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Michela


"Ricordo poi che già da piccola era come se dentro di me ci fosse un desiderio di trovarmi in una condizione simile: mi immaginavo in un letto di ospedale con le persone che mi volevano bene intorno a me pronte a darmi il loro amore."

 

Mi chiamo Michela e mi sono ammalata di anoressia a 23 anni, dopo la fine di una storia di 4 anni e mezzo con un ragazzo che mi picchiava.

I sintomi sono comparsi in quelle circostanze ma, se mi fermo a pensarci, alla base ci sono sempre state cose che non andavano, probabilmente da ricercare nella mia infanzia.

Non ne faccio una colpa ai miei genitori ma quando ero piccola lavoravano entrambi parecchie ore ed io ero sempre da sola, la loro assenza mi provocava solitudine e malinconia. Mia mamma poi è sempre stata una persona molto fredda e distaccata, non ricordo scambi di affetto fisici come carezze o baci.

I miei genitori mi hanno sempre insegnato a rispettare l’altro e non disturbarlo, così sono cresciuta nella convinzione che il non creare fastidio fosse più importante del comunicare i miei bisogni. Ad esempio da piccola mi capitava di andare a casa di mia zia e chiedere un bicchiere d’acqua, così mia mamma mi diceva “No, non disturbare. Berrai quando sarai a casa”. Non mi è mai stato insegnato a rispettare le mie necessità perché queste avrebbero creato fastidio ad altri, per questo mi capitava spesso di sentirmi in colpa per ciò che succedeva intorno a me.

Per i miei e soprattutto per mia mamma è difficile accettare che le cause della mia malattia siano da ricercare anche in ciò che ho vissuto da piccola, imputano il tutto alla fine di quella mia storia d’amore. Io sono invece del parere che non sarei rimasta tutto quel tempo con una persona che mi picchiava se fossi stata più forte: non avrei reagito per poi sentirmi una persona cattiva e non riuscire più ad accettarmi, non mi sarei chiesta se il motivo di tanta ingiustizia fosse colpa mia.

C’è da dire che prima di mettermi così tanto in discussione non sapevo neanche cosa fosse un disturbo alimentare, non l’ho mai cercato. Dopo la fine di quella storia però, ho iniziato a provare senso di colpa dopo i pasti e a ridurre sempre di più. Mi sono ritrovata completamente immersa nella malattia e questa cosa è andata avanti per più di 20 anni, con alti e bassi.

Il mio primo ricovero è stato a Villa Garda, nel 2000. Fu inutile, perché era limitato unicamente ad una cura alimentare: 3000 calorie al giorno per prendere peso e, se questo non saliva almeno di 1 kg a settimana, la dieta aumentava ancora. Era un veloce recupero fisico senza un lavoro interno, ci ho provato unicamente per far contenti i miei genitori ma dentro di me pensavo solo che una volta uscita sarei tornata a fare ciò che volevo. Non mi accettavo e non volevo fare del bene a me stessa. Mangiare era farmi del bene e tutto ciò che era un’attenzione nei miei confronti mi faceva stare male: prendere una vitamina, mangiare o curarmi era un atto d’amore verso me stessa e io non lo facevo perché volevo distruggermi, questa storia è andata avanti per anni.

Poi c’è stato l’incidente, un frontale con un camper. All’epoca pesavo 29 kg, per cui lo scontro mi aveva causato la rottura di femore, costole, clavicola, scapole e vertebre cervicali.

Mi avevano già data per morta e i medici avevano addirittura dovuto aspettare dei giorni per operarmi a femore e clavicola, il rischio era quello che morissi sotto intervento. Ho ricevuto circa 30 trasfusioni di sangue in quel periodo. Sono stata ricoverata per un anno: allettata per mesi, poi carrozzella, girello e stampelle, le ho passate tutte. In quel periodo ho reagito, mi sono detta che mi sarei dovuta rialzare in piedi.

Nel 2010 tra ospedale ed un altro ricovero a Villa Garda avevo recuperato bene, mi sembrava quasi di essere guarita ma anche in quel caso purtroppo avevo fatto un lavoro prettamente fisico tralasciando quello interiore.

Dentro di me avevo questa voglia di vivere e di guarire ma, non avendo creato le basi per affrontare la vita, alle prime difficoltà sono crollata di nuovo. Dopo una convivenza di due anni con l’uomo sbagliato ci sono ricascata, ritrovandomi nuovamente schiava della malattia.

Sono tornata a pesare 29 kg ma lavorando in ospedale circondata da medici ci è voluto poco perché qualcuno si rendesse conto della mia situazione. Il mio capo aveva segnalato la cosa al CPS e lì mi hanno obbligato a fare degli esami. Poco dopo essermi sottoposta ai vari accertamenti sono stata chiamata, quella mattina ero tranquilla dal parrucchiere e la voce al telefono diceva: “Abbiamo visto i tuoi esami del sangue, devi venire subito in pronto soccorso perché sei a rischio di vita e potresti morire da un momento all’altro”. Quindi sono andata in pronto soccorso, mi hanno ricoverata e il giorno dopo mi sono autodimessa.

Non avevo paura di morire, proprio per niente. Anzi, ridevo ed ero contenta perché era proprio ciò che volevo: non riuscivo ad uccidermi ed era come se essere arrivata a quel punto della malattia fosse un modo indiretto di arrivare alla morte.

Ricordo poi che già da piccola era come se dentro di me ci fosse un desiderio di trovarmi in una condizione simile: mi immaginavo in un letto di ospedale con le persone che mi volevano bene intorno a me pronte a darmi il loro amore. Nel mio immaginario credevo che se mi fossi ammalata mia madre avrebbe trovato il coraggio di avvicinarsi a me anche fisicamente e il disturbo alimentare era un modo per conquistare il suo amore.

Non volevo abbandonare la malattia perché mi teneva vicino alla mia mamma, vivevo con la paura che uscendo dall’anoressia avrei perso l’affetto ritrovato con i miei genitori, avevo paura di crescere e rimanere sola. Era una fame d’amore, non di cibo, sentivo di non meritare le altre persone e l’unico modo per meritarle era stare male.


Ai genitori dico di non fare mai una tragedia dei sintomi iniziali che manifesta il bambino, per lo meno non di fronte a lui. Ritengo che se mia mamma non avesse dato tutta quell’importanza a quel sintomo forse non sarei arrivata a quel punto. Se chi soffre di questi disturbi sente attenzione da parte del genitore, il sintomo diventa un mezzo di comunicazione, uno strumento. Invece, non dando inizialmente eccessive attenzioni ai sintomi, probabilmente la cosa tenderà a scemare perché il figlio sentirà che comportarsi così non servirà a nulla e cambierà strada. E’ come se la malattia si nutrisse dell’apprensione dei genitori che viene vista come quell’amore tanto desiderato dal figlio.

Io stessa cercavo amore ma durante la malattia non ricordo emozioni, ho passato anni chiusa in casa senza avere una vita. Lavoravo, tornavo a casa, facevo iperattività e dormivo per recuperare le forze, perché non ne avevo.

Le mie giornate trascorrevano nell’attesa del momento in cui mi sarei messa a dormire e non so nemmeno dove trovassi la forza, so solo che passavo molte ore a dormire sul divano.

Non era vita, non provavo più niente per nessuno: se moriva qualcuno non me ne fregava nulla, se qualcun altro si sposava non me ne fregava niente, il vuoto più totale.

Non riuscivo più a piangere né a ridere, ho passato 20 anni totalmente annullata. Mi ero isolata, non sentivo più le persone, andavo dritta per la mia strada e se qualcuno mi parlava neanche l’ascoltavo, come se fossi in una bolla che non mi permetteva di sentire niente, neanche il dolore.

La mia prima emozione è comparsa a Villa Miralago, durante uno dei gruppi di psicomotricità. Una delle educatrici, Cristina, mi ha abbracciata inscenando la situazione di una mamma che coccola una bambina.

In quell’abbraccio ho sentito il mio cuore che non avvertivo battere da una vita, mi è sembrata una cosa stranissima, mi sono detta: “allora ho ancora un cuore!”.

Da quel momento ho iniziato a credere che forse sarei potuta guarire perché in me c’erano ancora delle emozioni, anche se sembravano sommerse.

Mi ha aiutato tanto avere scambi fisici come carezze e abbracci con altre persone, lì ho iniziato a sentire l’altro ed è proprio il contatto con l’altro che mi fa trovare la forza di andare avanti, la carica di affrontare la vita. Senza l’altro mi lascio andare, mi annullo, se fossi sola e non ci fossero altre persone in questo mondo probabilmente mi mancherebbe un pezzo.

Le amicizie, ad iniziare da quelle strette in comunità, i nuovi incontri e gli scambi di idee mi hanno fatto venire voglia di tornare alla vita. Ho capito che sbagliavo ad isolarmi perché così facendo era difficile ottenere stimoli e trovare la predisposizione ad avere a che fare con gli altri.

Quando ero nel pieno della malattia pensavo di essere strana, sbagliata e diversa. Adesso invece ho imparato a capire che ognuno ha le sue difficoltà , non esiste una persona totalmente “sana” o perfetta.

A volte per strada vedo delle persone che pensano di stare bene ma mi rendo conto che c’è qualcosa che non va, che abbiamo tutti dei problemi ma bisogna trovare la forza di non isolarsi e permettere agli altri di aiutarci a vedere noi stessi.

Uscita da Villa Miralago sono stata da subito più predisposta ad avere interazioni, avevo il desiderio di stare con gli altri e sentivo che a qualcuno interessava ancora qualcosa di me, quindi ho riacquistato fiducia in me stessa.

Prima del mio ultimo ricovero sentivo di non meritare l’amore degli altri ma non attribuivo la colpa a loro, pensavo fossi io ad avere qualcosa che non andava, se gli altri non mi volevano bene probabilmente ero io a sbagliare. Questo forse anche perché durante la malattia il giudizio altrui non mi importava, per me il mio obiettivo era uno e andavo avanti per quello, l’opinione degli altri non contava.

Scegliere di non mangiare nella mia testa era dimostrare di essere forte, invece era il contrario. Pensavo di controllare la mia vita attraverso il cibo ma in realtà non era un segno di forza bensì di debolezza, l’unica ad essere forte era la malattia: quando stai iniziando a guarire lei ti ostacola, ti dona un finto senso di onnipotenza e tu quella forza faticosamente ottenuta hai paura di lasciarla perché non sai cosa ci sarà dopo, potrebbe essere anche peggio. Hai paura di perderti perché ti vedi solo nella malattia.

Per tanti anni la Michela che sta facendo questa intervista è stata solo la malattia e quella di oggi è la mia seconda vita. Non rimpiango gli anni che credevo di aver buttato via perché mi hanno insegnato molto e non rimpiango niente del mio passato perché se non avessi vissuto quello che ho vissuto non sarei la Michela di adesso.

Prima di Villa Miralago ero molto rigida, tutto doveva andare secondo i miei schemi. Invece qui ho imparato che non devi remare contro la vita, se la vita va devi farti trasportare e adattarti a quello che succede intorno. Se le cose vanno bene, bene. Se le cose vanno male si affrontano e ci saranno momenti migliori.

Non puoi andare contro quello che ti succede, certe cose vanno lasciate andare perché non possiamo modificarle o controllarle e non dobbiamo subirle come una colpa, non è colpa nostra.

Oggi mi sento diversa, due settimane fa sono andata al matrimonio di mia cugina al quale tutti pensavano che non sarei andata. Mi sono divertita tantissimo e mi sembrava di essere tornata a quando avevo 20 anni. Ballavo, ridevo…mi sentivo quella di tanti anni fa: piccolina, forte e con la voglia di stare con gli altri. Non una nuova Michela ma la stessa che ho riscoperto , però con una maturità e una consapevolezza diverse.




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