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Laura Dalla Ragione


"...in Italia nell’ultimo anno c’è stato un aumento esponenziale di casi di DCA, aumento che continuerà probabilmente per tutto il 2022, ma le strutture sono sature, e tu devi fronteggiare la sofferenza e l’angoscia di chi ti chiede aiuto per il proprio figlio e non puoi aiutarlo, e magari si tratta di bambini di dieci-dodici anni..."


 

Sono Laura Dalla Ragione, psichiatra e psicoterapeuta, ho fondato e dirigo una rete complessa pubblica di Servizi dedicati al trattamento dei disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione in Umbria. Sono docente al Campus Biomedico di Roma, che è l’unica Università italiana ad avere istituito un Corso specifico su questo tema. Mi occupo anche di supervisione e formazione di altre strutture, come Villa Miralago, che ho seguito sin dalla data della sua istituzione. Sono consulente del Ministero della Salute per queste patologie e cerco di migliorare l’assistenza nell’intero territorio nazionale.

Ho deciso di fare la psichiatra prima ancora di iniziare gli studi nella facoltà di Medicina. L’ho deciso a quattordici anni, perché per caso sono entrata insieme ai miei compagni di classe e agli insegnanti a visitare un ospedale psichiatrico, che stava per chiudere. Rimasi molto colpita da questa esperienza, come anche altri di questa classe: non a caso diversi adolescenti di quel gruppo di studio decisero di fare gli psicologi o gli psichiatri.

E lì ho pensato che nella mia vita, come lo può pensare una ragazza di quattordici anni, avrei voluto fare questo lavoro. Rimasi molto colpita dall’ingiustizia di questo luogo; prima di entrare ci avvisarono di non avvicinarci ai ricoverati e di non guardarli negli occhi, di fare attenzione comunicandoci una sensazione di pericolo. Quindi noi entrammo con queste aspettative ma ci trovammo invece di fronte ad un’ingiustizia, con persone con le camicie di forza che camminavano scalze, sporche; c’era un odore terribile che non dimenticherò mai e tutti pensammo “perché mai li tengono così, perché delle persone devono vivere così?”. Diciamo quindi che mi sono detta “da grande voglio fare la psichiatra per non far stare le persone così”, quella è stata la prima idea a quattordici anni.

Poi, quando dovevo scegliere fra Psicologia, Filosofia e Medicina, decisi di fare Medicina perché pensavo che potevo avere un rapporto con la vita e con la morte delle persone e potevo lavorare con l’essere umano nella sua interezza, nella sua globalità. Inizialmente ho fatto Medicina con fatica, perché non ero particolarmente interessata agli studi scientifici: per chi vuol fare lo psichiatra, per chi sa già che farà lo psichiatra, diciamo che lo studio di Medicina era faticosissimo, proprio perché legato alla parcellizzazione degli organi. Però alla fine sono contenta di avere fatto questa scelta che mi ha dato la possibilità di disporre di una grande autonomia professionale e di avere accesso a una comprensione dell’essere umano nella sua interezza.

Esiste sicuramente uno stigma nei confronti del disturbo alimentare, come per il resto delle patologie psichiatriche in generale: quando ho cominciato ad occuparmi dei disturbi alimentari alla fine del ’95 ho rivissuto la stessa sensazione d’ingiustizia vissuta all’epoca della visita all’ospedale psichiatrico. Allora non c’erano praticamente strutture in Italia e le persone con disturbo alimentare venivano ricoverate negli ospedali psichiatrici, nei reparti di diagnosi e cura, oppure nei reparti di medicina interna, ma nessuno prestava davvero attenzione a questi pazienti, quindi ho pensato che c’era indubbiamente una sottovalutazione, un’ingiustizia per un problema che allora era ancora limitato.

Come psichiatra mi occupavo di disagio giovanile e già lì ho avuto modo di constatare il progressivo aumento di questi casi, anche se l’epidemia dei disordini alimentari in Italia è esplosa alla fine degli anni ’90. Di fronte a questo aumento cominciai a pensare che erano necessari spazi di cura diversi da quelli tradizionali, ma sentivo anche che non sarebbe stato semplice realizzarli. Proprio perché oltre che un problema di risorse, c’era anche un problema culturale da superare.

Io trovo che la vita è interessante perché talvolta accadono cose che si mettono insieme e ti accendono l’idea. Nei primi anni 2000 incontrai per caso in Toscana una psicologa canadese, Peggy Claude-Pierre, che aveva avuto una figlia malata di Anoressia e che a Toronto aveva messo in piedi una struttura per DCA che aveva avuto un grosso successo. Aveva scritto un libro ed aveva avuto grande popolarità negli Stati Uniti. L’ho conosciuta mentre era in vacanza, mi fece vedere un video dove c’era questa casa, una casa normale gestita da lei con altro personale volontario, dove venivano accolti pazienti con anoressia molto grave. Questo video mi fece venire l’idea che si potevano costruire spazi di cura alternativi a quelli tradizionali, anche se pensai che lei aveva fatto un errore, diciamo epistemologico, perché aveva avviato una struttura extra ospedaliera, senza personale medico specializzato; si era servita di personale volontario e dopo un po’ il governo canadese la fece chiudere. Ma al di là di questo l’idea era buona. Partendo da questo spunto ci siamo messi al lavoro per costruire le prime strutture in Umbria, con un pensiero di fondo che era ancora di riparare un’ingiustizia. Per questo in tutte le nostre strutture c’è una frase di Plotino. “L’anima ha bisogno di un luogo”, per indicare che ogni persona ha bisogno di uno spazio di cura che sia accogliente, amorevole, bello, dove possa sentirsi a casa e ritrovare una sua armonia.

La necessità di uno “spazio proprio” è molto importante per queste patologie: le ragazze si sentono come “esiliate” dal proprio corpo, dalla propria anima e dalla famiglia. Nel periodo del lockdown una ragazza mi disse che non lo stava vivendo come qualcosa di strano, “noi siamo sempre in quarantena, siamo sempre esiliate da qualcuno o da qualcosa, lontane dalla vita”. Ecco perché è importante far ritrovare quel baricentro che queste pazienti hanno perduto: non è solo il corpo, esiliato e che non abita più il mondo, è l’anima che non è più presente a sé stessa. La rinuncia al cibo, o il suo abuso, è in fondo il tentativo, goffo, di trovare un baricentro: nelle sue opposte espressioni, il nucleo psicopatologico di questi disturbi è lo stesso, è l’idea che la privazione del cibo o il suo smodato consumo possano ridare un centro di gravità alla tua vita.

Questo deriva anche dal mondo in cui viviamo, dove c’è un equivoco di fondo, per cui la felicità dipende sempre da qualcosa di esterno a noi: è un’idea che purtroppo anche gli adulti, gli educatori hanno fatto passare, l’idea che sei felice solo se hai una bella casa, un lavoro gratificante, un ragazzo (o una ragazza).In realtà la felicità dipende da una sensazione di “solidità interna”, che puoi avere anche senza possedere tutte queste cose, o di cui al contrario puoi essere privo pur avendo tutto. Così, quella che queste ragazze hanno è una fame di identità, il bisogno di trovare un punto fermo dentro di loro, che invece non c’è.

I DCA sono ancora prevalentemente una patologia al femminile (anche se i numeri stanno cambiando e forse fra qualche anno non sarà più così): così una terapeuta donna sente sicuramente più vivo il tema del corpo in termini di femminilità. Ma in generale non credo che nella relazione terapeutica ci sia una reale differenza di genere, il tema del corpo è un tema che apre una vulnerabilità in entrambi i sessi.


È impossibile mettere un muro tra sé e i pazienti, come terapeuti facciamo sempre un grosso lavoro di analisi personale; dobbiamo saper identificare le emozioni che vengono attivate dal contatto con questa sofferenza, emozioni che talvolta sono di impotenza perché non riesci ad aiutare una paziente che è troppo grave, troppo avanti nella malattia. Accettare di essere impotente è importante; ho personalmente seguito migliaia di pazienti negli anni, per fortuna tantissime sono guarite ma ogni volta che una di loro non guarisce, o magari muore, la vivi come una sconfitta: sai di aver fatto tutto il necessario, eppure dentro di te pensi che forse potevi fare qualcosa di più ancora. Sono patologie che ti espongono alla sensazione di non riuscire a salvare tutti, anche se lo vorresti.

I DCA non sono patologie che riguardano un organo, ma riguardano la persona, la sua storia, la sua famiglia e di fatto ci confrontiamo con tutto il contesto che circonda queste persone. Anche con le famiglie si creano spesso legami molto forti. Fino a una quindicina d’anni fa i contatti non erano così stretti, non c’era ancora l’idea di coinvolgere la famiglia nel percorso di cura. Invece ora ci si scambiano impressioni e idee, e io credo molto in questo. Poi va detto che nei DCA bisogna lavorare molto sulla motivazione: all’inizio i pazienti non vogliono guarire e quando sei di fronte ad una paziente in condizioni molto gravi che non si vuole curare, e che ti dice che non le importa nulla di morire, è un momento drammatico. Allora devi stare attento alle tue emozioni, come terapeuta, perché verrebbe spontaneo arrabbiarsi: “ma come, hai diciotto-vent’anni e vuoi morire?!”. Però, in quel momento, quello è il suo punto di osservazione del mondo; e con l’esperienza impari che c’è un modo per accostarsi anche a questo tipo di opposizione alla vita, che non è quello di contrapporsi alla paziente, ma di ascoltare le sue ragioni Per fare questo però ci vuole molta esperienza: all’inizio può essere spontanea una reazione inutile, che è quella di arrabbiarsi.

I momenti di maggiore difficoltà e frustrazione nel mio lavoro in parte li ho già descritti: sono le situazioni in cui i pazienti sono molto oppositivi al trattamento. Ma c’è anche un’altra ragione che mi restituisce una reazione di impotenza, e cioè quando ti scontri con opposizioni burocratiche che ti rendono difficile o impossibile prenderti cura di ragazze e ragazzi che potresti aiutare: questo mi fa molto arrabbiare, perché sai che ci sono dei giovani e le loro famiglie che brancolano nel buio in cerca di aiuto. Oppure quando ricevi chiamate da persone che vorrebbero curarsi, ma non puoi accoglierle perché non hai posto. Questo è un grosso problema in Italia: nell’ultimo anno c’è stato un aumento esponenziale di casi di DCA, aumento che continuerà probabilmente per tutto il 2022, ma le strutture sono sature, e tu devi fronteggiare la sofferenza e l’angoscia di chi ti chiede aiuto per il proprio figlio e non puoi aiutarlo, e magari si tratta di bambini di dieci-dodici anni. Lo sai che in queste situazioni il tempo è decisivo: una ragazza così giovane, se curata precocemente, può guarire e guarirà. Perché di anoressia si guarisce; ma se si perde tempo, dopo tre-quattro anni la patologia sarà diventata più grave, cronica, e tutto sarà più difficile. Questo, sul piano emotivo, è molto faticoso per il terapeuta.

Cos’è il tempo per un operatore del settore?

Il tempo è necessario per curare queste persone, e ne serve tanto. “Ogni cosa si prepara a lungo”, scrive un poeta che si chiama Ripellino: serve del tempo per ammalarsi, perché questi disturbi non compaiono da un giorno all’altro, e ci vuole tempo per guarire, perché per guarire da un disturbo alimentare ci vogliono almeno due-tre anni, se va tutto bene. E dobbiamo spiegarlo bene ai genitori, perché la prima domanda che fanno è “perché si è ammalata?” e la seconda è “quando guarirà?”. Bisogna aiutarli a capire che è necessario saper aspettare, perché il tempo nei processi psichici è fondamentale: noi siamo esseri che hanno bisogno di tempo per capire le cose e per cambiare. Il tempo serve a noi terapeuti per imparare a conoscere chi abbiamo davanti; serve ai genitori per capire di avere un problema e ad accettarlo; serve alla paziente per comprendere di essere ammalata e di aver bisogno di aiuto. Nei disturbi alimentari non bisogna avere fretta: il tema della pazienza e del tempo è importante. Anche nel lavoro di équipe talvolta qualcuno ha fretta di vedere dei risultati, invece bisogna saper aspettare.

Questo lavoro non è fatto solo di difficoltà ma anche di gratificazioni. È bello quando, a distanza magari di anni, ricevi una lettera da una paziente che hai curato e che ti annuncia di essersi laureata, di essersi sposata, magari di aver avuto un bambino; quando so che qualcuna ha avuto un figlio è per me una grandissima gioia, vuol dire che davvero hanno ritrovato l’amore per il proprio corpo, e questo per una donna mi sembra particolarmente importante. Qualche volta ci mandano le foto del bambino, qualcuna viene a trovarci mentre è incinta: è successo pochi mesi fa con una ragazza di Firenze ed ho provato una grande gioia nel vederla, ho pensato che davvero la vita guarisce la vita e che quello che avevamo fatto era stato importante.

Chi sceglie di fare lo psichiatra ha l’idea, il desiderio di incontrare l’Altro. E nel caso dei DCA questo tema dell’incontro è molto importante: tu incontri una sofferenza che è spesso quasi incomprensibile agli altri, che non capiscono perché ragazze dotate, intelligenti, vogliano affamare il proprio corpo fino a morire. Per noi invece è necessario andare incontro all’Altro e capire le sue ragioni. Da quando ho iniziato ad occuparmi di DCA sono cambiate molte cose. Inizialmente i quadri clinici erano più “semplici” e ben definiti, mentre adesso sono forme ibride, con tante co-morbilità, più complesse. In questi anni abbiamo costruito un sapere professionale, sappiamo oggi molte più cose rispetto a vent’anni fa. Dal lato umano, possiamo dire di avere imparato tanto, dai pazienti e anche dai genitori; certamente abbiamo capito come avvicinarsi a questi pazienti, con grande prudenza e attenzione, abbiamo imparato tanto soprattutto per quanto riguarda l’aspetto della relazione, dell’incontro.

I pazienti spesso guariscono da queste malattie: e i genitori, riescono a guarire dalla malattia dei loro figli?

Certamente sì, ma anche loro devono fare un percorso ed è importante che vengano aiutati tantissimo, altrimenti rimangono indietro: la figlia o il figlio guariscono, e loro restano dieci passi indietro. Gli resta la paura, il senso di inefficacia, di impotenza; vanno aiutati a ricostruire e ritrovare la loro funzione genitoriale, a superare il vissuto di fallimento che è enorme e traumatico. Lo si vede spesso, quando si osserva la relazione tra il genitore e il proprio figlio, come mi è capitato poco tempo fa osservando una madre che assisteva la figlia ricoverata in un reparto di Pediatria: una donna traumatizzata, inebetita dal dolore, che non riusciva a capire perché la figlia undicenne fosse in condizioni gravissime, perché voleva morire.

Se non riusciamo ad aiutare questi genitori, il trauma rimane a lungo: e noi non abbiamo bisogno di genitori depressi, abbiamo bisogno che ci aiutino, anche per questo è importante dargli supporto. Si vede anche una grande differenza di reazione tra le madri e i padri: essendo meno in contatto emotivo con la figlia o il figlio, il padre di solito sperimenta un vissuto di fallimento ancora maggiore, si interroga sul fatto di non essere magari stato abbastanza presente, quindi spesso ha un vissuto profondamente depressivo.





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Eleonora

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