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Matteo


"...Accomunavo il cibo al fatto di esistere ma in realtà questa era solo una forma di autodistruzione, nella speranza o di esistere o sparire del tutto..."


 

Sono Matteo e i Disturbi Alimentari mi accompagnano da quando sono nato perché sono sempre stato un bambino sovrappeso e successivamente obeso in modo più o meno grave. Nel 2011 ho superato i 200 Kg. Da quel momento ho iniziato un percorso che prevedeva la chirurgia bariatrica.

Ero in una fase depressiva, ho iniziato a parlare dei miei problemi con una psicologa ed è emersa la necessità di fare un colloquio al San Raffaele villa Turro dove ho preso consapevolezza che c’era qualcosa che non andava. Ero convinto di essere dinnanzi ad un dietologo, ma la professionista mi ha detto che secondo lei l’unica cosa che potevo fare con un 61 di BMI era un intervento bariatrico.

Non conoscevo nulla della chirurgia bariatrica e in quel momento ho capito di “aver rotto” il mio corpo: era accaduto qualcosa che non potevo più sistemare solo con la mia volontà, avrei dovuto affrontare un intervento chirurgico.

E’ stato difficile accettare questa situazione. Essendo un informatico che lavora nel campo dell’operation sono abituato, quando sorge un problema, a trovare una strada alternativa per risolverlo. Quindi il fatto di diventare grosso e non riuscire più a piegarmi ad allacciare le scarpe non era un problema, perché le calzavo già annodate: trovavo ogni volta degli escamotage.

Mi sono avvicinato alla chirurgia bariatrica attraverso un percorso multi-disciplinare perché l’obesità non è una malattia solamente del tipo “non riesco a chiudermi la bocca e continuo a mangiare” ma è multifattoriale. Sono quindi stato seguito da uno psicologo, un’endocrinologa, una nutrizionista e da tanti altri professionisti.

Nel frattempo avevo preso contatti con un’Associazione per persone obese ed ho iniziato a collaborare con loro, cosa che mi ha consentito di conoscere meglio la mia problematica e i Disturbi del comportamento alimentare, nel mio caso binge eating.

Sono stato in una clinica di Milano dove avrei accettato anche che mi tagliassero un orecchio pur di dimagrire, perché non riuscivo più ad accettare me stesso. Qualunque cosa mi avessero proposto per me andava bene. Mi suggerirono un intervento di by pass gastrico, che sarebbe stato effettuato da un esperto, in quanto era il secondo medico che ha introdotto in Italia la chirurgia bariatrica; io naturlamente lo accettai, per inesperienza o disperazione.

Sono stato operato e da 200 Kg. sono sceso a 90 Kg. Ma c’era un problema collaterale che ho scoperto solo successivamente, questo intervento creava grossi scompensi perché procurava fino a 20 scariche alvine al giorno con tutti i problemi che ne conseguono.

Ho resistito in questa situazione per alcuni anni e sempre tramite l’associazione che frequentavo abbiamo iniziato a parlare di chirurgia ricostruttiva. Non avevo ancora raggiunto il mio peso forma, o meglio, un peso ragionevole, in cui io stavo bene. La chiurgia bariatrica non ha il potere di una bacchetta magica, non si risolve tutto con l’intervento, occore poi seguire una dieta, sottoporsi a psicoterapia. L’efficacia dell’intervento dura dai 16 ai 18 mesi, poi, in parte, l’effetto si attenua, e, insomma, non si tratta di una passeggiata.

Ho subìito un’addomino plastica e anche in questo caso sono subentrati dei problemi. Mi sono riavvicinato alla chirurgia bariatrica quando pesavo 90 Kg. perché ormai erano troppi i problemi che quest’ultimo intervento mi stava creando.

Sono stato operato nuovamente, da una persona squisita, in un centro poco conosciuto ad Erba, questo intervento mi ha cambiato completamente la vita: sono riuscito a perdere gli ultimi 10 Kg. in eccesso, mi sentivo bene, non avevo più problemi di malassorbimento. E’ stato un periodo bellissimo perché avevo riscoperto anche la mia fisicità anche se questo ha significato rimettere in discussione tutto di me stesso, il mio matrimonio ed altre cose, perché per la prima volta non indossavo più quell’armatura che mi proteggeva dal mondo.

La mia imponenza infatti non solo mi proteggeva dal mondo, era un modo per dire “IO ESISTO” sia nella mia famiglia di origine che, successivamente in una relazione sentimentale “tossica”perché ciò che ha accomunato queste due esperienze è statala mia invisibilità. In famiglia non c’era spazio per me, dovevo subentrare al posto di mio padre per curare i miei fratelli più piccoli perdendo così la mia identità: il fatto di aumentare la mia stazza mi serviva per difendere fisicamente i miei fratelli, ma anche il dire al mondo che io esitevo.

Dopo tutte queste cure avevo perso tantissimo peso e non avevo più bisogno di dire al mondo “io esito” perché in quel momento io esistevo per davvero.

Successivamente ho iniziato una relazione con una persona che per me era tutto: rappresentava il mondo, per poi scoprire ancora una volta che si trattava di una relazione malata nel senso che io a lei davo tutto ma in cambio ricevevo solo le briciole. Si può chiamare “amore tossico, narcisismo” si può chiamare in mille modi, e nei miei confronti è nato il gaslighting, una sorta di abuso emotivo in cui venivo manipolato che mi faceva dubitare della mia percezione, facendomi credere che tutte le colpe fossero mie. Non potevo esitere per la sua famiglia, non potevo esistere per i suoi amici e per i suoi colleghi, non potevo esistere”ero invisibile”, ero tornato ancora una volta invisibile.

La mia è sempre stata un fame di accettazione, di affetto, di presenza perché alla fine non mi è mai importato “che cosa mangiare”, molto spesso chi raggiunge un certo peso lo fa senza interessarsi alla natura del cibo. Cerca il cibo più “cremoso possibile”, lasagne, tiramisù, cannelloni, tutti quegli alimenti che non necessitano di essere masticati troppo perché vanno giù da soli. Con una cucchiaiata ci si riempie la bocca e lo stomaco, senza provare il gusto del masticare, ci si ingozza fino a sentirsi sazi, provare un effimero benessere e poi, di nuovo, i sensi di colpa.


Dopo aver raggiunto con grande fatica e felicità estrema i miei 80 Kg,mi sono trovato nuovamente nella condizione di dimostrare che esistevo; questo ha comportato un nuovo aumento di peso perché vivendo male questa relazione sentimentale il cibo serviva a darmi un’identità, la sensazione di “esistere” e ad anestetizzare i miei sentimenti.

Si entra in un loop bruttissimo: si mangia per annebbiare i pensieri, ci si sente in colpa per aver mangiato e si torna a mangiare per anestetizzarsi. Alla fine sono tornato ad avere un peso importante.

Soffocavo le mie emozioni col cibo, non provavo felicità nelle relazioni ed era frustrante ritornare a comprare vestiti abbondanti.Quando arrivi a 80 Kg. dopo averne pesati 200 il tuo pensiero è “mai più” oppure tieni una foto di quando eri grosso dicendo a te stesso “per non dimenticare”. Poi ricominci a prendere peso, ti senti sconfitto quando devi aumentare la taglia, senti che questo “mai più” sta tornando, urla più forte di prima dentro di te, subentra il senso di sconfitta e la mancanza di gioia di vivere. Non vivi mentre cerchi di dire al mondo “io esisto”, ma nel contempo ti vergogni e ti nascondi dal mondo perché il tuo peso è tornato a rappresentare per te un problema che mostri agli altri.

Il giudizio è stato pesantissimo, quando pesavo 200 Kg. non uscivo più di casa se non per lo stretto necessario. Quando andavo al supermercato fingevo di non sentire i risolini, notavo che la gente mi additava, sentivo i bambini che dicevano ai genitori “guarda quello quanto è grosso, guarda che ciccione” .

Ho sperimentato tutto questo dall’infanzia. La mia prima dieta risale a quando frequentavo la prima elementare: mi avevano portato da una dietologa a Varese e dovevo disegnare le verdure che mangiavo, in realtà i disegni li faceva mia madre perchè io non sapevo cosa disegnare.

Durante l’adolescenza quando mia madre buttava del cibo nella spazzatura vi rovesciava sopra il detersivo per i piatti per paura che io lo mangiassi. Per me il cibo già allora era un’esigenza per annientare i pensieri e dare senso alla mia esistenza.

Poi mi sono sposato, ma non è stato un matrimonio felice. La sera, tornando a casa passavo dal Mc Drive, acquistavo dieci hamburger e li mangiavo nel tragitto poi, a casa cenavo nuovamente. A volte dicevo “vado io a fare la spesa”, compravo due vaschette di lasagne che mangiavo nel parcheggio.

Accomunavo il cibo al fatto di esistere ma in realtà questa era solo una forma di autodistruzione, nella speranza o di esistere o sparire del tutto. Mi è capitato di pensare “magari mangiando così tanto mi viene un infarto e ho risolto il mio problema”, non ho mai avuto paura di morire perché, anche a causa del lavoro che faceva mio padre, il tema della morte era presente in famiglia. Ho anche desiderato in alcuni momenti di morire, perché la mia era una “non vita”, e la la morte sarebbe stata solo la fine della sofferenza.

Sono arrivato a luglio minato da un pensiero autodistruttivo, dicendo “non ce la faccio più”, ho tagliato i ponti con questa persona che mi ha fatto del male e in quel momento ho deciso che dovevo fare qualcosa per me stesso.

Ho chiesto aiuto ad uno psicoterapeuta per analizzare nuovamente e completamente la mia vita. Ho cominciato a lavorare su “chi è Matteo”, ho ricominciato ad andare in palestra, a crearmi delle abitudini: mi alzo alle 5.30 alle 6.00 vado in palestra, ho acquisito consapevolezza e sto nuovamente bene. Adesso ho compreso che il mio corpo non mi rappresenta, quindi IO devo riportare il corpo a rappresentare ciò che sono. Quando conosco nuove persone, in ogni tipo di relazione devo trasmettere prima di tutto “chi sono” e poi “come sono”, ed è difficilissimo in una società come questa dove nella maggior parte dei casi l’importante prima di tutto è il “come sei” e poi vediamo “chi sei”.

La persona che mi ha tolto l’opportunità di mettere fine alla mia vita è stata mia figlia, lei non è stata cercata, anche se oggi è l’essere che amo di più al mondo, perché prima di finire sotto ai ferri il chirurgo mi aveva detto che ero sterile, si era però dimenticato di dirmi che perdendo 110 Kg. la cosa sarebbe cambiata.

Mia figlia Carlotta, il bene più prezioso, mi ha fatto comprendere che avevo perso il diritto di mettere fine alla mia vita, perché lei merita di avere un padre vicino. E’ una grossa affermazione, che non deve però rappresentare un peso per lei ma, un punto di forza perché mi ha ridato la vita. Quando ho toccato il fondo e ho pensato di farla finita ero un padre single, reduce da una terribile relazione

Mia figlia è la persona che mi ha ridato la vita, mi obbliga a vivere e a cercare Matteo. Io non mi sono ancora trovato, perché non è semplice superare sette anni di dolorosa dipendenza affettiva. Però ho capito che non ho il diritto di farla finita: Carlotta merita un padre che, come dice lei, risolve i problemi, un padre che c’è quando lei ha bisogno, che l’accompagnerà, a volte semplicemente mettendole una mano sulla spalla, altre volte ponendosi davanti a lei per proteggerla,a volte in disparte, pronto ad offrirle una spalla su cui piangere in caso di necessità.

Le dipendenze sono sempre difficili da sconfiggere, ma mentre si può cercare di evitare la droga, l’alcool ed il fumo, pur soffrendo di astinenza, non si può evitare il cibo perché è fonte di vita, per cui diventa più difficile apprendere a farne un uso equilibrato, attribuirgli il giusto valore di alimento e non quello di emozione.

Quello che mi ha insegnato il mio percorso nella malattia è che spesso l’obesità, come tutti i disturbi dell’alimentazione, sono considerati malattie di serie “B” mentre un tumore, una frattura o una semplice tosse sono riconosciuti come una malattia da curare immediatamente.

Il disturbo alimentare è visto come“non riesci a chiuderti la bocca e mangi troppo, oppure il contrario, non riesci a goderti un buon piatto di pasta perché hai l’anoressia”, non c’è comprensione per il malato, ma c’è invece colpevolizzazione, la persona è considerata come quella che non vuole guarire.

Sono ancora nella fase del “working in progress”, riguardo a l’alimentazione, a l’accettazione del mio corpo e la mia ricerca d’identità, lotto ancora quotidianamente contro la mia dipendenza, per imparare a convivere con le mie emozioni. Se sono felice rido e non mangio, se sono triste piango e non mangio, se sono arrabbiato non mangio; il lavoro più complesso è vivere le emozioni senza sostituirle col cibo.



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