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Martina


"...sono cresciuta sentendomi dire da chi l’aveva conosciuto“Martina sei uguale a tuo padre”, peccato che lui non ci fosse..."


 

Sono Martina, ho 22 anni e soffro di anoressia nervosa.

Sin da quando ero piccola ho avuto uno strano rapporto col mio corpo, un misto tra amore e odio. Ho praticato sempre molto sport, iniziando con la ginnastica artistica quando ero molto piccola, poi dopo un anno di nuoto sincronizzato a livello agonistico, ho ripreso nuovamente con la ginnastica artistica.

La percezione del mio corpo è quindi stata sempre molto profonda, e in questo “sentirlo molto presente” ho sempre avvertito anche il disagio. L’ho sempre sentito“troppo”, a volte troppo ingombrante anche se sono sempre stata normopeso.

Adesso ho capito di aver ereditato la corporatura di mio padre, che però non conosco perché mi ha abbandonata quando avevo un anno. E’ sparito completamente, sono cresciuta sentendomi dire da chi l’aveva conosciuto“Martina sei uguale a tuo padre”, peccato che lui non ci fosse. Non vivevo serenamente questa situazione, mi chiedevo:“ma perché mi devi dire questa cosa se mio padre non c’è”, avrei preferito evitare questi commenti.

Le parti del corpo che mi piacciono meno sono quelle che somigliano alle sue: le spalle, le braccia, la prestanza fisica. Da piccolina non indossavo canottiere perché le spalle mi creavano disagio.


Crescendo, dopo l’arrivo delle mestruazioni sono aumentata di peso, come è normale che sia, però da lì ho cominciato a non stare più bene nel mio corpo.

L’estate tra la quarta e la quinta liceo per me è stata devastante perché ho provato il desiderio di cambiare questo corpo e ho cominciato a restringere, eliminando i carboidrati. Non avevo ancora ben compreso la situazione. Nel corso del quinto anno di liceo mi sono focalizzata solo sulla maturità e non ho più pensato a me stessa. Mi sono sentita potente perché controllavo la fame, ero riuscita finalmente a seguire una dieta, ho provato la sensazione di riuscire a fare qualcosa.

Io sono una persona che filosofeggia tanto però in realtà non riesce mai a concretizzare. Questa malattia mi faceva sentire immensamente forte perché ottenevo dei risultati. Ho eliminato molti alimenti, ma non sono mai arrivata a fare lunghi digiuni.

Mangiavo poco, a mia madre raccontavo che desideravo avere un’alimentazione più sana per cui lei non si rendeva conto della situazione, anzi trovava normale questo atteggiamento.

Quell’anno facevo ginnastica acrobatica sui tappeti elastici e spesso quando finivo gli allenamenti mentivo dicendo che avevo mangiato fuori con gli amici e saltavo la cena. Mio zio però si era accorto che qualcosa non andava, diceva a mia madre “guarda che Martina non sta bene” ma mia madre rispondeva che volevo solo mangiare meglio, in maniera più sana.

Dopo la maturità ho lavorato come animatrice in un villaggio turistico, l’anoressia non mi pesava, era la mia nuova compagna, mi sentivo bene nel mio corpo magro ed ero convinta di poter vivere in quel modo.

Non mi sono mai isolata, non ho mai smesso di uscire con gli amici o di lavorare. Ho svolto diversi lavori tra cui la baby sitter in inglese ad un bambino di tre anni, che mi ha dato tanta gioia.

Avevo raggiunto un buon compromesso con la malattia. Ho sempre frequentato gli amici, cosa che mi ha salvata. Loro avevano notato il mio cambiamento fisico, anche se non lo comprendevano, perché in loro compagnia ero la solita Martina, serena e tranquilla; quando tornavo a casa sprofondavo nel baratro. Questa cosa mi ha un po’ ingannata perché mi ha illusa di poter riuscire a vivere anche in compagnia della malattia.




A 18 anni ho avuto una relazione con un uomo di 32 anni, una persona particolare con un vissuto altrettanto particolare di disagio: ex tossicodipendente e depresso. Io già soffrivo di anoressia, ho messo da parte me stessa, mi sono dimenticata di esistere, mi sono totalmente dedicata a lui, illusa di poterlo salvare. Si è rivelato una cattiva persona che mi ha fatto del male fisicamente e psichicamente. Ho faticato molto a chiudere il rapporto a causa dei miei problemi e perché lui non voleva lasciarmi andare.

Nei quattro mesi successivi mi ha fatto anche un po’di stalking, si presentava pure dove lavoravo. E’ stato violento in tutti i sensi. Era un’insegnante di danza, questa è stata l’unica nota positiva, di cui gli sono grata. Abbiamo fatto molti di spettacoli insieme, quella è stata l’unica cosa bella di quel rapporto malato.

Io ho sempre danzato fin da quando ero molto piccola, non ho mai frequentato scuole di danza ma ho sempre ascoltato musica e ballato. Io la musica la sento attraverso il corpo, per me la musica è danza.

Quando penso alla danza mi affiora alla mente il ricordo della nonna che soffriva di schizofrenia. Quando sono nata io stava già meglio, aveva superato la fase peggiore, però era depressa. Mia madre era molto giovane quando sono nata, abitavamo in Sicilia, al piano di sopra io e la mamma e al piano sotto vivevano i nonni con lo zio, io sono cresciuta in casa loro, i nonni mi hanno fatto da genitori. Quando la nonna stava male io ballavo per lei sul letto, quello era l’unico momento in cui lei reagiva, per il resto era priva di emozioni.

Ho realizzato di essere dipendente da questa malattia quando sono iniziate le abbuffate, vivevo assillata da questo pensiero che non mi permetteva di essere libera, costruivo le mie giornate sulla mia dipendenza. Ero dipendente e ossessionata da questo disturbo.

Ora capisco che libertà significa vivere senza inibizioni, senza contaminazioni, semplicemente vivere.

Solo qui a Villa Miralago ho compreso quanto fosse grande e ben costruita la mia gabbia; il problema è che non ho ancora trovato la chiave per aprire la porta. Sono qui da sette mesi e non sono ancora riuscita ad abbandonare il controllo, non è facile dopo quattro anni trascorsi a controllare tutto, sono veramente sfinita. Martina c’è ma fatica ancora a fidarsi di sé stessa.

Io non ho provato solitudine durante la malattia, perché mia mamma ad un certo punto si è resa conto del mio malessere, io ho chiesto aiuto e le imi ha compresa subito. Nel periodo delle abbuffate aveva notato che mancava del cibo e poi non mi vedeva messa bene.

Io mi sono sempre confrontata fisicamente con lei perché è diversa da me, spesso mi sono sentita a disagio quando uscivamo insieme o andavamo al mare perché lei era molto più magra di me. Anche il suo carattere è differente dal mio. Avevo eretto un muro tra di noi perché in un certo senso la vedevo come un’antagonista.

Adesso ho capito che il cibo è il mezzo che mi permette di sostentarmi e di compiere delle azioni, guardo ancora alcuni cibi con diffidenza ma, tendenzialmente, sto recuperando un buon rapporto col cibo. Con il corpo invece fatico ancora.

La bellezza la metterei sul piano della bontà d’animo, della generosità, dell’autenticità e al non nascondersi perché non serve a nulla. Perché noi siamo unici.

L’ultima immagine che ricordo di me è quella che ho visto allo specchio subito dopo aver vomitato. Questo specchio si trova vicino al wc, quando finivo di vomitare mi specchiavo: ero irriconoscibile.

Quando non ti riconosci più pensi “io mi sono persa da qualche parte”, non riesci più a vederti.

Qui non abbiamo specchi grandi, ci sono solo specchi che riflettono il viso. In questo percorso, quando guardo il mio volto faccio fatica, sento che c’è ancora un grande dolore dentro di me. A volte osservo i miei occhi e piango a dirotto perché è come se cercassi Martina in quell’immagine.

L’amore è la forza motrice della vita, è cura, sostegno, un abbraccio infinito. L’abbraccio è uno scambio di energia positiva.

Io ho portato le mie cuffie perché la musica, che ho sempre considerato una parte di me, mi ha salvato la vita; anche l’arte mi ha salvato la vita. La musica è un linguaggio universale che scatena emozioni positive.

Amo muovermi con la musica, dipingere con la musica, scrivere con la musica.

La Comunità è una scuola di vita, affrontarla è una fatica estrema, non è una passeggiata perché mi sento rivoltata come un calzino però insegna a vivere. Io non ho mai percepito così tanto amore, tanta dedizione come qua dentro. Mi solleva quando sono a terra, mi esorta ad andare avanti, spingendomi verso la guarigione. Sento il bisogno di rimanere qui, sento di essere nel posto giusto.

A mia madre vorrei dire che in alcuni momenti qualcosa non ha funzionato, forse qualche errore è stato commesso, ma la amo con tutto il cuore, apprezzo tantissimo tutto quello che ha fatto e continua a fare per me. È giunto però il momento di tagliare il cordone ombelicale che ci lega, in maniera sana, tranquilla.

Agli operatori vorrei dire che non ho mai visto tanta dedizione e tanto amore verso il lavoro. Sono umani, ma io li vedo come dei super eroi, perché ce la mettono tutta e so che in questo contesto non è per nulla semplice.




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