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Giovanna


"...Un’altra cosa che ho imparato è guardare mia figlia non per la malattia ma per quello che è: non è facile, ricordo che quando pesava 33 chili facevo fatica ad abbracciarla perché sentivo le ossa, mi veniva proprio l’angoscia. Sono però riuscita ad abbracciarla anche in quei mesi perché sono riuscita ad andare oltre quelle ossa, ho pensato soprattutto alla sua anima..."


 

Mi chiamo Giovanna, sono la mamma di Chiara che oggi ha 28 anni ed è mamma di due bellissimi bambini, uno di tre anni e mezzo e uno di nove mesi. Sono una nonna orgogliosa dei miei nipotini e me li sto godendo molto, anche per il vissuto che ha preceduto la loro nascita.

Chiara ha iniziato ad avere problemi in seconda media, noi ce ne siamo accorti immediatamente perché già durante le scuole elementari talvolta diceva di essere grassa mentre sua sorella Letizia era “più magra, più bella, più intelligente e spiritosa”. In seconda media a seguito di una faringite per qualche tempo ha fatto fatica a mangiare, ma ci siamo accorti che dopo la guarigione lei aveva iniziato a mangiare molto meno. Io e mio marito le abbiamo parlato facendole capire che se voleva imparare a mangiare in modo più sano e corretto sarebbe stato necessario rivolgersi ad uno specialista e così ha accettato di andare da una dietologa. La dietologa però ha detto molto onestamente a Chiara che non poteva esserle d’aiuto, che sarebbe stato necessario l’aiuto di uno psicologo, ma lei non accettava assolutamente questa cosa. Per un po’ di tempo abbiamo cercato di convincerla ma poi siamo stati costretti ad obbligarla a farlo, l’abbiamo portata di peso.

L’aver iniziato questo percorso senza che lei lo volesse o ne fosse convinta probabilmente ha un po’ influito sul fatto che, dopo tre/quattro anni, non ci fossero grandi risultati.

Chiara ha iniziato ad abbuffarsi e a vomitare, per anni ha sofferto di bulimia anche se a scuola nessuno si era accorto di nulla. Chiara è sempre stata piuttosto riservata ma anche benvoluta, perché è una persona che sa ascoltare, affabile e tollerante, ma in quegli anni a seguito della malattia i suoi rapporti si sono assottigliati anche perché a quell’età quando si esce in compagnia si va a mangiare il gelato o la pizza, cose che lei cercava di evitare. Durante le superiori abbiamo fatto anche un percorso di terapia familiare, dove a volte era presente tutta la famiglia, altre volte solo io e lei oppure solo lei con il papà. Sicuramente ci ha aiutato a capire alcune dinamiche e alcune difficoltà di Chiara ed anche alcune mie caratteristiche che l’avevano portata a percepire questa grande differenza che vedeva, tra sé stessa percepita come persona incapace e sempre inadeguata e la mamma super-organizzata che lavorava , portava avanti la casa e riusciva ad arrivare dappertutto. Questo non corrisponde assolutamente alla realtà, ma ai suoi occhi questo era il grande obiettivo che si poneva e che sentiva non sarebbe mai riuscita a raggiungere. Una volta comprese queste dinamiche abbiamo cercato di cambiare anche come genitori: a mio marito era stato chiesto di essere un po’ più presente, perché mentre io ero la super-organizzata lui era il padre assente. Sono andati ,Chiara e suo padre, a fare una vacanza senza avere prima organizzato nulla, proprio per farle capire che si può godere la vita ed essere felici anche senza essere perfetti.

Purtroppo il problema non si risolveva, anzi l’anno della maturità è stato pesantissimo, così insieme abbiamo deciso che sarebbe stato utile prendersi un anno sabbatico. Si è iscritta ad una facoltà dove non veniva richiesta la presenza e ha iniziato un percorso in day hospital al San Luca di Milano.

Durante questo percorso sembrava che le cose andassero meglio, anche se negli incontri con i genitori ci dissero una cosa che poi mi aiutò molto, seppur con grande trepidazione, nei mesi successivi. Dissero: “ Voi genitori non potete continuare a mettere la benzina nel serbatoio della macchine dei vostri figli perché altrimenti loro non capiranno mai che la macchina ha bisogno di benzina per poter andare, dovete lasciare che la macchina si fermi; tanto loro sanno che possono chiamarvi e chiedervi aiuto, ma dovete lasciare che tocchino il fondo”. Dico che mi è servito nei mesi successivi perché ad un certo punto Chiara, dopo questo percorso di quasi un anno, si è stufata di continuare a vomitare tantissime volte al giorno e quindi ha deciso di non mangiare più in modo da non vomitare più. Da lì è partita la fase anoressica più pesante: in pochi mesi ha perso moltissimi chili, tant’è che al San Luca ci avevano consigliato di rivolgerci ad una struttura dove ci fosse la possibilità di un un ricovero ospedaliero. Ci siamo trovati a giugno, da soli con questa figlia che continuava a perdere peso, abbiamo contattato la clinica Palazzolo di Bergamo e abbiamo iniziato a fare i colloqui, ma prima della chiusura di agosto l’unica cosa che ci hanno proposto è stata di iniziare dopo la chiusura estiva un percorso ambulatoriale. Ricordo di aver chiesto com’era possibile pensare ad un percorso ambulatoriale per una ragazza che pesava 33 chili e loro mi hanno risposto che Chiara era lì perché l’avevamo portata noi e senza una motivazione personale forte non potevano proporre nulla di più. Ci siamo trovati con la clinica chiusa ad agosto senza alcun professionista a disposizione e abbiamo deciso di correre il rischio. Noi facciamo parte di un movimento e quell’estate il programma era di andare al meeting di Rimini, dove mio marito con alcuni amici avrebbero organizzato il ristorante bergamasco e Chiara avrebbe preparato i dolci. Ovviamente era un grosso rischio, però d’accordo con lei abbiamo deciso di farlo a patto che lei mangiasse frutta e verdura almeno tre volte al giorno.

Quella è stata per lei un’esperienza decisiva e molto positiva; quando siamo tornate Chiara mi ha detto che in quel contesto aveva visto delle persone felici e forse poteva essere felice anche lei. Per quelle persone la felicità risiedeva nella fede che per lei in quel momento non significava niente, ma voleva provarci. Dal giorno dopo Chiara era un’altra persona: la questione cibo andava affrontata secondo strade ben precise, ma lei di fronte alla vita aveva uno sguardo diverso. Aveva ripreso un interesse verso la vita che fino al giorno prima non esisteva e questo lo hanno notato anche alla clinica, tanto che dopo il primo colloquio di settembre ci hanno richiamato dicendo che adesso sussistevano le condizioni perché Chiara potesse essere ricoverata, perché ora c’era la motivazione da parte sua.

E’ stata ricoverata ed è stato un percorso durissimo, perché fino al giorno prima mangiava solo frutta e verdura e dal primo giorno del ricovero le sono stati somministrati cinque pasti di cui i principali prevedevano primo, secondo, contorno condito, frutta e caffè. Aveva la possibilità di chiamare casa un’ora la sera e il primo periodo non faceva altro che chiedermi di portarla a casa; essendo maggiorenne avrebbe potuto uscire ma non l’ha mai fatto e noi non abbiamo mai ceduto. Quei tre mesi sono stati per lei decisivi.

Chiara è uscita dal ricovero e ha continuato il percorso ambulatoriale, si è iscritta ad un’altra facoltà universitaria, ha continuato ad essere seguita alla Clinica Palazzolo che le ha dato l’opportunità di stare in un appartamento dove doveva gestirsi da sola. Lì c’è stata una lieve ricaduta, ma se n’è resa conto e ha chiesto aiuto alla Clinica per poter riprendere un percorso più intensivo.

Nel frattempo aveva conosciuto un ragazzo e anche questo è stato un grande avvenimento, perché lei aveva sempre sostenuto che non avrebbe mai trovato nessuno e che nessuno l’avrebbe mai voluta. Mentre ancora era in cura alla Palazzolo e mentre frequentava l’Università è rimasta incinta. Non era scontato che questa cosa venisse accolta con favore, ma io l’ho interpretata come un dono enorme.

Chiara ha sempre avuto il problema di scegliere, quando andavamo a fare gli acquisti era un incubo perché non riusciva mai a decidere cosa comprare e mi aveva spiegato che aveva sempre il problema di piacere agli altri: così, il fatto che avesse fatto la scelta della maternità, pur sapendo che non sarebbe stata condivisa nell’ambiente, per me è stata veramente una scoperta meravigliosa. Ha deciso di tenere il bambino e anche questo non era scontato ed è una cosa che mi ha resa immensamente felice. Facendo la mamma ha trovato la sua strada, il suo posto nel mondo. Ha imparato a conoscersi, a capire quando ha bisogno di aiuto e quando ha bisogno di tempo, quindi il suo percorso ora ha trovato una giusta dimensione.

Questi ragazzi, come noi del resto , hanno fame di felicità e di significato. Abbiamo necessità di dare un senso alla vita, perché la vita tante volte è fatica e dolore e a maggior ragione la persona ha bisogno che quel dolore abbia un significato, che non vada persa neanche una lacrima.

La malattia di mia figlia mi ha insegnato molto, ho capito che l’imprevisto a volte può essere una cosa positiva che rompe la mia misura e il mio controllo, il mio volere che tutte le cose vadano in un certo modo e che di fronte all’imprevisto si può essere aperti e non arrabbiati. Oggi, dopo questa malattia che mi ha fatto soffrire tanto tra sensi di colpa e non comprensione, ho capito che dietro a tutto questo c’è un mondo che è un mistero enorme e che noi non possiamo impacchettarlo, incasellarlo o giudicarlo. Questo per me è stato un cammino di sofferenza, ma è stato molto positivo. La cosa che mi è mancata maggiormente in quel periodo è stato il confronto con qualcuno che vivesse la mia stessa esperienza e comprendesse il mio dolore.

Ho avuto però delle amiche che mi sono state accanto ed è stata una cosa preziosissima; sono riuscita a mantenere unita la mia famiglia, perché è vero che noi ci sentiamo in colpa ma loro sono affossate da questo senso di colpa.

Il fatto che dei genitori si privino di tutto perché c’è una figlia ammalata che va seguita, secondo me è deleterio non solo per loro ma anche per i figli, perché non gli si da la possibilità di fare quell’esperienza che dicevamo prima, cioè vedere degli adulti che hanno trovato un significato e che sono contenti della loro vita. Ma soprattutto non fai che peggiorare i loro sensi di colpa.

Un’altra cosa che ho imparato è guardare mia figlia non per la malattia ma per quello che è: non è facile, ricordo che quando pesava 33 chili facevo fatica ad abbracciarla perché sentivo le ossa, mi veniva proprio l’angoscia. Sono però riuscita ad abbracciarla anche in quei mesi perché sono riuscita ad andare oltre quelle ossa, ho pensato soprattutto alla sua anima.





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