avevi capito nulla, oppure rafforza le tue convinzioni. Spesso si giudica senza conoscere e si cade nell’errore.

La malattia mi ha insegnato tante cose, ho capito che non devo mai star sola anche se a me restare sola piaceva molto, mi faceva sentire forte. Ero una bambina di 7-8 anni che restava da sola a casa per un intero pomeriggio, perché i miei genitori lavoravano e io mi sentivo unica perché i miei compagni non lo facevano, io ero quella speciale. Ho imparato anche che il cibo non è un nemico ma è la cosa che ti fa stare in vita ed è una cosa che io amo. Ho compreso che si possono affrontare tutte le difficoltà, che la malattia è un grosso problema ma che se ne può uscire ed essere anche felici. La malattia mi ha insegnato a dare valore alle piccole cose come un abbraccio, che per me è quel calore che viene da dentro e che desideri trasmettere all’altro. Un abbraccio è affetto, quando lo ricevo mi sento felice e il mio cuore inizia a battere forte perché mi sento avvolta dal calore.

Durante la malattia invece anche il mio cuore era stanco di battere, ero arrivata a 40 pulsazioni e ancora mi chiedo come sono riuscita a sopravvivere. La mamma mi svegliava la notte per controllare se fossi viva, quando ero ricoverata in pediatria mamma non dormiva mai la notte perché doveva vegliare su di me, temeva che il battito potesse scendere ancora e ancora, fino a cessare completamente.


Giada in quel periodo era in un mondo parallelo, talvolta riusciva ad entrare nel mio mondo surreale per qualche breve istante in cui riuscivo a sentirmi me stessa, poi la malattia la cacciava. In quegli attimi dicevo a me stessa “Giada combatti, ce la puoi fare” ma la malattia era sempre più forte e mi ricacciava nel baratro. Per affrontare questa malattia ci vuole una forza che non riesco neppure a spiegare, una forza che io non avrei mai pensato di possedere. Combattere contro sé stessi è difficilissimo, è orribile. Sei due persone: pensi di essere forte e in realtà sei fragilissima, pensi di essere grassa e in realtà sei magrissima. Ancora oggi la bilancia mi spaventa un po’, anche il solo fatto di pesare gli alimenti. Quando salivo sulla bilancia il cuore iniziava a battere forte, vedere il peso che pian piano saliva per me era una conquista ma al contempo un fallimento. In realtà prevaleva la sensazione di conquista perché, a parte nel primo periodo, io volevo guarire perché io amavo lo sport e il cibo. Il fatto di non mangiare mi faceva sentire potente ma affamata. Io ero affamata di vita, volevo essere vista per quello che ero, volevo uscire con gli amici, volevo un cane. Volevo poter mostrare anche le mie forme, ma andavo a scuola con le felpe giganti perché la mia magrezza mi faceva sentire tanto freddo. Ora posso indossare pantaloni e magliette corte, anche se mamma mi dice di coprirmi perché altrimenti rischio di prendermi un malanno.

Io avevo il controllo non solo sulla mia vita ma anche su quello di mamma e di mio fratello. Se loro non mangiavano io mi mettevo a piangere, se loro si muovevano troppo li costringevo a sedersi perché mi davano fastidio, mentre io facevo esattamente il contrario di quello che imponevo a loro.

Spesso le persone dicono con ipocrisia che la bellezza è una cosa interiore, il carattere, la dolcezza, il garbo ma poi rivolgono il loro sguardo e desiderano le persone unicamente per le loro caratteristiche fisiche. Io penso che la bellezza sia la capacità di pensare con la propria testa, di non giudicare e di accettare l’altro per quello che è, senza volerlo cambiare. Io prima dovevo piacere agli altri; ricordo un episodio all’epoca delle scuole medie, avevo incontrato un mio ex compagno di scuola che mi piaceva e che mi disse “Giada quanto sei dimagrita, sai che mi piaci di più”; in quel momento mi sono sentita felice ed ho iniziato il mio drammatico percorso

La malattia mi ha insegnato ad amare Giada, senza di essa non sarei mai riuscita ad amarmi per quello che sono. Penso che la perfezione non esista, la perfezione è soggettiva, è essere unici con i propri pregi e difetti.

A mia mamma vorrei dire che mi dispiace averla fatta soffrire così tanto e mi rendo conto di quanto sia forte e di quanta forza mi ha trasmesso. Provo un immenso amore per lei e non so se mai riuscirà a perdonarmi per quello che le ho fatta passare. Mi rendo conto che nei miei genitori è rimasta una grande paura, perché quando capita che non voglio mangiare una determinata cosa il loro pensiero torna immediatamente alla malattia.





 
 
 

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