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Giusy Mondello


"...mi fa piacere sentirmi dire “io ho sempre chiamato e ho ricevuto una risposta come da un’amica di famiglia..."


 

Sono Giusy Mondello, lavoro in questa struttura in reception e amministrazione. Sono la prima persona che ha contatti con il paziente. Ricevo chiamate dai genitori, dalle ragazze, dagli Enti, svolgo il lavoro di front office, cerco di capire la problematica che successivamente porterà all’effettuazione delle prime visite, dei ricoveri,delle dimissioni, praticamente tutto quello che riguarda l’attività della struttura.

Ho sempre lavorato a contatto con le persone anche nelle mie precedenti occupazioni perché mi piace la gente, lavorare in questo contesto mi gratifica e penso che gli altri percepiscano questa mia soddisfazione.

Sono una mamma e ritengo di essere una persona sensibile e quando una mamma chiama,spesso sfogandosi e piangendo, emerge questa sensibilità nei suoi confronti, anche se non la vedo, intuisco la difficoltà, le problematiche e la paura. Secondo me la prima cosa da fare in questi frangenti è accogliere e rassicurare, cerco di trasmettere tutto questo subito, con un buongiorno che implica un “cercherò di aiutarla”. È necessario fornire informazioni su come risolvere le situazioni, questi genitori spesso sono disperati perché incontrano difficoltà con gli Enti, occorre spiegare che necessariamente dobbiamo rapportarci con loro, che purtroppo spesso hanno un grande numero di persone da gestire. È indispensabile orientarli e aiutarli a formulare correttamente le richieste, per evitare inutili attriti che sarebbero controproducenti.

Spesso molti genitori mi chiamano dicendomi che non sono ancora riusciti a risolvere i problemi burocratici, però parlando con me anche solo qualche minuto si sentono più tranquilli; a me fa molto piacere pensare anche soltanto di dare loro la forza per andare avanti, e non perdere la speranza.

A volte chiamano delle ragazzine con un filo di voce sottile, impaurite, e spiego loro che cosa si può fare, che c’è sempre la possibilità di uscirne. A volte dichiarano: “ma io non ce la faccio a stare in una struttura dove non posso uscire” allora cerco di convincerle spiegando che ci sono tante ragazze che vorrebbero entrare e si trovano di fronte ad ASL che fanno molte difficoltà o che non possono pagare un ricovero, mentre loro hanno questa opportunità. A volte percepisco il loro timore e suggerisco di fare una prova, e se dopo due giorni che sono qui da noi non vogliono restare nessuno le costringerà. È importante offrire loro la libertà di scelta, provare e poi magari andarsene.

Ritengo che fin dal primo contatto telefonico devi lasciare qualcosa, non come venditrice, devi trasmettere un po’ di umanità, una sorta di complicità, perché questo talvolta può fare la differenza per una persona che sta soffrendo.


Quando entrano le ragazze impaurite per la prima volta, le porto a visitare la struttura e spiego loro tutte le attività che si fanno in comunità. Racconto che accade sempre di vedere lacrime all’arrivo e i pianti di tutti, anche i nostri, alle loro dimissioni. Lo spiego soprattutto alle ragazze che non vogliono neppure vedere la struttura, mostro loro la piscina, la palestra, le porto di sopra, dove si vede il lago e durante il percorso racconto loro di quando, durante l’Expo, le ragazze hanno ballato davanti ad una moltitudine di persone. Ci sono state ragazze che non volevano andare in piscina per timore di mostrarsi in costume o non volevano nessuno quando facevano psicomotricità e poi all’Expo le abbiamo viste fare delle cose meravigliose, per noi questo traguardo, il loro cambiamento è motivo di vanto.

Vedendo queste ragazze tutti i giorni ti ci affezioni, non dico che siamo una grande famiglia ma qualcosa di molto simile, perché condividiamo la quotidianità, ogni giorno vedo la tristezza, a volte passano e mi dicono “Giusy mi puoi dare un abbraccio?”, per loro un abbraccio è importante come lo è accoglierle ed ascoltarle.

Ci sono ragazze ed anche genitori che vengono a salutarmi e a ringraziarmi anche se io non sono una terapeuta, ma per loro questo non ha importanza, per loro era importante la mia presenza,la sensazione che provavano quando telefonando sentivano di chiamare la casa dove c’era la loro figlia e i loro timori si affievolivano. Ormai gli ospedali sono talmente saturi che quando qualcuno chiama difficilmente riesce a parlare con il medico, spesso viene chiusa la comunicazione, perché non riescono a far fronte a tutte le richieste e soprattutto ad instaurare un rapporto. Qui è diverso, mi fa piacere sentirmi dire “io ho sempre chiamato e ho ricevuto una risposta come da un’amica di famiglia”, perché non metto soggezione, perché vengono sempre ascoltati anche se chiedono cento volte la stessa cosa.

I genitori solitamente chiedono informazioni riguardanti i figli, magari sono stati ricoverati il giorno prima e vogliono sapere come sta e spesso io questo ospite non l’ho neppure visto. Non posso dare informazioni circa le condizioni cliniche del paziente, non è mia competenza ma non mi piace neppure lasciarli preoccupati. Allora cerco di tranquillizzarli dicendo “non si preoccupi, è passata oggi, ha fatto colazione” per maggiori informazioni chiameranno i nostri medici o l’educatrice assegnata. I genitori chiamano per mille motivi, spesso mi chiedono istruzioni su come si devono comportare, e allora cerco di farli parlare col medico o l’educatore, purtroppo e le nostre équipe hanno tantissimo lavoro e non è sempre facile.

In questo contesto il mio lavoro non è il classico lavoro di segreteria, è molto di più.

Da mamma è difficile non portare a casa la sofferenza che vivo ogni giorno, un po’ di questo dolore inevitabilmente mi accompagna perché mi rendo conto che non le posso aiutare da punto di vista clinico, ma posso accoglierle con calore, cerco di farle sentire come in famiglia, di farle stare bene anche solo con un sorriso, con una battuta, oppure mettendo la musica che loro preferiscono. Cerco di ascoltare i loro bisogni anche se spesso non posso fornire loro la soluzione, a volte passano e dicono“ oggi non è giornata” e io cerco di rincuorarle, dicendo che non tutti i giorni ci si può alzare col piede giusto e cerco di alleggerire la loro malinconia.

Come mamma comprendo tutte quelle mamme che mi dicono che non ce la fanno più, ed è vero. Non ce la fanno più le ragazze ma non ce la fanno più nemmeno i genitori. Questa malattia è devastante, è complicatissima, fino a quando non scatta qualcosa nella ragazza, è lei che deve dire “adesso basta, sono più forte io”.

Quando le ragazze vengono dimesse quasi tutte lasciano una lettera o piccoli pensieri per ringraziare ognuno di noi per qualcosa. Essere ricoverate, specialmente in questo periodo di lockdown, in cui non sono potute uscire a farsi la passeggiata con l’operatore è stato pesantissimo. Hanno un grande bisogno di essere sostenute, le attività che vengono fatte qui dentro, servono ad aiutarle nel loro percorso, e nel momento in cui non riescono a parteciparvi è perché non riescono ad attingere nulla da nessuno.

Poi magari vi è un momento in cui la loro compagna di camera o qualche altra ragazza fa scattare “un qualcosa” e ti sorprendi vedendo che da un momento all’altro si aprono, poi peggiorano, e noi che non siamo medici rimaniamo e ci domandiamo “ma come? sembrava stesse meglio…”, però quando riacquisiscono la consapevolezza cambia tutto. Hanno bisogno prima di tutto di capire chi sono, cosa devono fare per stare bene, da lì in poi si cominciano a vedere dei risultati. Qui gli operatori sanno qual è il modo corretto per gestire le varie situazioni: a volte con dolcezza a volte con fermezza.

Quando le ragazze arrivano devono capire chi sono, cosa devono fare e da lì si cominciano a vedere dei risultati, proprio perché qui dentro esiste il modo giusto per approcciarsi a loro, a volte con dolcezza a volte con fermezza.


Tantissimi ragazzi mi chiamano ancora dopo anni per salutarmi, oppure due tre volte l’anno tornano per rivedere le compagne e per fare un po’ di baldoria. Qui in realtà lasciano un pezzo di cuore, è un po’ come nei film piangono quando arrivano e piangono quando se ne vanno.

Evidentemente la passione che mettiamo nel nostro lavoro lascia qualcosa a loro e loro lasciano qualcosa a noi.

Il momento più difficile del mio lavoro è comunicare la lista d’attesa, in quel momento mi sento piccola così, perché quando un genitore mi chiama disperato emi dice “mia figlia sta morendo, è all’ospedale e stiamo cercando di inserirla in una struttura” e io devo rispondere di mandare la richiesta, la domanda d’inserimento e la successiva la valutazione, ma che purtroppo c’è un anno e mezzo di lista d’attesa mi fa star male. Dall’altro capo del telefono un genitore crolla e come fai a spiegare che le liste d’attesa specie nel periodo del lockdown sono triplicate? Per me è molto complicato, cerco di fargli intravedere una possibilità. Provo a spiegare che se la ragazza è troppo grave ci sono altre vie, ma quando non hai neppure un posto disponibile è complicato.

Ci sono anche momenti di tristezza, quando vedi una ragazza che è qui da un po’ di tempo, che sta rifiorendo e poi ha un altro cedimento, in quel momento soffri anche tu. Soprattutto quando si tratta di ragazzine piccole, io ho avuto richieste d’inserimento per bambine di otto anni, che noi non possiamo neanche accogliere.

I momenti più belli sono quando vedo i loro cambiamenti, ragazze che all’arrivo non parlavano con nessuno, molto chiuse, che poi si trasformano al punto di diventare irriconoscibili. Quando fanno teatro a volte vedo ragazzine che suonano la chitarra e cantano e mi affiora il ricordo di quando se ne stavano in un angolo silenziose e tristi.

Nei confronti di queste malattie c’è ancora molta ignoranza, ogni tanto senti qualcuno che dice “mangia un bel piatto di pastasciutta” e spesso questa ignoranza la trovi anche negli Enti e tra i medici di base, e il paziente, suo malgrado, è costretto ad avere a che fare con loro. Spesso alcuni medici conoscono la problematica ma la sottovalutano, oppure fanno battute infelici senza rendersi conto che pronunciano parole che pesano come pietre.

Nella struttura ci sono regole circa il modo di vestire, di comportarsi e sull’uso di determinate parole. L’abbigliamento è importante perché tra le ragazze vi è un confronto continuo e non guardano solo il vestito, guardano le gambe, le braccia, il viso per cui si cerca non tanto di coprire ma in un certo senso di uniformare. Io lavoro qui da 12 anni e inizialmente mi veniva spontaneo dire “sei bellissima” o fare un complimento ma ci hanno spiegato che certe parole che a noi sembrano banali possono scatenare una crisi, soprattutto nel momento in cui magari hanno preso un chilo, ovviamente non conoscendo questa realtà non potevo sapere, col tempo ho compreso tante sfaccettature, con chi è possibile dire alcune cose e con chi non lo è, chi puoi abbracciare e chi no, perché anche un gesto come l’abbraccio che tu reputi amorevole può creare difficoltà.

Però il sorriso, anche solo quello che si legge nello sguardo, soprattutto ora con le mascherine, serve sempre e a tutti, e ne abbiamo bisogno anche noi.

Gli educatori insegnano anche ai genitori il linguaggio da utilizzare coi loro figli, per aiutarli ad approcciarsi in modo adeguato. A volte il genitore chiama e dice, io ho il frigorifero pieno ma non riesco a convincerla a fare un pasto, è come quando porti i bambini piccoli alla materna, fin quando ci sei tu piangono disperati, poi li sbirci dalla finestra e ti rendi conto che hanno smesso.

Le riunioni che facciamo con i genitori il sabato, rappresentano un’ancora di salvezza perché tra di loro si creano rapporti di solidarietà e di confronto e questo è molto importante.



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Eleonora

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