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Lucia




Sono Lucia e vorrei raccontare la mia storia, non il sintomo ma ciò che è stato partendo da stralci del mio diario, vorrei dire ciò che mi porto dentro ora.

Soffrivo, come tutti e come nessuno. Quando si pensa ad un problema col cibo ci si immagina una persona magra magra che non mangia. Non immagini quante volte ho sperato che diventasse quello il mio problema e in realtà lo è anche stato, la verità è che a me è toccata la fame da bue. Bulimia dal greco significa letteralmente “fame da bue”. Diciamocelo, essere voraci e affamati è sgarbato, assolutamente non femminile. E’ più elegante, fine, di moda non toccare nulla di quello che hai nel piatto piuttosto che divorare tutto in un secondo e cercare di prendere anche dai piatti altrui, sempre in modo vorace e veloce. In un modo che non bada neppure all’apparenza, non puoi badarci perchè la tua è letteralmente una perdita di controllo, tutte le regole comportamentali , culinarie o altro che puoi aver appreso o conoscere, in quel momento non esistono più.

“Abbuffata” o “ Abboffata” come la chiamano i miei genitori. Con la O mi da ancora più fastidio, è l’espressione di un gesto sgarbato, selvaggio, da animale, sembra quasi che da donna o uomo quale sei ti trasformassi in un animale che non mangia almeno da tre mesi. L’abbuffata scaturisce da una “fame che non ci vedi più”, esattamente così, la vista ti si appanna e distingui a malapena se una cosa è commestibile oppure no perché in quel momento è l’unica cosa che ti interessa, che riesci a vedere. Accade proprio questo e quasi non te ne accorgi, un momento prima sei in camera a studiare e un attimo dopo sei in cucina, davanti alla dispensa con in mano qualcosa che ti stai portando alla bocca, magari la quinta mozzarella o la decima merendina pan di stelle. Attorno a te ci sono carte di ogni genere e confezioni vuote, dai biscotti alle simmenthal, dal gelato ai formaggi agli yogurt, pure il vino della nonna se ti capita a tiro.

“Basta io sono piena” una frase che ho sempre anelato, la frase che più di tutte cercavo e che maggiormente si discostava da me, “ho fame, ne voglio ancora, sono un fottutissimo buco nero insaziabile” non pensavo neppure fosse possibile ingerire così tanto cibo in neppure un’ora. A volte mi chiedevo “La pancia non esplode? I miei poveri organi interni saranno schiacciati”, e poi pensavo, ma poverini cosa, spero che si disintegrino e che la mia pancia esploda veramente.

A volte ho pensato di filmarmi, di tenere un video acceso in un punto della casa in modo tale che quando il “rito” avesse avuto inizio avrei avuto poi la possibilità di riguardarmelo in anteprima, avrei avuto la possibilità di controllare quante calorie avrei dovuto eliminare per tornare “ normale”. Forse mi avrebbe aiutato a rimediare, ad aggiustare, a rimettere a posto.

Ero danneggiata? Anormale? Sicuramente nessuno ad un certo punto della giornata decide di mangiare fino al punto di avere una pancia da sesto mese di gravidanza, dove all’interno ci stanno sei, sette chili di cibo.

Papà per scherzare a volte diceva frasi del tipo “ ti sei almeno gustata la super mozzarella di bufala da un milione di euro? Oppure mangiati almeno le cose meno costose o che stanno per scadere. Le peggiori erano quelle del tipo “io non compro più cose buone perché tu le possa vomitare”, quel concetto del cibo buono che va a finire nel cesso.

Il bambino alimentare che avevo nella pancia non ci rimaneva, non potevo permettermi un lusso del genere, a meno che non decidessi di diventare in meno di un mese come quelle persone che vengono spostate con una gru da un posto all’altro e io non nutrivo quel desiderio.

Allora come fare? Come risolvere questo problema? la risposta è intuibile…. Come iniziai a vomitare non lo so, ricordo che ero ad Atene in tournée, ma in quel periodo non mi abbuffavo, anzi la mia dieta era a base di caffè freddo dimensioni Starbucks che mi vendeva il barista del conservatorio, io ne prendevo tre, quattro al giorno finchè non cominciavo a tremare per la troppa caffeina. Quella sensazione però durava poco perché anche quel caffè ci restava poco nella mia pancia.

A casa è stato più complicato, ero nel panico, è uno sforzo assurdo le prime volte, ogni singolo fiotto lo conquisti con gli occhi rossi, iniettati di sangue e lacrimanti. Ti manca il respiro nel momento in cui ti spingi le dita più in fondo possibile nella gola. Che cosa anormale, che schifo, le dita vengono coperte da uno spesso strato a base di bava mista a bolo alimentare. Stai sul WC per molto tempo, vorresti che fosse immediato, sarebbe il top, semplicissimo e veloce. Invece no, le prime volte è un casino perché vomiti poco e tossisci molto perché stai compiendo un atto forzato. Fai rumore e per me che vivo in un piccolo appartamento questo è un grosso problema se non sei sola in casa.

Che schifo, era un atto ancor più sgarbato, per nulla femminile, animalesco. Ricordo che mi guardavo allo specchio, occhi puntati sul mio viso, con gli occhi rossi e le lacrime che mi scendevano sulle guance mentre mi lavavo le mani e la bocca e sorridevo come quando da piccola ebbi la nausea per un virus intestinale e dopo la terza volta che svegliai mamma e papà perché dovevo vomitare li guardai e sorrisi. “Cipolla cosa ridi? Sei felice perché hai vomitato?” il mio era un sorriso di sollievo, in quel momento la nausea non c’era più e la cosa di cui avevo più paura era appena finita.


Quello stesso sorriso anni dopo, proprio quello, perché ogni santa volta che mi guardavo sorridere in quel modo mi tornava alla mente quell’episodio. Ora che ci penso forse era la mia giustificazione per l’atto commesso, però io non avevo più un virus intestinale e mamma e papà non erano lì a tenermi i capelli e a porgermi il pigiama pulito.

Da piccola il vomito era il mio terrore. Che si trattasse di mal d’auto o di virus, era comunque e sempre un’agonia e pregavo che non mi capitasse.

Ora invece è la mia salvezza, sono io che lo cerco, che lo induco, assurdo vero? Poi diventa più facile, non hai più paura, anzi sfidi sempre di più il tuo corpo. Io conoscevo bene le cause e i rischi, ma questa consapevolezza invece di essermi utile per smettere facendo leva sulla paura del dolore, mi faceva assumere un’aria di sfida, come a dire “coraggio, su vieni a prendermi”.

Ho scelto di riportare queste parole perchè per me la bulimia fu uno strazio, un dolore inimmaginabile e proprio in queste parole, quando dopo mesi le rilessi, captai subito la lotta interiore che stavo vivendo in quel momento, e che mi portai dietro per molto tempo.

Ci sono stati tanti fatti, e soprattutto tanti volti che in questi anni mi hanno accompagnata nel percorso. Quando iniziai a stare male, un giorno il preside del mio liceo mi diede un foglio che ancora conservo… parlava della tecnica del KINTSUGI. Il significato lo compresi anni dopo, per comprendere un'arte come quella del kintsugi infatti, era necessario il passaggio di “riparazione con l’oro” che in quel momento era molto distante da me. Incredibile per me è invece poter verificare, oggi, come questa cosa sia vera per me. Senza una fatica e un dolore così grandi sarei rimasta ad un piano di coscienza di me stessa e della realtà intorno a me nettamente superficiale. Il dolore, la rottura, le cicatrici, invece, ti costringono ad andare a fondo di ciò che vivi.

Fondamentale per me fu lo studio dello psicologo e psicoanalista Viktor Emil Frankl, che mi colpì soprattutto per la frase “fame di pane e fame di senso”. Questa sua citazione mi provocò molto. Mi fece emergere molte domande Che cos’è la fame? Cosa significa avere fame? Si ha fame solo di cibo? Di cos’altro posso avere fame? L’etimologia del termine “fame” viene ricondotta al latino “fames” il quale ha la stessa radice di “fatisci” che significa “venir meno”, quindi la fame è prima di tutto una mancanza. Ho pensato che questo termine non si usa solo per parlare di nutrimento del nostro fisico, molte volte con fame si intende, in base al contesto, a una qualsiasi mancanza. La citazione di Frankl descrive perfettamente questo concetto di mancanza: come il nostro corpo ogni giorno necessita di nutrimento per poter svolgere tutte le azioni e i processi che ci permettono la vita, così la nostra essenza, la nostra parte spirituale necessita di senso. Il senso è il nutrimento dell’anima, e il cibo il nutrimento del fisico. Questa fame dell’animo, per me è stata illuminante, una sorta di lente d’ingrandimento che non avevo mai provato ad utilizzare per guardare la vita, in tutti i suoi aspetti. Certo, mi sono sempre domandata molte cose, rispetto alla mia vita personale, rispetto a quella delle persone che ho intorno, e quindi rispetto anche all’intreccio di queste. Ma un’interpretazione, un punto di vista così concreto e umano di queste domande non l’avevo mai trovato. FAME DI SENSO Io mi sentivo sempre vuota, e il mio stomaco, anch’esso sempre vuoto, brontolava in continuazione e rimandava al mio vuoto interiore; e l’unico modo per eliminare quella fastidiosa sensazione era riempire. Questo era il senso dell’abbuffata. Solo che quella pienezza aveva una durata decisamente breve, e il “buttare fuori” era un altro modo per esprimerlo, buttar fuori sofferenza, inadeguatezza e disperazione a fiotti. La graduale fine di questo girone infernale per me fu possibile nel momento in cui scelsi di aprirmi alla realtà intorno a me, rifiutando l’idea che il mio senso di vita, il mio scopo fosse un’eterna punizione dettata dalla misera ed insignificante considerazione di me stessa. Questa scelta, crebbe grazie ai miei amici e alla mia famiglia, che nonostante la sofferenza e la fatica che li portai a vivere per anni, rimasero sempre vicino a me, volendomi bene per come ero, cercandomi e riconoscendomi come valore sempre e comunque. Grazie alla loro presenza, così forte e insistente la mia posizione iniziò a cambiare: o erano tutti matti da legare oppure davvero anche io valevo qualcosa, e anche io potevo meritare di vivere e di essere felice.

Ad ottobre 2018 entrai in comunità terapeutica, lontana dalla mia famiglia e dai miei amici. La comunità si trova nel Presidio di Asso, in provincia di Como. All’interno di questo presidio ci sono diverse comunità che ospitano in media undici persone ciascuna… la mia era la Girasole. Quando entrai eravamo otto ragazze, dal mese successivo in poi invece divenimmo di più fino ad un massimo di undici. Non era una comunità specializzata, a soffrire di dca eravamo la metà. A differenza di Villa Miralago poi, la nostra era come una casa: la comunità era formata dalle nostre quattro camere lungo due corridoi, la camera educatori, i nostri due bagni e una sala con la televisione e il divano, ma dove c’erano anche la cucina, i tavoli dove mangiavamo, la dispensa e il frigo, che inizialmente non erano nemmeno chiusi a chiave, erano accessibili in qualsiasi momento. Inizialmente per me fu molto strano oltre che difficile, infatti io ero abituata ai ricoveri ospedalieri, alla neuropsichiatria… qui invece molte ragazze vivevano una vita “normale”, molte andavano a scuola, andavamo a fare la spesa, uscivamo spesso. Diventammo una grande famiglia, così famiglia che le signore che ci aiutavano a fare le pulizie, o che ci portavano a scuola venivano chiamate da tutto il presidio “zie”. E proprio in comunità “scattò quel qualcosa” che mi permise di tornare a vivere! Con le ragazze della comunità si creò un legame incredibile, che tutt’ora è fondamentale. Tutte avevamo una grande sofferenza e problemi diversi, ma la nostra forza fu proprio quella di riconoscere che avevamo tutte lo stesso desiderio di felicità e di amore, e che camminando insieme, volendoci bene e quindi spronandoci a vicenda, questo desiderio diveniva sempre più concreto e le difficoltà (furono davvero tantissime, alcune inimmaginabili) piano piano si superavano. Diventammo sorelle. Anche grazie a loro per me divenne evidentissimo l’attaccamento ai miei amici, in quel momento lontani fisicamente, ma che vicinissimi col cuore trovavano sempre il modo di starmi vicini facendomi arrivare lettere e foto, o quando potevo usare il telefono, mi mandavano messaggi (alcune amiche mi auguravano ogni giorno una buona giornata) o mi chiamavano. Quando dopo un po’ di mesi ottenni il permesso di passare una notte o il weekend a casa, si creò con un po’ di amici una routine fissa per cui passavamo quella sera sempre insieme; e quelle sere per me diventarono indispensabili poi per affrontare la settimana in comunità: gli raccontavo come stava andando, dalle grandi fatiche agli aneddoti più divertenti che vivevo con le altre ragazze, e loro mi spronavano e mi provocavano in continuazione… quelle sere erano la ricarica per affrontare ogni settimana e la motivazione per continuare il percorso. Dopo le dimissioni dalla comunità mi sono tatuata un girasole sulla spalla. questo girasole racchiude tantissime cose, non solo le ragazze, ma tutta l’esperienza e tutto ciò che è stato quel periodo per me. Racchiude tutti i volti, tutte le persone, ogni sensazione. E’ un reminder posto sulla spalla perché è una cosa che pesa, è una fatica che ho portato e che porto, ma che è anche un grande dono. Il fatto di vedere la malattia come un dono sembra assurdo ma è una cosa sottile, si arriva a questa consapevolezza solo nel momento in cui una persona prende coscienza di sé. Questa malattia mi ha insegnato molte cose e ce ne saranno altre che non ho ancora compreso, sto ancora camminando in quella direzione. Mi ha aiutato molto paragonare questa fatica ad una scalata, una gita in montagna: ti costa fatica ma quando arrivi in cima ne capisci il significato. Quando sei nella malattia non lo comprendi, ancora adesso fatico a capire molte cose perché ci sono alti e bassi. Però ogni giorno c’è sempre qualcosa di nuovo che sgorga.




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Eleonora

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