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Luca Modolo


"...non sei tu genitore a dover affidare tuo figlio al curante ma è il paziente a doversi fidare e se tu in primis non hai fiducia nella capacità di affidarsi di tuo figlio come potrà lui averne nei confronti di se stesso? "

 

Sono Luca Modolo, neuropsichiatra infantile.

Lavoro a Villa Miralago da novembre 2020 e sono il Direttore Sanitario della struttura.

Uno degli aspetti più importanti del nostro lavoro è, come curanti, mantenere costante l’equilibrio tra l’osservazione oggettiva e distaccata della malattia per non restarne invasi e la sensibilità e la disponibilità ad accogliere, ad essere aperti all’altro e alla sua sofferenza. Il fine di ciò è riuscire a sintonizzarsi con il paziente e credo che per farlo sia importante oscillare tra queste due polarità.

Così facendo si mantiene una situazione di equilibrio per poter accogliere, trattare il dolore e non restarne troppo contaminati dato che la fatica sta nel drenare la sofferenza e darle un senso, senso smarrito, misconosciuto o assente.

L’attesa del raggiungimento di un senso da parte del paziente e del curante aiuta entrambi a drenare questo dolore e nel caso dei curanti a portarne a casa solo qualche residuo senza rimanere invasi dalla sofferenza ascoltata o travolti dall’impazienza di ottenere dei risultati.

Personalmente non bado troppo al fattore tempo perché questo viene visto dal paziente come un’incognita angosciante e preoccupante, una corsa all’esito, quando, per quanto mi riguarda è più importante invece il processo tramite il quale si arriva all’esito, che è una conseguenza del processo.

Per me il tempo è un significante che unisce tutti quanti, è quella cosa così imparziale che ha lo stesso ritmo nella vita di ciascuno al di là della percezione soggettiva con cui trascorre, quindi equipara. Davanti allo scorrere del tempo siamo tutti uguali e dunque se io stesso mi preoccupo meno dell’esito magari anche il paziente sarà meno interessato a concentrarsi su questo punto.

Inoltre la fiducia non è una cosa spontanea e immediata ma ha bisogno di un periodo di conoscenza, di un’esperienza insieme, va costruita un’alleanza e bisogna essere molto disponibili a tollerare un tempo per stabilire un rapporto.

L’alleanza terapeutica generata dalla creazione di un rapporto di fiducia è fondamentale per affrontare questa malattia che tra le sue caratteristiche ha il non essere consapevoli di esserne in balia.

Nel momento in cui si giunge alla consapevolezza di avere un disturbo si è già a metà strada, strada che non porta necessariamente alla guarigione totale che è un concetto discutibile ma porta a cambiamenti, evoluzioni e trasformazioni che con tanta fatica possono condurre anche molto lontano.

I disturbi del comportamento alimentare hanno origine nel profondo e derivano dal passato dei nostri pazienti.

Bisogna ricordare che il cibo, oltre ad essere nutrimento, è anche la prima esperienza di un legame con l’altro che l’uomo fa e che poi continua fino al termine della sua vita. Alla nascita infatti il bambino non sa nutrirsi spontaneamente e ciò lo pone in una situazione di dipendenza dall’altro che non può governare, dalla quale cercherà di sottrarsi in futuro.

Il cibo di conseguenza ci dice molto, non solo di ciò che una persona acquisisce ma anche di qualche cosa che subisce.

Di solito i padri esercitano una funzione detta paterna che è quella di distogliere la madre dal desiderio esclusivo del figlio e di rivolgerlo a qualcos’altro, spesso a se stessi.

Uscire dal legame materno e dal vincolo del legame del cibo che una madre e un figlio hanno sperimentato corpo a corpo è rivolgersi a qualche cosa di altro e quell’altro nel modello familiare diventa il padre ma può essere qualsiasi cosa che aiuti ad uscire da quel tipo di rapporto come ad esempio un lavoro o un hobby.

Questa funzione aiuta a fare delle esperienze di “sgancio” rispetto al figlio e ponendo un limite all’anarchia della pulsione di mantenere l’esclusività del rapporto con lui, gli consente di acquistare una forma evolutiva e di accedere al pensiero.

Per un genitore è dunque difficile avere a che fare con un disturbo alimentare perché il modo in cui il figlio si rapporta al cibo dice al genitore qualcosa dell’intimo rapporto che li lega, rapporto in cui andare a parare su un confronto di poteri ed un gioco di contropoteri è assai scontato.

Questo perchè vi è una ricerca di controllo data da situazioni in cui un figlio ha sperimentato di essere stato inerme e totalmente impotente nei confronti del genitore che a sua volta si sente impotente davanti alla malattia ed ai comportamenti che il figlio sceglie di attuare.

La forza e la volontà di affrontare la malattia, risolvere la malattia o concedersi la malattia sono dunque aspetti sui quali devono lavorare entrambe le parti, genitori e figli.

La difficoltà nello svincolarsi da questo rapporto si ritrova anche nel momento in cui i ragazzi vengono affidati alla comunità, c’è una quota di preoccupazione nell’affido in quanto in esso vi è una richiesta ambigua che qualcuno tagli il cordone ombelicale e al tempo stesso il timore di un cambiamento i cui risultati non sono prevedibili.

Un esempio utile che esula da questo argomento ma ne è anche molto pertinente è il seguente: quando si affida un bambino alle cure di un educatore al nido o alla materna si verificano le stesse situazioni poiché lo si affida a qualcuno che non si conosce e che verosimilmente non si potrà conoscere fino in fondo o controllare. Da genitore potrai fare dei colloqui per sapere qualche cosa ma sei ben consapevole di non poter sapere cosa succederà durante tutte le ore che tuo figlio passerà in quel luogo e con quelle persone.

Come ci si fida in questo caso? Perché ci si fida di quel che si potrà raccogliere dal proprio figlio.

Questo significa che: non sei tu genitore a dover affidare tuo figlio al curante ma è il paziente a doversi fidare e se tu in primis non hai fiducia nella capacità di affidarsi di tuo figlio come potrà lui averne nei confronti di se stesso?

Lo stesso discorso vale per l’argomento “farmaci”.

I ragazzi sono più disponibili ad intraprendere anche questa via mentre per i genitori, al di là delle questioni farmacologiche e chimiche, i farmaci sono un ottimo schermo su cui proiettare le proprie angosce. Questo perché il farmaco è un materiale inerte e quindi non articolando e non dando delle risposte può divenire ricettacolo di qualcosa di molto pauroso ed assorbire una serie di preoccupazioni.

Inoltre la proposta di un farmaco introduce nuovamente il tema dell’inserimento di un terzo che sleghi dal rapporto genitore/figlio, messo ancora una volta in discussione. Il farmaco acquisisce in questo caso la funzione paterna della quale parlavamo prima, ovvero quella di far entrare qualcun altro in quel rapporto.

Abbandonare e abbandonarsi a questo è un’esperienza difficile che ha a che fare con l’affidarsi e sperimentare la possibilità di concedersi un cambiamento, anche se misurato e controllato.

Il non conosciuto spaventa e per questo è capitato che qualche genitore dicesse che avrebbe preferito che il figlio avesse avuto una malattia organica perché queste sono più inquadrabili e conosciute, la mente invece spaventa perché è meno circoscritta.

Purtroppo dobbiamo fare i conti con una cultura pre legge Basaglia ancora vicina in cui vi era una segregazione del diverso e non conosciuto, del folle che andava chiuso e allontanato.

Abbiamo fatto enormi passi avanti ma comunque è passato ancora poco tempo e i ragazzi ne subiscono le conseguenze così come i genitori subiscono le conseguenze di una cultura che è ancora in progress.

In questo le scuole dovrebbero migliorare in quanto non si parla abbastanza di questo genere di inclusione così come non è presente, sia per i figli che per i genitori, una preparazione sulla soggettivazione di esprimere la possibilità di slegarsi dal rapporto genitoriale.

Se questa possibilità venisse sviluppata adeguatamente metterebbe entrambe le parti nella condizione di sapere cosa desiderano non soltanto rispetto ai problemi alimentari ma in generale nel capire chi sono, cosa vogliono raggiungere, in che modo, per quale motivo e di cosa hanno bisogno per farlo.

Questo permetterebbe di abbattere i muri dei quali parlano sia i ragazzi che i genitori, quei muri che hanno sempre due vedute: da una parte del muro e dall’altra parte.

In passato il mancato disfacimento dei "muri" tra genitori e figli era anche dovuto alla tendenza, in particolare nella cura dei disturbi alimentari, a tenere la famiglia un pochino più distante dalle cure. Adesso invece la tendenza opposta, a mio avviso indispensabile, spontanea e naturale, è via via più acquisita ed utilizzata: i genitori fanno parte del processo di cura e vanno coinvolti perché se solo una delle due parti fa dei passi avanti, l’altra rimarrà indietro e il figlio sentirà di dover recuperare un po’ quel mancato avanzamento della madre o del padre.

E’ quindi opportuno che la cura sia fatta in modo parallelo, genitore e figlio, anche indipendentemente, ma che ognuna delle due parti lavori su di sé.

Mettiamoci anche una terza parte, quella del curante che, mantenendo aperta l’osservazione sul processo in atto, se ne fa qualcosa anche dal punto di vista di crescita personale e umano interessandosi agli aspetti personali che può riconsiderare su se stesso e il suo rapporto con gli altri.

Ognuna di queste tre parti (paziente, parente, curante) dovrebbe mantenere alta la concentrazione sul cogliere ciò che dice il sintomo alimentare del rapporto che li vincola o li ha fatti incontrare.

Non vivo tutto questo intricarsi di legami come delle difficoltà ma come aspetti interessanti e spunti di riflessione.

Forse i momenti più complicati della mia esperienza non sono con i pazienti ma con gli altri curanti perché tra professionisti trovare un’intesa nelle cure, nonostante quanto detto in precedenza, è più difficile che trovare adesione nella comunicazione.

Quando ho presentato il progetto “io non esisto” ai miei colleghi ho detto che sarebbe stata un’occasione per scoprire qualcosa di noi che non sapevamo e dalla quale avremmo potuto apprendere molto: dei ritratti di noi stessi fatti da qualcun altro, in questo caso da chi curiamo o da altri colleghi, in modo non convenzionale e dunque creativo. Ritratti dei quali non ci accorgiamo poiché solitamente siamo noi gli indagatori.

Parlando di creatività a Villa Miralago viene dato grande spazio a tale aspetto in quanto la terapia, nel momento in cui viene spinto il soggetto a trovare delle soluzioni dall’interno, va di per sé affrontata creativamente.

Una ragazza durante la sua intervista ha detto che il suo DCA è una porta che si apre solo da dentro e per condurre i pazienti ad aprire questa porta quale miglior atteggiamento se non coltivare l’aspetto creativo, dato che nella terapia quello che passa per il verbale è poca cosa.

La terapia è fatta da tutto quello che non riesce a passare per il verbale: l’atto mancato, la battuta di spirito, il sogno, il lapsus, quello che in qualche modo sfugge dalla parola, questa è un’area da coltivare ed alla quale si può accedere in modo creativo.

Credo che tutte le aree di creatività e del non verbale siano utili e debbano essere un tramite per far si che qualche cosa arrivi alla bocca che in questa epoca e in particolare in questa malattia è un orifizio troppo controllato, o molto discontrollato, utilizzare altre vie può essere una buona strada da percorrere per aggirare anche questa difficoltà.




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Eleonora

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