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Giorgia

Aggiornamento: 9 gen 2022






Mi chiamo Giorgia e sono un’educatrice della comunità Gardenia di Villa Miralago.

L’educatore è concepito generalmente come una figura che dà sostegno e accompagna, in un processo di cambiamento, l’individuo. Lo si immagina affiancato soprattutto ai bambini ed alle persone con disabilità.

In realtà qui dentro l’educatore è molto di più, perché convive quotidianamente col paziente, è il suo primo punto di riferimento e lo segue in ogni azione.

L’educatore ascolta, accoglie, accompagna, sta accanto all’ospite, si occupa delle relazioni, delle attività dei gruppi, vive con loro ogni emozione. Nell’équipe ha un ruolo fondamentale nel percorso di cura del paziente; è un pezzo del puzzle che si incastra perfettamente con tutte le altre figure che ruotano intorno al soggetto

Accompagna, tendendo la mano, l’ospite nel suo cammino, adoperandosi affinché accetti questo supporto.


All’inizio i familiari faticano a comprendere questo ruolo, perché l’educatore è quella figura che stabilisce limiti e regole, e fa in modo che vengano rispettate, per il bene di tutta la comunità.

Per il genitore all’inizio è complicato capire la regolamentazione circa l’utilizzo del telefono, l’iniziale sospensione dei contatti con l’esterno, e veniamo visti come una sorta di gendarmi. Col tempo, quando hanno la possibilità di conoscerci nei veri incontri d’équipe, comprendono che ogni nostra azione ha un senso e viene ponderata.

Noi siamo i primi a credere che la famiglia svolga un ruolo fondamentale nel processo di guarigione, e riteniamo sia molto importante il suo coinvolgimento. In un primo momento però è necessario sospendere l’uso dei social network, delle telefonate, di WhatsApp e dei contatti con l’esterno più in generale. Questo permette all’ospite di concentrarsi meglio su quello che sarà il suo percorso, di prendersi il tempo di conoscere l’équipe e il contesto in cui si trova per poi gradualmente abituarsi a quello che sarà il suo cammino di cura.

Il rapporto di quotidiana condivisione che si instaura con gli ospiti è molto “forte”, rappresentiamo per loro un punto di riferimento importante e, inevitabilmente, ci affezioniamo. Non lavoriamo con degli oggetti ma con degli individui, chiaramente anche noi ci mettiamo in gioco, oltre che come professionisti, anche come persone. E’ una relazione di rispetto e fiducia reciproca, finalizzata all’aiuto. L’educatore è un terapeuta che ha un obiettivo chiaro e preciso, il rapporto d’affetto che si instaura non è lo stesso che ci lega ad un amico o un parente.

La possibilità di creare un rapporto di fiducia è direttamente proporzionale a quanto la persona che soffre di disturbo alimentare voglia guarire, più la persona è intenzionata a trovare una via d’uscita dalla malattia meno fatica fa ad affidarsi e a sviluppare un legame di fiducia. Questo parte proprio dalla persona, generalmente una volta che hanno avuto la possibilità di conoscerci si affezionano e si fidano anche in maniera molto spontanea.

Si incontrano difficoltà, resistenze che non si manifestano verso di noi operatori, ma nei confronti di una prospettiva di vita senza malattia.

Come donna e come mamma fatico a non farmi coinvolgere troppo, di fronte a tanta sofferenza è difficile e, a volte, anche se un po’ precocemente, penso al futuro dei miei bambini e mi spavento, perché queste malattie sono sempre più diffuse e l’età si sta abbassando molto. Cerco comunque di rasserenarmi e di staccare. E’ normale non riuscirci al cento per cento, non siamo commessi di negozio che, finito di piegare magliette, chiudono e tornano a casa. A volte staccare, concentrarsi sulle priorità personali ed andare avanti richiede un grosso sforzo. Naturalmente è necessario confrontarsi con i colleghi, abbiamo anche noi degli spazi in cui parlare e sfogarci e anch’io chiedo supporto per calibrare la mia emotività, ovvero per essere coinvolta ma non travolta.

Mantenere un corretto distacco è importante, sia per noi operatori che per i ragazzi, perché non va bene neppure essere troppo presenti. Il nostro obiettivo è quello di abituare gli ospiti ad avere delle relazioni più sane rispetto a quelle che hanno avuto con i familiari o con persone della loro sfera quotidiana, che in qualche modo, spesso involontariamente, hanno contribuito ad alimentare la malattia.

Inizialmente, considerando anche la mia esperienza di mamma, si prova una sensazione di rabbia perché, ragionando da persona sana, ci si domanda se non esista un altro modo per manifestare il proprio malessere. In un secondo momento si comprende che arrabbiarsi è ingiusto e come questa reazione sia stato l’unico canale attraverso il quale, inconsciamente, la persona ha dato sfogo al disagio. La malattia che ha prevalso sul pensiero razionale.

La fame di questi ragazzi non è in realtà fame di cibo, è fame di affetto, di amore, di ascolto, di condivisione, di comprensione, di accettazione, di supporto … di tutto. Hanno una forte emotività, e convivere con questa fame è logorante, non è colmabile con un piatto di pasta, è un vuoto ben diverso. E’ il bisogno di sapere che c’è qualcuno su cui contare, che ti accetta per come sei e ti dà l’affetto che magari non hai avuto. Qualcuno che crede in te, che ti dà la possibilità di realizzare i tuoi sogni, che ti supporta qualsiasi scelta tu faccia nella vita, lavorativa, universitaria, sessuale. Sapere che c’è qualcuno che è lì per te.

Ci sono ragazzi che arrivano a farsi del male, per loro l’autolesionismo è l’urlo che non riescono ad emettere, ma per certi versi è quasi un calmante, attenua tutto il dolore emotivo e psicologico che stanno provando. Fare del male al proprio corpo in qualche modo alleggerisce il loro fardello. Per noi non è piacevole vedere tutti quei segni sulle braccia dei ragazzi, alcuni allarmano di più altri, ma in ogni caso il nostro obiettivo è quello di distogliere l’attenzione dall’autolesionismo e proporre un’altra forma di sfogo. La prima volta che ho assistito ad un episodio di autolesionismo ho provato molta paura, ero qui da poco e mi sono spaventata perché non capivo il significato e la portata di questo gesto. Non ci si abitua mai, ma a lungo andare mi sono un po’ rasserenata, so che è solo la punta dell’iceberg, sotto ci sono altre cose. Certo quando vedi le ragazze che si fanno del male, che sanguinano non è mai piacevole, anche dopo dieci anni che fai questo lavoro.

Qui dentro ogni momento è prezioso. Oltre che ai momenti strutturati quali i gruppi, le attività, i colloqui e l’orario dei pasti,ci sono momenti più informali, come una partita di calcetto, la sigaretta in giardino tutti insieme, o le serate in cui si canta e balla tutti insieme. Momenti pregevoli che a noi consentono di approfondire la conoscenza di certi aspetti dei ragazzi, e a loro permettono di cambiare il punto di vista, fare nuove esperienze, magari piccole, che risvegliano sentimenti ed emozioni fino a quel momento anestetizzate. Una fonte di arricchimento per tutti, che fornisce strumenti utili e perfezionabili per costruire un cambiamento.

Occorre concedere del tempo ai pazienti per realizzare che anche questa malattia ha un suo scopo, consentirgli di comprendere ed elaborare cosa si cela dietro al sintomo; e poi trovare la strada per ripartire. Pretendere di sradicarla in modo brusco può essere deleterio. Talvolta, quando vediamo che una fase di “pericolo” è passata, scegliamo di fermarci, di concedere una “pausa” per permettere alle ragazze e ragazzi di elaborare quanto acquisito, prendere fiato, per poi proseguire.

Succede invece che i genitori abbiano fretta, si aspettino la guarigione dopo un mese di comunità, ma questa malattia è subdola, la ripresa di peso è l’aspetto più appariscente, ma dietro c’è molto lavoro da fare e spesso i familiari si spaventano e si demoralizzano per la lunga attesa. Gradualmente, durante il percorso capiscono e, vedendo gli altri cambiamenti, si rendono conto che forse “tutto e subito” non funziona; anzi spesso è alla base della malattia. Da lì iniziano a cambiare le dinamiche e le vedute familiari. Nei limiti del possibile i curanti devono supportare anche le famiglie.

Ragazzi e genitori dimostrano una grande forza, anche se diversa. Il paziente spesso è ambivalente, desideroso di curarsi in struttura, ma spesso anche di lasciarla per continuare a crogiolarsi nella malattia; quando compie la scelta di restare e curarsi però tira fuori una forza immensa. I genitori da parte loro hanno una forza inspiegabile perché non lasciano mai i figli da soli, la malattia travolge anche loro, ma non perdono la speranza che il figlio possa star meglio.

Sono molto vicina ai genitori e li stimo moltissimo, perché è difficilissimo avere un figlio ricoverato, magari anche poco collaborante e vivere nell’incertezza della guarigione.

A volte ci affidano i figli ma non sempre riescono ad avere immediatamente fiducia in noi. Il rapporto di fiducia si instaura nel momento in cui ci conoscono, capiscono come lavoriamo e che perseguiamo lo stesso scopo. Dobbiamo trovare una linea comune, fare in modo che collaborino e non siano d’ostacolo. Quando ciò avviene il percorso di guarigione procede in maniera più efficace.

In questa malattia così complicata la figura maschile, generalmente il papà, fatica maggiormente a relazionarsi con la ragazza: c’è la questione del rifiuto delle forme del corpo, il rifiuto del ciclo, il desiderio di sparire o di perdere il perso per mascherare altre mancanze. E’ un tema molto delicato,che generalmente un padre fatica ad affrontare anche con un’adolescente normale; nel caso di una figlia malata, che può fraintendere qualsiasi cosa, il genitore per non rischiare di sbagliare spesso preferisce estraniarsi. Durante il percorso terapeutico invece sono molto presenti, anche se impauriti.

I DCA troppo spesso vengono superficialmente catalogati come un capriccio, e non si comprende che invece esiste un disagio realmente profondo. Alcuni genitori si vergognano di raccontare agli altri che la figlia è ricoverata per disturbo alimentare. Esiste ancora il concetto che, quando si dispone di tutto, si sceglie di non mangiare per ghiribizzo.

Per chi soffre di questo malessere il giudizio è un macigno, sono persone molto severe con se stesse e proiettano questa severità sugli altri. Si sentono perennemente giudicati, perché non hanno preso il voto più alto, per l’aspetto corporeo o perché non riescono a fare una determinata cosa. Si giudicano ferocemente, si isolano e di conseguenza si allontanano dalla realtà.

Dalla comunità escono sicuramente dei ragazzi diversi, è impensabile che una persona sia uguale a quando è arrivata: qualche mese di percorso produce un cambiamento. Il bagaglio di emozioni, di relazioni è differente rispetto a quello dell’ingresso.

Il cambiamento riguarda anche i genitori, talvolta però questi ultimi restano ancorati al passato. Il lavoro deve continuare anche dopo la dimissione, perché quello che viene svolto in comunità è solo una parte della cura, poi è indispensabile proseguire l’attività.

Do molta importanza al mio lavoro, e non potrei mai immaginarmi di svolgerne un altro o di operare in un contesto diverso. Questi ragazzi mi danno così tanto: hanno tanto amore, tanto affetto da donare, sono persone molto intelligenti, molto creative. Necessitano semplicemente di qualcuno che le guidi fuori dall’incubo che stanno vivendo. Hanno la loro personalità, il loro carattere, forza, coraggio e dignità; loro imparano da noi e noi impariamo da loro. Ogni giorno mi trasmettono forza e coraggio, allegria, soddisfazione, felicità e la voglia di continuare.

Le difficoltà principali le riscontro quando la persona è qui controvoglia, quando per il paziente il ricovero non ha senso. In queste circostanze tutto si complica, ogni nostra azione, ogni nostro tentativo viene vanificato. Oltre che difficile è anche abbastanza frustrante anche se poi ci conviviamo e gestiamo la nostra emotività.

Le maggiori gratificazioni le hai quando arriva una persona che ti chiede aiuto, segue il percorso proposto e, alla fine, vince sulla malattia. Quando il paziente ti è eternamente grato, ti ricorda con piacere, a distanza di anni ti gratifica con un sorriso, abbracciandoti e ringraziandoti per il cammino percorso insieme. Sono emozioni bellissime che annullano tutte le fatiche quotidiane.

L’ascolto viene prima della parola. Prima di tutto noi ascoltiamo; offriamo uno spazio dove la persona si senta sicura di potersi raccontare realmente, togliendosi la maschera dietro cui spesso si nasconde. E’ un ascolto attivo, siamo partecipi, annulliamo i nostri pensieri per essere completamente a disposizione del nostro interlocutore. Poi esprimiamo la nostra opinione e diamo consigli.

Credo fermamente che qualunque forma d’arte sia molto efficace nel percorso terapeutico, perché consente di far emergere il dolore o più in generale le emozioni. L’arte, a volte sottovalutata, permette di valorizzare l’aspetto creativo dell’individuo facilitando la manifestazione del suo vissuto con modalità differenti rispetto a quelle a cui si è abituati. Io mi occupo anche di Danza Movimento Terapia, un’attività che mette in campo la danza (che è un’arte) come terapia, per facilitare chi soffre di disturbi alimentari e dispercezione corporea, la visione di sé (corpo – mente - anima) come un tutt’uno.

Attraverso il movimento sano, si può dare voce ai propri vissuti, alle proprie emozioni e ai propri stati interiori che a volte si fatica ad esprimere a parole, per poi rielaborarli e trasformarli o anche solo per acquisire più consapevolezza di sé, dei propri limiti o delle proprie risorse.

I ragazzi, durante la malattia, basano la loro vita su numeri che rappresentano la razionalità assoluta, e sembra impossibile farli avvicinare ad una forma di espressione completamente opposta. A volte invece è più facile di quello che si possa immaginare, spesso abbandonano con facilità questa razionalità a favore della libera espressione artistica. Alcuni ragazzi accettano questa forma di espressione con qualche difficoltà, pazientemente però si può raggiungere un risultato benefico per tutti.

Lavoro qui da otto anni, il periodo più duro è stato quello del lockdown, perché abbiamo combattuto quotidianamente contro queste malattie, in una sorta di bolla che isolava i pazienti dal resto del mondo, per ovvie questioni di sicurezza e tutela della loro salute, ma soprattutto dagli affetti. Molti hanno sofferto la lontananza da casa, l’impossibilità di abbracciare i loro cari, il divieto di uscire per una semplice passeggiata. Per noi operatori si è trattato di un periodo molto faticoso, che però ci ha permesso di capire quanta forza posseggano questi ragazzi per continuare a lottare.

Invito sempre questi ragazzi a regalarsi la possibilità del cambiamento, affrontare il passaggio che consentirà loro di scoprire quanto sia bello vivere, godendo delle piccole gioie della vita; siccome molti restano ancorati al passato suggerisco loro di cambiare idea, quello che è stato non è detto che continuerà ad essere. Li incito a provare, ad aprirsi a orizzonti nuovi per trovare un panorama che li soddisfi maggiormente.

Vorrei sfatare il luogo comune che fa pensare che chi si ammala di un disturbo alimentare, in particolare di anoressia, sia condizionato dagli attuali canoni estetici, che impongono continuamente l’immagine delle modelle. Il disturbo alimentare è diverso dal desiderio di apparire come una modella. Certamente il web e i social propongono esempi che possono trasmettere falsi miti. Esistono addirittura pagine web che incitano e inducono a coltivare certe malattie, chat che alimentano questi malesseri e offrono supporto per perseverare, molto deleterie per queste persone già fragili. L’unica soluzione possibile è continuare a denunciare alla Polizia Postale questi siti. Purtroppo quando vengono bloccati ne nascono altri, ma bisogna insistere.

Ultimamente per fortuna anche lo sport sta attivando iniziative di prevenzione e di riconoscimento precoce del disturbo alimentare, anche le società sportive comprendono finalmente che la salute e il benessere degli atleti viene prima della loro fisicità, molte sono le ragazze amanti di sport come ginnastica artistica, ritmica o danza, che si ammalano.

Attualmente nelle scuole si conducono campagne di prevenzione al bullismo, educazione sessuale e prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili; è importante attivare anche percorsi formativi riguardo ai disturbi del comportamento alimentare. Finora si è data poca importanza a questo tema, anche perché si tratta di malattie poco conosciute, soprattutto non si disponeva di dati numerici. In questi ultimi due anni, anche a causa del lockdown, l’incidenza di queste patologie è raddoppiata. Qualcosa sta fortunatamente cambiando, è divenuto evidente che una diagnosi precoce consente un intervento immediato e più efficace.

Penso che tutte le figure che sono a contatto con bambini e adolescenti, come gli insegnanti, gli allenatori e gli animatori, debbano essere formati anche riguardo al riconoscimento dei DCA, affinché al primo campanello d’allarme si possa intervenire tempestivamente.

Per questo credo fermamente in questo progetto fotografico: è uno strumento che lancia un messaggio forte, chiaro e diretto. Coinvolge immediatamente; confido nel fatto che possa dare un contributo sostanziale alla sensibilizzazione, all’informazione ed alla prevenzione. Chi non soffre, non lavora, non convive o non conosce persone con queste malattie potrà finalmente entrare in empatia con coloro che sono alle prese con i DCA ed averne una visione chiara ed esaustiva.





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Eleonora

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