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Giuliana


" Quando poi è arrivata mia figlia l’ho identificata come il mio riscatto su tutto, volevo per lei una vita migliore, più facile della mia. Mi sono ostinata per lungo tempo a far sì che potesse avere una “famiglia perfetta”, quella che io non avevo avuto."

 

Sono Giuliana, mamma di Martina, che è ricoverata a Villa Miralago da dieci mesi per anoressia nervosa.

E’ cominciata come anoressia per poi trasformarsi in bulimia, quindi perdita del controllo e abbuffate e su consiglio della sua terapeuta abbiamo ritenuto opportuno iniziare un percorso più mirato con un’équipe multidisciplinare, con tanta fatica e tanto lavoro da fare.

Prima che Martina si ammalasse non conoscevo queste malattie e forse all’inizio ho preso la cosa con un po’ di superficialità. Quando nell’ultimo anno di scuola superiore Martina ha iniziato a non mangiare , io pensavo fosse lo stress per gli esami o perché vedeva le forme un po’ più morbide. Onestamente anch’io ho sempre avuto un culto del corpo non proprio sanissimo, sono sempre stata molto attenta e questo mi ha portata a sottovalutare la cosa. Pensavo avesse deciso di mangiare un po’ meno e in maniera più sana, non avevo capito fino in fondo, forse per la difficoltà di accettare una cosa del genere e anche per ignoranza perché sui disturbi alimentari non esiste un’informazione adeguata. Anche le strutture sono carenti e quelle esistenti spesso sono inadeguate riguardo a questo tipo di malattie.

Da quando sono stata coinvolta nella malattia di mia figlia mi rendo conto, guardandomi attorno, che ci sono ragazze che non mangiano, che hanno uno strano rapporto col cibo, sono depresse o non si piacciono e mi sento di dire a tutte le mamme di stare attente perché non si tratta di un semplice “voglio essere magra” dietro c’è ben altro.

Il gravissimo errore che ho fatto è stato quello di concentrarmi sulle cose pratiche della nostra vita e di mia figlia, pensavo che risolvendo quelle cose tipo la rottura con il mio ex compagno e tutto il resto saremmo tornate alla normalità.

Quando i medici mi hanno detto che si trattava di un disturbo alimentare mi sono detta: “ non può essere che mia figlia soffra di un disturbo alimentare, sarà solo un po’ di malessere, un po’ di capricci, i soliti problemi col ragazzo”. Ho molto sottovalutato la cosa e ho fatto veramente tanta fatica ad accettare che mia figlia potesse avere una patologia del genere, perché significava mettere in discussione tutto.

Quando mi dicevano che dovevo affrontare questa cosa pensavo che si risolvesse con due sedute di psicoterapia, invece il DCA sconvolge tutta la famiglia. La nostra famiglia ha una storia complicata, ho avuto Martina molto giovane, avevo 23 anni, e mi sono separata a 24. Martina aveva solo un anno ed è cresciuta con i nonni, in un contesto dove io avevo ancora il ruolo di figlia. Martina faceva fatica a riconoscere in me un’autorevolezza materna e io ero da sola, senza una figura maschile accanto che mi supportasse, era una situazione molto confusa.

Abitavamo sopra la casa dei miei genitori, mia madre purtroppo soffriva di schizofrenia e mio padre era molto concentrato sulla sua malattia, quindi era tutto molto complicato.

Io con la leggerezza di una ragazzina ho cresciuto questa figlia pensando che tutto quello che non avevo potuto fare avrebbe potuto farlo lei, probabilmente ho fatto un grave errore sovraccaricando Martina di grandissime aspettative, di tutta una serie di obiettivi sempre elevati e altamente performanti perché era quello che avrei voluto vivere io e che non mi era stato possibile perché i miei genitori non hanno avuto la possibilità di darmi gli strumenti per realizzarli. Mia figlia in un certo senso era il mio riscatto, la spronavo in tutto come per la ginnastica artistica ad esempio, e raccontavo alle amiche che quella era la sua passione quando in realtà era la mia. In tantissime cose ho fatto questo errore, Martina quanto sei brava, Martina hai grandissime possibilità e puoi riuscire a fare questo e quell’altro, sempre obiettivi molto alti. Adesso invece vorrei solo che mia figlia fosse felice, non mi interessa né una laurea né che faccia il lavoro migliore del mondo perché lei non è me. Io avrei voluto quelle cose per me, probabilmente attraverso mia figlia volevo riscattare un’infanzia che non era stata facile.

Quando ero piccola mi dicevano che ero vivace e intelligente, che avrei potuto fare tutto, quando invece io non avevo la possibilità di fare nulla e dentro mi è rimasta questa frustrazione “del non fatto, dell’incompiuto”, come se il mio essere una persona valida passasse attraverso il successo che gli altri potevano vedere e quando queste cose non arrivavano io mi sentivo sempre più insicura e frustrata. Quando poi è arrivata mia figlia l’ho identificata come il mio riscatto su tutto, volevo per lei una vita migliore, più facile della mia. Mi sono ostinata per lungo tempo a far sì che potesse avere una “famiglia perfetta”, quella che io non avevo avuto.

Anche questo padre che è andato via, è fuggito e non c’è stato ha fatto sì che io pensassi che in qualche modo lo dovessi sostitutire, perché Martina “doveva avere un padre”, una figura maschile accanto. In realtà se, con molta serenità, io avessi passato a mia figlia il messaggio che potevavmo bastare anche io e lei, che una figura paterna se c’è va bene ma deve esserci con un apporto positivo, forse sarebbe stato diverso.

Sento di avere la responsabilità di averle trasmesso le mie frustrazioni. Col tempo e con l’aiuto ho imparato, perché da soli è impossibile, mi sentivo una naufraga.

All’inizio mi sono trovata ad affrontare situazioni assurde, quando tornavo a casa e lei non mangiava non capivo cosa stesse succedendo e piangevo, poi mi sono trovata a dover gestire le abbuffate e il vomito, non sapevo cosa fare e mi arrabbiavo terribilmente perché ad un certo punto Martina non ha più nascosto la malattia, anzi la palesava in maniera molto provocatoria riuscendoci molto bene, suscitando in me una grande rabbia.

Ora leggendo la disperazione di certe mamme penso: “poverina, quanto deve essere difficile affrontare tutto questo”, poi mi rendo conto che tutte queste cose le ho vissute anch’io, è come se mentre le vivi fossi talmente avviluppata che non te ne rendi neppure conto, le devi solo affrontare. Poi quando le hai superate, non perché il problema si sia risolto ma semplicemente perché tua figlia è in una fase diversa o perché si trova in un contesto protetto e riesci a ripristinare un equilibrio differente, una sorta di normalità, ti chiedi come hai fatto ad attraversare tutta quella sofferenza e ti sembra tutto così assurdo, perché tutte noi abbiamo vissuto queste situazioni, le abbiamo superate e siamo qui a raccontarlo.


Poi c’è il giudizio degli altri. Quando portavo Martina alle cene di Natale con la famiglia era una cosa terribile perché io vedevo che la gurdavano, la osservavano e bisbigliavano in siciliano “ mamma mia che secca, che magra” e purtroppo anche da parte della mia famiglia e di persone a me vicine c’era il giudizio “ beh , d’altra parte anche sua mamma è sempre stata attenta, voleva essere magra, e questo è il risultato”.


Ora piano piano e con tanto lavoro ho capito che non ci dobbiamo colpevolizzare, e questo vorrei dirlo a tutte le mamme, perché ognuno è una storia a sé con il suo vissuto alle spalle. Mia figlia ha un DNA diverso dal mio e quindi reagisce alle difficoltà della vita in maniera differente, la mia infanzia non è stata migliore di quella di Martina, io ho avuto altre insicurezze, altre paure, cose che mi rimarranno e con le quali dovrò convivere, pur senza aver sviluppato alcuna patologia particolare. Non penso che sia colpa di noi genitori, forse certi ragazzi fanno fatica a superare certe criticità. Adesso mi sento più serena anche se a volte impaurita, soprattutto quando Martina se ne vuole andare dalla struttura. Avere la rassicurazione da parte dell’équipe, di persone competenti e che mi dicono che Martina è pronta è una cosa, ma pensare che mia figlia metta una firma ed esca mi terrorizza perché non so se sarei in grado di affrontare di nuovo quelle dinamiche. Non sai quante volte ho aperto gli armadi e ho trovato la carta del cibo nascosta, piuttosto che il bagno sporco oppure sono tornata a casa e non c’era più nulla nella dispensa. Io mi arrabbiavo così tanto e credevo che farla sentire un po’ in colpa potesse spingerla a riflettere, allora le dicevo: “ vedi hai magiato tutto , adesso io cosa mangio”. Lei mi guradava così e all’inizio non mi rispondeva, non mi diceva nulla, poi ha cominciato a chiedermi scusa, dicendomi che sarebbe andata a ricomprarmi i biscotti e in quel momento mi sentivo molto cattiva pensando alle cose brutte e tremende che avevo detto a mia figlia. Ma il punto non era quello, io volevo solo farla reagire e mi rendevo conto di non esserne capace.

Il nostro rapporto era cambiato drasticamente, non riuscivamo più a stare assieme nella stessa stanza per più di venti minuti, lei scappava continuamente da casa, era sempre fuori, appena io entravo usciva lei dicendomi che aveva già mangiato.

Lei non era mai a casa e anch’io facevo molta fatica a stare con lei, mi vergono a dirlo ma a volte quando rientravo e non la trovavo provavo sollievo perché io non sapevo più cosa fare e cosa dire.

A volte mentre tornavo a casa mi imponevo di essere amorevole, accogliente, ma davanti a me trovavo un muro e una provocazione continua, un’esasperazione tale da far cadere tutti i miei buoni propositi.

Poi nella fase in cui faceva la vittima dicendomi che mi stava rovinando la vita, che se ne sarebbe andata così io mi sarei liberata di lei, io mi sentivo malissimo avevo dei sensi di colpa atroci. Non serviva a nulla dirle che era la sua vita che stava rovinando , non la mia.

Rispetto ad altri genitori io non sono mai arrivata al punto di aver paura di perderla perché lei mi ha sempre dato l’illusione di riuscire a gestire una vita sociale e forse questa è anche la sua più grande difficoltà. Il fatto di non riuscire ad uscire da questa imapsse è la sua effimera certezza di riuscire a gestire tutto. Martina ha vissuto la malattia come sua compagna, ha camminato con lei fianco a fianco portandosela ovunque, in discoteca, al pub, con gli amici. Lei riusciva a tenerla accanto a sé e contemporaneamente a vivere tutto, poi nel momento in cui la sua “amica anoressia” la chiamava Martina si staccava dal gruppo per assecondarla, come ad esempio rinunciare alla pizza con gli amici perché non poteva mangiarla altrimenti i sensi di colpa sarebbero stati terribili, poi rientrava a casa alle due di notte per farsi un’abbuffata pazzesca e vomitare all’infinito, cosa che io non riuscivo a comprendere perché deve essere una cosa terribile.

Quando succedeva io ne me accorgevo immediatamente, il viso si trasformava, scavato, con le occhiaie, i capillari rotti, gli occhi stanchi, si metteva sul divano per due ore senza riuscire neppure a muoversi perché era stremata. Io non capivo e continuavo a chiederle perché lo facesse e lei mi rispondeva che non lo sapeva.

Questa malattia mi ha cambiato la vita, mi ha insegnato a vivere le cose in maniera più serena, più umile, ho imparato che non è necessario rincorrere chissà che cosa; io ho sempre rincorso qualcosa… ma cosa? Ora mi rendo conto che non lo sapevo nemmeno io. Mi ha insegnato anche ad apprezzare i nostri limiti, io non riuscivo ad accettarli, tutto ciò che non riuscivo a fare per me era sempre un grosso problema perché dovevo riuscire in tutto, dovevo riuscire a raggiungere quell’ideale di perfezione e questo non è altro che il messaggio della malattia che vivono i nostri figli.

Sei capace di controllare tutto, addirittura la cosa più naturale ed istintiva che è quella di nutrirti, io non l’ho fatto in questo modo però in realtà ho fatto una cosa analoga. Io non dovevo rimanere a Catania, dovevo andarmene per vivere in una città più prestigiosa, perché dovevo riuscire a fare il lavoro migliore, dovevo circondarmi di persone di successo. Solo ora mi rendo conto che tutto questo è stato un errore.

Ho imparato ad apprezzare le piccole cose della vita, incontrare un’amica nel baretto della periferia e non essere necessariamente al centro di un evento. Io rincorrevo sempre queste cose attraverso delle simbologie.

La malattia di mia figlia mi ha fatto fermare, mi ha fatto concentrare sulle cose essenziali, mi ha fatto riflettere su cosa volevo da mia figlia, e che non potevo pretendere nulla da lei.

Io a Martina auguro solo di avere una vita serena, circondata da persone che le vogliono bene. Poi che viva a Milano, che scelga di fare la psicoterapeuta o l’estetista a me cosa cambia nella sostanza se lei è felice? Credo di essere stata troppo presente nella vita di mia figlia, esattamente il contrario di quello che non ho avuto io, e mi sono caricata sulle spalle quella parte paterna che non mi competeva diventando “troppo tutto”, e il senso di colpa di non aver dato un padre a mia figlia, anche se non è stata una mia scelta, mi ha fatto rincorrere anche quell’ideale.

Io ho fatto passare a mia figlia il messaggio che nella vita bisogna essere forti, che la vita bisogna prenderla di petto e non bisogna mai arrendersi. Questo è anche vero, ma è necessario saper riconoscere i propri limiti, le debolezze e le proprie fragilità.

Se Martina fosse qui le direi “ Amore mio so che ce la farai, ma soprattutto vorrei darle quell’abbraccio che racchiude tutte le parole”.

Le nostre figlie hanno un grande coraggio e una grande forza perché a vent’anni entrare in una comunità terapeutica e fare un reset di tutto quello che c’è fuori, pur riconoscendo che in quel periodo la loro non era vita, non è semplice. Avere il coraggio di mettersi in discussione non è mai facile.



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