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Irene


" Mi vergognavo ad uscire di casa perché le persone non mi riconoscevano; oppure sentivo dei pesanti commenti del tipo “ora sei più carina, non sei più uno scheletro” e questi giudizi pesavano su di me come macigni."

 

Mi chiamo Irene, ho vent’anni e a volte considero banale la storia della mia malattia, nel senso che ancora oggi faccio fatica a trovare una motivazione del perché sia potuto accadere. Se penso attentamente al mio passato forse posso trovare qualcosa che è andato storto, ma obiettivamente la mia è stata un’infanzia felice, avevo tutto quello che potevo desiderare. Sono stata molto amata e a volte mi sono sentita anche troppo tutelata, quasi fossi stata messa sotto una campana di vetro e forse anche bloccata lì dentro. Sentivo di dover dimostrare che riuscivo a fare ogni cosa nel migliore dei modi, che non dovevo dare problemi, insomma dovevo essere brava in tutto.

Sono nata prematura e con una malformazione al palato e per questo mia mamma ha sofferto molto perché non poteva neppure alimentarmi; durante il percorso a Villa Miralago ho scoperto che mi avevano messo il sondino già da piccolissima e questa cosa mi ha spiazzata.

Ho sempre avuto difficoltà con le amicizie, mi sentivo sempre esclusa. Non mi sentivo mai all’altezza e le persone alle quali mi legavo, prima o poi mi deludevano, uscivano con me se non avevano altro da fare.

Il mio problema alimentare è iniziato nel 2016 quando ho dovuto scegliere l’indirizzo scolastico della scuola superiore; io ho sempre avuto difficoltà di fronte alle scelte, ho paura dell’incognita, anche se stranamente mi piace anche l’avventura: mi piace sperimentarmi ma ho sempre paura di sbagliare, non riesco a vivere fino in fondo ogni mia scelta.

Ero così indecisa che il mio percorso scolastico l’ho fatto scegliere ai miei genitori. Con le mie nuove compagne di classe mi sentivo inadeguata, loro erano sempre più brave di me, più decise nella vita e con le idee più chiare. Io sentivo di riuscire ad entrare in contatto con loro ma non riuscivo mai a sentirmi legata a qualcuno al punto da considerarla un’amica.

Una di queste mie compagne era fissata con l’alimentazione e mi aveva fatto vedere un’applicazione per il conteggio delle calorie e nel contempo stavo leggendo un libro che parlava del potere della mente per cambiare le cose, un libro scientifico che ti insegnava ad essere propositiva. Purtroppo mi ero messa in mente di essere un po’ sovrappeso e ho deciso di fare danza classica, quindi pretendevo da me stessa una determinata fisicità perché mi confrontavo continuamente con le altre ragazze. Da quel momento con l’app che mi aveva consigliato la mia amica ho cominciato a perdere qualche chilo; ero serena ma col tempo questa applicazione è diventata un’ossessione. Io sono piccolina e la questione dell’altezza nei confronti delle mia compagne mi pesava volto, a volte me ne vergognavo. Mi vedevo anche cicciottella e pensavo che non potevo uscire con queste ragazze che erano così pignole circa l’aspetto fisico e dove la frase tipica era “è vero che la bellezza non è tutto ma è la prima cosa che gli altri vedono, quindi devi essere carina”.


Quando erano iniziate seriamente le prove di danza io non riuscivo nemmeno a guardarmi allo specchio, quando uscivo con gli altri pensavo solo alle mie gambe ed era diventata un’ossessione. Fino a quel momento non avevo mai saltato i pasti, mi limitavo a “restringere”, fino ad un Natale in cui avevo avuto problemi di stomaco e avevo digiunato due giorni. In quel momento ho pensato che potevo vivere anche mangiando pochissimo, non sentivo più la fame e sono iniziate le scuse per non mangiare, fino a quando sono arrivata a pesare 34 chili, eppure nonostante tutto io mi vedevo sempre enorme.

Non uscivo più di casa, ero completamente apatica, di quel periodo ho un vuoto totale. Uscivo con le amiche solo per trovare la scusa di non mangiare perché di fatto con loro io mi sentivo a disagio, sentivo che uscivano con me solo per pietà. Stavo perdendo anche i miei sogni e tutte le mie emozioni, ma non avevo consapevolezza di essere malata, per me era normale.

Mia madre mi aveva portata a Niguarda ma a me non interessava nulla, io non volevo guarire, mi sentivo solo in colpa verso i miei genitori, mi sentivo in debito con loro. In questa struttura anziché migliorare le cose peggioravano; avevo iniziato ad abbuffarmi e credevo di avere il controllo su tutto.

Le mie abbuffate erano sempre di più fuori controllo, associate anche ad attacchi di panico, ma il medico che mi seguiva in quel periodo aveva sottovalutato la cosa dicendomi che era normale perché dovevo recuperare peso. Ma io mi svegliavo la mattina col pensiero che dovevo mangiare e continuavo così tutto il giorno mentre il mio stomaco esplodeva perché arrivavo da mesi di restrizione.

In quel periodo volvevo sparire perché non riuscivo ad accettare le abbuffate, avevo preso 20 chili in tre mesi, ero passata in poco tempo dall’essere sottopeso a diventare sovrappeso. Mi vergognavo ad uscire di casa perché le persone non mi riconoscevano; oppure sentivo dei pesanti commenti del tipo “ora sei più carina, non sei più uno scheletro” e questi giudizi pesavano su di me come macigni.

Poi ho dovuto fare i conti con Irene e capivo che in quel momento non riuscivo a pensare ad altro che al cibo, ed è stato un punto di svolta: potevo star male ma sentirmi meglio dopo un’abbuffata, era molto più semplice ingurgitare di tutto piuttosto che sentire giudizi sul mangiare troppo poco, piuttosto che combattere ogni volta che mi veniva offerto qualcosa. Il potere che dà l’astinenza lo toglie la dipendenza. Non potevo più farne a meno. Quando uscivo per andare a scuola, strada facendo mi fermavo in ogni bar. Prendevo le pizze alle 8 del mattino e mi chiudevo in bagno a mangiarle tutte prima delle lezioni, ad ogni cambio dell’ora andavo a prendere qualcosa alle macchinette.

Mi ero anche trovata senza supporto terapeutico, e dopo un anno in cui non ero seguita da alcun professionista non ce la facevo più, non riuscivo più nemmeno ad andare a scuola. Non mi riconoscevo più, dovevo cambiare vestiti in continuazione e non riuscivo nemmeno più ad entrare in un camerino. Capivo che dovevo fare qualcosa o mi sarei buttata sotto ad un treno (non nego di averlo pensato), oppure dovevo trovare qualcuno che mi aiutasse perché mi rendevo conto che a casa i miei genitori e le mie sorelle erano stremati. Volevo sparire… ma ero troppo grossa per farlo.

Il mio disturbo è stato accompagnato da una forte depressione. Analizzando un Disturbo del Comportamento Alimentare si dovrebbero considerare anche le patologie mentali o psichiatriche cui spesso è associato, come depressione, disturbo borderline, attacchi di panico e vari atteggiamenti come autolesionismo o dipendenze. Nel mio caso ero depressa, apatica, non ridevo più e non trovavo motivi per farlo. Non ero disperata, affranta o particolarmente agitata, non volevo morire, ero solo completamente disinteressata alla questione. Ora se guardo le foto di quei momenti non mi riconosco e in quel periodo faticavo a ritrovare un’immagine che mi rispecchiasse quando guardavo fugacemente il mio riflesso.


Poi mi è stata imposta la cura. Passaggio fondamentale: a me non importava di trovare una via d’uscita a quel dolore e quando sono stata costretta a fare i conti con la tristezza estrema, la solitudine e con la sensazione di inadeguatezza è subentrata una forte rabbia. Rabbia contro i miei genitori che mi portavano in ospedale, rabbia nei miei confronti perché non riuscivo a sbloccarmi, perché mi sentivo abbandonata dagli amici e dai compagni di classe. Rabbia nei confronti dei medici e rabbia per non poter scegliere. Questa rabbia mi ha scavato dentro per mesi, vedevo solo delusioni: non essere andata in vacanza, non veder riconosciuti i miei sforzi, insoddisfazione per il mio corpo che non riuscivo a percepire, a volte mi vedevo magra a volte normale, altre enorme. Questa voragine rabbiosa andava riempita e io ho scelto di riempirla col cibo.

E qui la depressione apatica si è trasformata in disperazione evidente, gridavo che mi odiavo, piangevo per ore, mi dovevo fare del male fisico per punirmi per ciò che facevo, dovevo farmi tre docce al giorno per levare lo sporco che mi sentivo addosso, oppure non potevo spogliarmi per non vedermi, la notte non dormivo per il mal di stomaco e a scuola inventavo qualsiasi scusa per non fare ginnastica.

E la rabbia continuava a ribollire dentro per la convinzione che nessuno riuscisse a capirmi davvero.

Non ero più anoressica, soffrivo di Binge Eating e sentivo che questo mio sintomo veniva svalutato. Non facevo altro tutto il giorno se non mangiare. Credo che il disturbo da alimentazione incontrollata sia uno dei più difficili da riconoscere. Con il binge l’unica opzione che hai è mangiare e diventare enorme. Ho preso peso, il doppio di quanto pensavo prima, in più non mi sentivo capita o aiutata e, a volte la risposta che ricevevo era “e beh, se hai fame mangia”. Fregandomene di ciò che avevo nel piatto e avendo addosso un po’ di chili in più potevo far star tranquilli tutti, mi dava un senso di libertà apparente per poi farmi rendere conto del male che mi stavo facendo. Col Binge subentra anche la vergogna, una vergogna profonda. Ti fai schifo. Vorresti non essere al mondo e paradossalmente non hai le forze per alzarti la mattina. Sei così pesante che potresti sprofondare ed essere inghiottita dalla terra.

È durato molto tempo, ancora adesso ho qualche ricaduta.

A un certo punto ho deciso che non potevo andare avanti così, e dopo mesi di attesa sono riuscita ad entrare in struttura, da un paio d’anni ormai non ero più seguita da qualcuno. Mi ricordo che il giorno prima di ricoverarmi ho svuotato il frigo, pensando che poi non mi sarei più potuta “fare di cibo” per qualche mese.

Per quanto mi riguarda, la volontà di curarsi ha giocato un ruolo fondamentale, secondario però alla consapevolezza di soffrire per una patologia prima di tutto mentale. Per uscirne ci vuole tempo: non finisce tutto quando ti dimettono, non puoi fare una spunta e togliere il sintomo dalla lista di cose a cui pensare.

Ricordo il giorno in cui sono entrata a Villa Miralago: mi sono sentita accolta e sono riuscita a creare immediatamente un rapporto con le ragazze perché inspiegabilmente non dovevo dire nulla, non dovevo giustificarmi. A Villa Miralago mi sono sentita capita, ho imparato a distinguere quando un’ abbuffata deriva da un tentativo di ipercontrollo, o dal dover dimostrare qualcosa, o dal dolore.

I due anni passati in comunità mi hanno permesso di entrare in contatto con la parte più intima di me, mi hanno fatto ragionare sui miei obiettivi, mi hanno acceso delle lampadine e a volte questa luce ha illuminato i muri che nella mia testa erano ancora integri, alti e solidi.

Durante il percorso devi essere pronta metterti in discussione; paradossalmente dubitare delle tue convinzioni diventa uno strumento per la consapevolezza. Ho imparato che devi sempre essere gentile e pesare le parole, perché non conosci la storia che porta con sé chi hai di fronte.

Io penso che le cicatrici di ciò che è stato rimarranno sempre, ma questo non va considerato come una debolezza che destabilizza, piuttosto come una fragilità e questo l’ho capito solo col tempo. Sono cicatrici che lentamente si rimarginano, ma che devi avere sempre la cura di proteggere.

Villa Miralago mi ha insegnato tantissimo, è stata una scuola di vita. Era come se pian pian mettessi tanti mattoncini e mi costruissi la mia vita e senza rendermene conto avevo ritrovato Irene.

Irene ora è una persona completamente diversa, più spontanea. Mai avrei pensato di raccontarmi come sto facendo ora, prima non potevo parlare a nessuno del mio grande malessere. Non è facile raccontarsi perché la mia paura è che le persone non avrebbero saputo come comportarsi con me. La mia era una paura ma anche un desiderio, perché se una persona è fragile magari la tieni lontana ma nello stesso tempo non la lasci mai sola e a me questa cosa andava bene perché riuscivo a mantenere la giusta distanza ma anche la sicurezza della loro vicinanza.

Oggi ho portato questo oggetto perché mi ricorda la comunità. A Villa Miralago prendevo il sole abusivamente sul terrazzo e quindi in un certo senso rapprenta quella trasgressione che mai mi ero potuta permettere per via del controllo che esercitavo su me stessa. Poi rappresenta anche quello che cerco di essere, perché da quando ho riscoperto Irene mi sono resa conto che a me piace vivere, mi piace sperimentare e fare cose nuove. Ho imparato ad accettare il mio essere solare, anche se molti interpretano la mia gioia di vivere come superficialità. La comunità mi ha insegnato anche a fare delle scelte.



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