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Marta Agosti


"La ragione per la quale mi piace lavorare in comunità e per la quale credo moltissimo nel lavoro di comunità è che è un luogo che favorisce l’incontro non solo tra pazienti e operatori ma tra i pazienti stessi e tra operatori e operatori. Vi è un ricircolo di storie di vita, di esperienze, di vissuti e di relazioni che poi si concretizzano nella cura e che in qualche modo aiutano anche te, operatore della salute mentale, a fare questo lavoro"


 

Mi chiamo Marta Agosti, sono medico psichiatra e lavoro a Villa Miralago da quasi cinque anni.

Il mio è un lavoro esplorativo e creativo: non sai mai quello che troverai, che cosa succederà, come andrà a finire e soprattutto quali vie dovrai percorrere per portare avanti il lavoro con quella specifica persona e con la sua unicità.

Ho scelto di fare questo lavoro perché mi piace ascoltare le storie delle persone.

Sin da piccola sono sempre stata affascinata dalle persone che raccontavano la propria storia. Penso che dentro il racconto di vita di ogni persona si possa racchiudere il senso dell’esistenza stessa.

Ascoltare le storie di vita personale apre la mente su molti argomenti anche filosofici che hanno a che fare con l’esistenza e questa è la parte che più mi piace del mio lavoro.

Quando incontro una persona sono sempre molto curiosa: ho l’istinto di voler sapere molto su di lei, su ciò che ha vissuto, cosa pensa, cosa prova e poterne estrarre una sorta di fotografia, anche se chiaramente questo sarà solamente una parte di ciò che potrò conoscere e non sarà esaustivo. Si costituisce una sorta di prima fotografia, la quale testimonia il nostro incontro e così ne seguiranno molte altre (di fotografie e cioè di incontri) e saranno la base del lavoro da svolgere insieme a quella persona.

Il mio è un lavoro che si impara sul campo, con l’esperienza e attraverso l’incontro con l’Altro.

Il tema del disturbo alimentare nelle università non viene studiato adeguatamente (con qualche eccezione), non viene approfondito e c’è ancora molta ignoranza. Ad oggi una cosa che mi fa molto arrabbiare è incontrare l’ignoranza, non tanto tra le persone comuni, perché quella è plausibile, ma è quella tra i colleghi che mi crea sempre molta difficoltà. È complicato e frustrante confrontarmi con questo aspetto perché lo trovo assurdo per le proporzioni che oggi ha assunto questa problematica. Che un medico di base, un pediatra o un medico di pronto soccorso non sappia trattare le complicanze magari acute di una paziente che pesa 30 kg, lo posso capire: è un ambito ultraspecialistico, serve migliorare la formazione per avere specialisti e medici della medicina territoriale preparati.

Ma trovo inconcepibile che un collega non sappia che cos’è la bulimia o l’anoressia o il BED, che ci sono dei luoghi dove puoi indirizzare la persona per curarsi, che non “basta il medico di base”.

Capita di avere una paziente gravissima che, dopo il suo percorso residenziale svolto anche con successo, debba essere ad un certo punto dimessa. Devi capire tu stessa dove indirizzarla per proseguire le cure e ti trovi a confrontarti con psichiatri dei Servizi territoriali nei quali magari non è presente neppure lo psicologo (figuriamoci un nutrizionista) e ti propongono di indirizzare la paziente al medico di base. In questi casi resto basita, perché mi sto confrontando con uno psichiatra, con una persona che fa il mio stesso lavoro, non con una persona che si occupa di tutt’altro.


La proposta di rivolgersi al medico di medicina generale per curare una paziente, oltretutto grave, affetta da anoressia è una cosa che nel 2022 non si può sentire! Soprattutto da parte di uno psichiatra.

L’idea di questo progetto mi è piaciuta molto per due motivi.

Il primo è perché penso che la potenza dell’espressività artistica della fotografia sia paragonabile a poche altre forme espressive. Il secondo è perché penso che la cura, soprattutto dei disturbi alimentari ma non solo, passi dall’incontro.

La ragione per la quale mi piace lavorare in comunità e per la quale credo moltissimo nel lavoro di comunità è che è un luogo che favorisce l’incontro non solo tra pazienti e operatori ma tra i pazienti stessi e tra operatori e operatori. Vi è un ricircolo di storie di vita, di esperienze, di vissuti e di relazioni che poi si concretizzano nella cura e che in qualche modo aiutano anche te, operatore della salute mentale, a fare questo lavoro.

(Un altro concetto per affermare il quale ci sono voluti anni se non decenni è che i disturbi della condotta alimentare non li può affrontare un singolo specialista chiuso nel suo studio. Non è proprio possibile.)

Mi è piaciuto il progetto perché contiene questa visione d’insieme dove vi è il racconto di più voci che parlano di come vengono vissuti sia la malattia sia il percorso di cura.

Penso che nel mio lavoro, e in particolare con persone affette da DCA, sia importante portare la propria autenticità, portare se stessi.

Se non porti te stesso in équipe o con un paziente in terapia, non si crea quel legame che può portare ad un cambiamento di prospettiva, all’evoluzione. Se non porti te stesso, se non sei autentico, il paziente lo avverte. Anzi, sono solitamente persone molto sensibili e in media lo avvertono più di altri.

Non c’è nulla di più promotore di autenticità che lo stare insieme e confrontarsi, vedersi e vivere lo stesso luogo tutti i giorni. Questo è anche un forte richiamo alla tua essenza, alla tua personale opportunità di essere autentico e devo dire che questo aspetto è stato una parte molto fondante del mio modo di lavorare. Sono una persona che nella vita ha sofferto, a vario titolo, e questa è una cosa che mi porto al lavoro tutti i giorni, senza dannosi evitamenti.

Anzi: ritengo che l’aver vissuto l’esperienza del dolore possa essere un valore aggiunto se operi in questo ambito, soltanto però se hai affrontato ed elaborato il tuo malessere, riuscendo ad evolvere.

Questo bagaglio può essere utile da un lato ad empatizzare, ad entrare in sintonia con chi hai di fronte e dall’altro ti è d’aiuto nel riuscire a trovare la giusta distanza, a definire ancora meglio il ruolo ben preciso che rivesti all’interno del rapporto terapeutico.

Rispetto invece al non portarsi a casa parte della sofferenza io penso che se fai questo lavoro in un certo modo, te lo porti a casa tutti i giorni. Io, i pazienti, ce li ho sempre in mente tutti, anche a distanza di tempo. È difficile dimenticare una persona quando per mesi, un anno o due gli hai parlato, hai pensato interventi, un progetto per lui, ti ha raccontato cose molto intime… come si può dimenticare una relazione così stretta? È una relazione che lascia un segno profondo anche dentro di te.

Portarsi a casa la sofferenza e il dolore incontrato è abbastanza naturale, direi. La cosa più complessa è fare in modo che questo non vada a sollecitare in modo nocivo quelle parti di te con le quali tu terapeuta potresti essere ancora alle prese e che, se fai questo lavoro, tendono ad essere frequentemente sollecitate.

Il lavoro di psicoanalisi rivolto a me stessa, che ho iniziato tempo fa, non è ancora finito: sono ancora in analisi e non so quando finirà. Perché se fai questo lavoro non puoi non continuare a lavorare su te stesso in qualche maniera, ad occuparti delle tue questioni in primis.

I momenti più difficili nel mio lavoro sono quelli in cui non riesci da sola o in équipe a trovare quella via di accesso al paziente, perché gran parte del nostro lavoro iniziale è trovare un aggancio relazionale che non deve essere necessariamente con lo psichiatra o con lo psicologo.

Capita che la paziente si affezioni a quell’OSS perché magari arriva una ragazza giovane che non sta in piedi, deve essere lavata e vestita o che è allettata e l’OSS è la persona che si occupa di lei, che l’accudisce, che le fa un po’ da mamma, che la mette a letto, che le fa le coccole quando va a dormire, che le chiede come sta, che l’accarezza.

Allora si crea un legame particolare e intenso e quello è già un punto di accesso.

Quello è un rapporto che va privilegiato e curato in maniera lungimirante per poi creare gli altri rapporti terapeutici all’interno dell’equipe.

Purtroppo, questo a volte non accade e quelli sono i momenti che ti mettono un po’ più alla prova perché cerchi una chiave di lettura, cerchi di capire la persona che hai davanti e come raggiungerla e magari questa è persa nel suo mondo per mille motivi, inaccessibile. In quei casi è difficile, perché devi fare i conti con un sentimento di impotenza, ben noto e spesso esperito dagli operatori della salute mentale. Però il lavoro di équipe è molto utile anche per quanto riguarda questo aspetto: a volte è il collega che ti fornisce la chiave giusta, la lettura, che riesce ad agganciare il paziente e da lì si apre un varco. La condivisione con l’équipe, inoltre, anche dei sentimenti negativi che emergono dalla relazione col paziente, è sempre un aspetto fondamentale per avere uno sguardo consapevole sul lavoro che si sta svolgendo e per alleggerire il carico emotivo personale indotto da alcune situazioni.

Altri momenti per me difficili da tollerare emotivamente sono gli incontri familiari perché certe volte sono molto impattanti. Fare un colloquio familiare a volte equivale a farne venti singolarmente, perché si disvelano numerose dinamiche, a volte ci possono essere reazioni dei familiari o della paziente difficili da gestire, altre volte ci sono comunicazioni non facili da fare ma necessarie dal punto di vista del prosieguo terapeutico. Questi sono momenti molti faticosi emotivamente anche se l’esperienza mi ha abbastanza formata.

Una cosa che mi ha molto colpito è trovare, dentro a famiglie apparentemente impeccabili ed ineccepibili, situazioni molto patologiche dal punto di vista delle dinamiche interne o a livello di psicopatologia individuale che non mi sarei facilmente aspettata.

Un altro tipo di momento difficile del mio lavoro che ho vissuto personalmente è quando un paziente muore.

I disturbi alimentari purtroppo sono tra i disturbi mentali con maggior tasso di mortalità per suicidio ma sono anche delle patologie che uccidono per le complicanze fisiche. Un binomio che rende la letalità di queste malattie, rispetto ad altre patologie psichiatriche, molto elevata.

Oggi posso dire che il Tempo è qualcosa di molto relativo col quale dobbiamo in qualche modo fare anche i conti. Va sempre considerato, anche come professionista: se ho a disposizione 12 mesi piuttosto che 18 di ricovero per quella paziente so che il tempo per declinare gli interventi è quello.

Ma in senso assoluto il Tempo è un concetto molto relativo, ciò che conta è il tempo soggettivo, nella vita come in tutto il resto. A volte è difficile far capire a una paziente che deve rispettare il suo Tempo perché spesso non è in grado di rispettare nulla del suo corpo né di se stessa, per cui il concetto di Tempo diventa per lei un’altra regola, un altro schema, un’altra aspettativa alla quale aderire.

Anche i genitori talvolta non sanno rispettare i tempi, perché, a volte, hanno difficoltà nel riuscire ad accettare e rispettare l’essenza del proprio figlio, che ha i propri tempi.

Un genitore riesce a guarire dalla malattia del proprio figlio nella misura in cui il figlio o la figlia possono guarire. Guarire per il paziente significa molto spesso fare i conti con una serie di cose difficili da affrontare e lo stesso vale anche per un genitore. Nel momento in cui il genitore si pacifica rispetto a se stesso, rispetto al rapporto col proprio figlio e rispetto a quello che è capitato e che sta capitando senza sprofondare nella colpevolizzazione o nella totale assoluzione, mettendosi realmente in gioco, allora credo che possa veramente guarire anch’egli.

A volte resta la paura ma credo che dipenda da come il figlio ne esce, da come va avanti e da quello che si prospetta. Non si può dimenticare, però si può fare pace con se stessi e vivere dignitosamente.

Se penso a momenti di maggior gratificazione mi viene in mente un episodio accaduto con una paziente ricoverata a Villa Miralago per due anni.

Era giunta molto compromessa, sotto tutti i punti di vista, ha passato le pene dell’inferno e l’équipe ha investito molto sulla sua cura, senza sapere se sarebbe arrivata a vivere una vita dignitosa. Facciamo un colloquio di rete con gli invianti territoriali, la nostra équipe, i genitori e la ragazza, durante il quale si parla ormai di dimissioni, lei sta bene ed è pronta per uscire. Questa ragazza sa che generalmente non sono la terapeuta che abbraccia ogni giorno i suoi pazienti, per mia inclinazione, non perché lo ritenga giusto o sbagliato. Alla fine del colloquio la ragazza è felicissima perché verrà dimessa di lì a breve e per il resoconto fatto del suo buon percorso. Mi guarda e mi dice: “dottoressa … ma adesso me lo dà un abbraccio? Io lo so che Lei non è una da abbracci…”.

L’ho abbracciata e mi sono resa conto effettivamente che uno degli aspetti più emozionanti che questo lavoro ti restituisce è questo: vedere una persona che finalmente sta bene e che ti mostra gratitudine, semplicemente ti è grata di essere stata con lei a svolgere il percorso che le ha consentito di cambiare.

È gratificante avere questo ritorno da parte di una persona che è stata parecchio male, non solo dal punto di vista affettivo ma anche sul piano professionale: constatare che il lavoro tuo e dell’équipe è servito è molto motivante.

Nella pratica di tutti i giorni, quando si è molto stanchi, qualche volta si attraversano dei momenti in cui ti chiedi: “ma perché ho scelto questo lavoro?!” …che è frustrante, difficile, i pazienti non si vogliono curare, i genitori ti dicono che non lo sai curare o che non l’hai curato abbastanza o che lo stai curando nel modo sbagliato, i colleghi che ti inviano i pazienti talvolta non sono di aiuto, i Servizi a volte sono molto carenti… Ma sono momenti che durano poco, perché so da tempo che questo è il lavoro più bello del mondo e non lo cambierei mai, nonostante tutte le difficoltà e le frustrazioni. Mi ha sempre dato molta impagabile soddisfazione.

Per Natale ho ricevuto da una ragazza un biglietto che mi ha molto colpito perché da quelle parole emergeva quanto stesse affidando la sua vita nelle mani mie e dell’équipe. Quando ti confronti con questo aspetto ti senti una grande responsabilità sulle spalle.

Gestire questo senso di responsabilità può sembrare molto pesante, almeno all’inizio della professione, ma contemporaneamente è anche lo stimolo per proseguire nel tuo lavoro. Ti costringere a metterti alla prova ogni giorno e questo è un altro elemento molto affascinante del mio lavoro, che ogni giorno non è mai uguale, ogni giorno è un’incognita, non sai mai cosa ti riserverà l’incontro con una nuova persona, cosa ti porterà e dove vi farà arrivare insieme.





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