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Gianmaria


E’ molto più facile esprimersi attraverso la pittura piuttosto che con le parole. Raccontare le emozioni mediante la parola è sempre piuttosto complicato, è difficile trovare le parole giuste, è difficile non vergognarsi.


 

Sono Gianmaria, raccontare di me non è facile. La mia malattia mi accompagna ormai da più di vent’anni. Per me non è stato facile accettare il concetto che dietro al mio modo di essere si nascondesse una malattia.

E’ cominciato tutto più o meno verso i primi anni dell’Università quando sono andato via da casa la prima volta. Venivo da una rottura con la mia prima ragazza, che mi ha lasciato una cicatrice profonda, da cui ho impiegato anni per riprendermi.

Questo evento, aggiunto al fatto che ero da solo, senza più il riferimento dei genitori e della vita a casa, mi ha condotto verso quella che io pensavo fosse solo una vita sregolata: ho iniziato a mangiare tanto, a bere tanto e a fare pochissima attività fisica; col tempo sono peggiorati sia il mio stato fisico che quello psichico.

Fino a 7/8 anni fa non sono stato consapevole di questa malattia, ignoravo cosa fosse un disturbo alimentare, nella fattispecie un Binge Eating Disorder; i medici che avevo consultato sino ad allora affermavano che si trattasse di obesità. Ho preso coscienza durante il primo ricovero a Villa Maria Luigia, dopo che il problema era emerso da un precedente ricovero, nel 2012, presso l’ospedale Auxologico di Piancavallo.

Dopo la diagnosi per me è stato difficile togliermi di dosso i sensi di colpa, mi sentivo responsabile di quanto accaduto per aver scelto un determinato stile di vita, per aver attuato una serie di comportamenti che mi avevano condotto in questa direzione. Ho impiegato parecchio per capire che non mi dovevo colpevolizzare.

Questi terribili sensi di colpa li provavo sia nei confronti di me stesso che nei confronti dei miei genitori. Fino alla fine del percorso universitario questa cosa non mi aveva creato grossi problemi perché ero riuscito a concludere i miei studi anche se non proprio benissimo e nei tempi giusti, avevo una vita sociale normale, con degli amici, e frequentavo molte persone.

Poi ho iniziato ad avere difficoltà nel mondo del lavoro; la nostra situazione economica non è molto stabile: è sempre stata caratterizzata da alti e bassi. Sapevo che farmi studiare lontano da casa aveva richiesto grossi sacrifici da parte dei miei genitori e mi sentivo quindi in dovere di restituire qualcosa. Non riuscendo ad ottenere i risultati sperati, ho cominciato a sentirmi in colpa. Sotto questo punto di vista non ho avuto pressioni dall’esterno: ero io il giudice più severo nei confronti di me stesso.

Ho iniziato a sentirmi inadeguato, e questa cosa non l’ho ancora superata, mi ritrovo a 40 anni senza un lavoro, senza una compagna, senza una casa.


Guardando i miei amici che sono sposati, iniziano ad avere figli e comunque hanno le loro vite mi sento un fallimento completo.

Sento che la vita mi è scivolata tra le dita, non riesco a capire come siano trascorsi questi ultimi 15 anni, e neppure che fine abbia fatto Gianmaria.

La solitudine è stata sempre qualcosa che da un lato mi spaventava e dall’altro invece ho finito per trovarla confortevole. Alla fine della storia sentimentale di cui ho parlato prima, sono stato molto tempo senza una donna e questa cosa mi ha fatto sentire solo, nonostante avessi altri contatti sociali e avessi degli amici.

Poi è arrivata la malattia e il cibo sicuramente aiuta a non sentire la solitudine, ti riempie tutti i vuoti, anche quelli dell’anima.

Sembra una contraddizione pensare che la cosa che ti permette di vivere tu la utilizzi per distruggerti. In realtà non so neanche se ero cosciente di utilizzare il cibo in maniera distruttiva, al pari di qualunque altra droga.

Fondamentalmente per me il cibo è una droga. Purtroppo ho una personalità dipendente a prescindere da quale può essere l’oggetto della dipendenza. Di dipendenze ne ho sviluppate tante, le mescolo, le cambio, smetto con una e inizio con un’altra. Non sono mai finito nel vortice delle droghe pesanti solo perché probabilmente avevo talmente paura degli effetti fisici a breve termine ed anche per il costo, per cui non mi ci sono neanche avvicinato.

Per il resto ne ho avute e ne ho, dipendenza dalle sigarette, dall’alcol, dal sesso, dai videogiochi, insomma tutti le dipendenze possibili. Anche l’amore in tutto questo è diventato una dipendenza, in realtà non era dipendenza dal sesso, era dipendenza affettiva, dalla persona con cui stavo, che amavo o che pensavo di amare, perché poi mi sono reso conto che non so se con questa malattia sia veramente possibile provare amore per qualcun altro. Forse era il disperato bisogno di aggrapparsi ad un affetto.


Un abbraccio può essere una cosa molto bella, una cosa in cui ti perdi, in cui trovi calore e vicinanza e può riempire in parte quel vuoto che hai dentro, il problema è che poi rischi di diventare dipendente da quell’abbraccio.

Amore verso me stesso non ne ho, adesso so di non volermi bene, so che il mio problema principale è questo, non riesco ancora adesso a fare qualcosa per me o a prendermi cura di me stesso.

Tutti mi dicono che per innamorarsi bisogna amare prima di tutto sé stessi, e allora io mi chiedo “ma allora io non ho mai amato nessuno?” Le uniche persone di cui ho la certezza che mi hanno amato e mi amano sono i miei genitori, le sole di cui non dubito. Loro sono anche le uniche persone che in qualche modo mi hanno tenuto in vita perché l’idea del suicidio l’ho sfiorata diverse volte, non l’ho fatto solo ed esclusivamente per l’impatto che avrebbe avuto sui miei genitori. Ho avuto dei momenti in cui sarebbe stato solo un sollievo quello di chiudere tutto, di dire “basta”.

Sicuramente è l’eccesso di sensibilità che ti porta ad affrontare in maniera scorretta gli eventi della vita. Me ne sono reso conto con le esperienze che ho vissuto durante i ricoveri, tutte le persone che ho conosciuto, colpite da questi disturbi, dimostravano profonda sensibilità. Evidentemente c’è un meccanismo di adattamento nell’essere umano che dovrebbe funzionare in maniera tale da farti sopportare i dolori, le sofferenze, i cambiamenti che ci sono nella vita; ma che in alcune persone particolarmente sensibili, non funziona adeguatamente. A quel punto devi trovare degli altri modi per sopravvivere.

So solo che dentro di me c’è un vuoto che io non riesco a riempire, in questo momento il cibo è una delle cose che riesce a farlo, molto spesso ho bisogno di fare ricorso anche alle altre forme di dipendenza. Il cibo è la cosa più semplice da procurare ed è anche la dipendenza più accettata socialmente: io non mi sono mai dovuto nascondere di più di tanto. Ho iniziato a farlo, con i miei genitori, quando ho aggiunto anche l’alcol; non mi sono mai nascosto agli amici o agli altri.

Poi anche qui subentrano delle storture, perché mangiare tanto e bere tanto in alcuni contesti è quasi un segno di forza. Forse in realtà nascondevo a me stesso in questo modo le mie debolezze.

Accade che nella vita si cerchi di compiacere gli altri oppure di essere quello che gli altri volevano che tu fossi e ogni minima critica, ogni minima osservazione ferisce, incide e fa sì che alla fine non sai più esattamente cosa voglia dire “essere te stesso”.

Per colmare questo vuoto bisogna trovare l’amore, gli abbracci, riconciliarsi con sé stessi, cercare cose positive che favoriscano le emozioni per trasformare queste dipendenze in qualcosa di costruttivo.



Ultimamente mi trovo ad avere grossi problemi con le emozioni perché non c’è più niente che mi faccia battere il cuore. In questi giorni alcune persone si stanno interessando ai miei quadri per comprarli, cosa che non avrei mai pensato potesse accadere sinceramente, dovrei quindi provare piacere, emozioni positive, mentre invece mi rendo conto che non provo quasi niente.

La pittura è semplicemente un linguaggio che uso per esprimermi, mi permette di mettermi a nudo senza espormi. E’ un linguaggio che va decriptato perché ognuno può leggerlo a modo suo, senza conoscere quello che io intendevo significare: lo conosco solo io e rimane mio.

E’ molto più facile esprimersi attraverso la pittura piuttosto che con le parole. Raccontare le emozioni mediante la parola è sempre piuttosto complicato, è difficile trovare le parole giuste, è difficile non vergognarsi. Parlare di sé stessi, delle proprie debolezze, delle fragilità senza vergogna, come sto facendo ora, è molto complesso.

Ho scelto di farlo perché ho pensato che fosse giusto dare un contributo a qualcosa che può essere d’aiuto ad altre persone che vivono la mia stessa situazione. E’ da quando sono all’interno di questo mondo che cerco un modo per aiutare oltre che me stesso anche gli altri, ho sempre provato il bisogno di fare qualcosa per il prossimo.

Uno dei progetti lavorativi che avevo, anzi che ho, anche se per il momento è tutto fermo, riguarda lo sviluppo di un centro di terapia occupazionale, di ergoterapia per persone con fragilità psichiche.

Vorrei che quello che ho passato e sto passando io possa servire ad altre persone che sono in questa situazione.

In questo momento è tutto fermo perché probabilmente una parte di me non ci crede più, non crede che sia possibile fare qualcosa.

Però vorrei dire a Gianmaria che ce l’ha davvero ancora una possibilità di ricostruire la propria vita, di formarsi una famiglia, di trovare soddisfazioni nel proprio lavoro; che esiste ancora questa opportunità, che non è troppo tardi.

Vorrei trovare il modo per ringraziare i miei genitori per tutto quello che fanno per me perché non lo faccio mai o non lo faccio mai abbastanza, e anche se a volte sembra che mi diano fastidio vorrei dire loro che non è così, è solo che io non trovo pace con me stesso e non riesco neppure ad essere in pace con loro.




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Eleonora

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