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Nikla Bene


"...ed ogni tanto penso a lei chiedendomi “chissà come sta, cosa ha fatto”.


 

Sono Nikla Bene, psicoterapeuta nella comunità Primavera dedicata ai minori.

Amo moltissimo il mio lavoro e mi sento molto fortunata per aver trovato il lavoro che più mi rappresenta: non è una cosa scontata, non mi vedrei a svolgerne un altro.

Lavoro da anni in comunità, ho ricoperto ruoli diversi, a sedici anni volontaria, poi animatrice, educatrice, fino a giungere qui dove ricopro il ruolo di psicoterapeuta. Il rapporto tra l’ospite e il curante è molto particolare perché la comunità è una casa, io ed anche le ragazze la viviamo in questo modo, soprattutto ora che sono qui da un po’ di tempo. Abbiamo avuto ragazze ricoverate per un periodo veramente lungo, qualcuna per tre anni, e probabilmente avevano bisogno di una “casa”.

A volte è difficile conquistare la fiducia di queste ragazze, la maggior parte di loro fatica ad affidarsi perché viene da contesti in cui ha perso fiducia, talvolta invece ottenerla è molto semplice, proprio per lo stesso motivo: hanno perso la fiducia altrove e non vedono l’ora di potersi aggrappare a qualcuno che è lì per aiutarli senza nessun secondo fine. Dipende dalle situazioni e dalle persone.

Spesso i genitori arrivano qui con la convinzione di non essere stati all’altezza del loro compito, di aver mancato o sbagliato qualcosa. Tante volte lavoriamo sulla parola “errore” (ho commesso un errore con mia figlia), ma secondo me non è così. Ci troviamo di fronte a situazioni di ogni tipo, alcune palesemente deprivanti altre che non lo sono per niente. Spesso i genitori fanno del loro meglio ma non è detto che la risposta dei ragazzi sia quella che loro si aspettavano. Ho conosciuto tanti genitori che facevano l’impossibile, la lettura che il figlio ha dato ad una determinata azione o atteggiamento del genitore non sempre ha dato un ritorno positivo.

Con i genitori è un po’ come coi ragazzi, è un grandissimo atto di fiducia quello che compiono portando qui il figlio, soprattutto quelli più piccoli. Lasciarli qui dicendo:“forse ci vediamo tra un mese o due”, è dura. Il rapporto di fiducia si crea insieme, non viene data a prescindere,non si fidano di te solo perché sei la psicoterapeuta che è stata assegnata alla loro figlia.

Io ritengo sia giusto, mi immedesimo nel genitore (“perché dovrei fidarmi di tutto quello che fate?”), soprattutto quando prendiamo delle,decisioni apparentemente strane, come decidere che i colloqui con la famiglia avvengano solo in presenza di un operatore. Mi metto nei panni di una madre o un padre che potrebbe pensare “ma come, per parlare con mia figlia devo avere un guardiano? Non posso parlarci liberamente, perché? “Ci sono ovviamente plurime spiegazioni a questo, diverse per ciascun caso; non esiste una regola che vale per tutti e quindi è fondamentale che si costruisca un rapporto di fiducia con ciascun genitore.

La questione del tempo è l’oggetto della domanda più frequente:“ma quanto tempo ci vorrà?”. Non lo sappiamo mai a priori, dipende da tante cose, dipende anche da quanto la famiglia si mette in discussione per cercare di capire ed aiutarci a capire cosa può essere in qualche modo migliorato nel contesto in cui poi il ragazzo tornerà a vivere. Il nostro obiettivo è che l’ospite possa rientrarvi quanto prima, trovando una condizione sicuramente più produttiva, più favorevole, costruita parallelamente coi suoi genitori.

Lavorare con questi ragazzi significa essere sollecitati continuamente sull’aspetto emotivo, che noi tendiamo a riporre nel cassetto, cerchiamo di razionalizzare tutto, di far quadrare i nostri conti, di controllare un po’ le nostre vite.

Pur avendo sotto controllo la nostra vita, le sollecitazioni emotive impreviste sono la parte più difficile del nostro lavoro, ma io la trovo meravigliosa. Questo lavoro si può fare se si è appassionati, le persone che lavorano qui lo sono tutte, così si crea un’equipe affiatata, di persone capaci di tollerare anche la frustrazione per ciò che non funziona. Tutti noi quindi contribuiamo a rafforzare il lavoro di equipe.

Non vivo il mio lavoro pensando di venire qui unicamente per ascoltare il dolore delle persone; io “incontro persone”, da mattina a sera e quello che vorranno raccontarmi sarà per me arricchimento. E’ vero che si sentono racconti dolorosi, ma qui dentro non c’è solo sofferenza. Dall’esterno probabilmente si percepisce solo questo, ma qui si fanno anche grasse risate, sketch comici dalla mattina alla sera e c’è anche molta ironia sul sintomo. Comprendo che i genitori possano percepire tutto in maniera diversa e penso che dovremmo far conoscere loro un po’ di più questo aspetto.


Qui dentro, quando le ragazze iniziano a fare autoironia sul proprio sintomo, sui comportamenti disfunzionali che le hanno caratterizzate per tanto tempo, è già una mezza vittoria perché significa che riescono a guardarsi sotto una prospettiva diversa. Poi magari continuano a farle quelle cose, ma in qualche modo hanno colto il senso per cui lo fanno.

Vittorie e sconfitte? …. Qui a Villa Miralago lavoriamo tutti con grande dedizione e consapevoli di non essere onnipotenti. Ciò nonostante quando una ragazza, che è entrata pesando pochissimo e a rischio di vita, esce da qui come un fiore sorridente con amici, fidanzato che l’aspetta fuori, la scuola e tutto il resto - allora dici “beh, un semino l’ho buttato anch’io” e sei molto contenta, anche se non amo attribuire a noi questa vittoria. La vittoria è la sua, di quella ragazza che è riuscita a varcare sorridente il cancello.

Nemmeno mi piace parlare di sconfitte. Difficilmente ho provato questo sentimento, perché anche le persone che non varcano quel cancello con il sorriso raggiante, ma con situazioni ancora in bilico, hanno comunque percorso un tratto di strada su cui, se vorranno, potranno proseguire. Se vogliono le ragazze possono sempre portare via qualcosa da qui. Anche nei cosiddetti “percorsi incompleti”, tipo auto-dimissioni perché non resistono più in struttura, come talvolta accade con le ragazze maggiorenni che firmano e vanno via, anche quel pezzettino può essere d’aiuto.

L’amaro in bocca: quello sì l’ho avvertito in un paio di situazioni. Ricordo una famiglia che non riusciva a tollerare il distacco dalla figlia, nonostante la malattia fosse in una fase molto aggressiva, e ha deciso di portare via la ragazza. Quella circostanza mi aveva fatto un po’ paura: non comprendere la gravità della situazione, non ragionare sul fatto che da sola lei non ce la potrà fare, portarla via per la smania di averla accanto, con un attaccamento probabilmente morboso; è una cosa che fa riflettere. Questa è stata una vicenda che mi ha lasciato l’amaro in bocca, mi è rimasta impressa ed ogni tanto penso a lei chiedendomi “chissà come sta, cosa ha fatto”.

Noi forniamo gli strumenti, sta poi a loro sfruttarli. Quando le ragazze escono da qui sono inevitabilmente cambiate ed a volte questo spaventa molto i genitori perché non sono pronti.

Ricordo qualche tempo fa la madre di una ragazza con un disturbo alimentare di cui lei stessa aveva sofferto per molto tempo. In una seduta è scoppiata a piangere e con aria distrutta mi ha detto, riferendosi alla figlia“io la odio, perché per colpa sua devo riesumare dalla cassaforte il mio problema che non volevo più ricordare”. Ovviamente non odiava davvero la figlia, ma in quel momento è riaffiorato tutto il suo dolore, che in qualche modo la figlia involontariamente faceva riemergere. Analizzando questa frase mi ha detto che non si sentiva pronta, non era preventivato che dovesse parlare del suo problema in quel momento, quando credeva di averlo rimosso. Si era resa conto che purtroppo aveva semplicemente imparato a convivere con alcuni comportamenti disfunzionali nei confronti del cibo, che però ancora esistevano.

I fratelli e le sorelle dei pazienti sono quelli che incontrano maggiori difficoltà, e sono anche coloro che hanno minor sostegno, anche durante i colloqui familiari; vengono coinvolti ma non sono il fulcro del lavoro. Penso ad alcune situazioni in cui i genitori, completamente presi dal figlio in fin di vita, dimenticano completamente l’altro figlio: guardano solo ai suoi bisogni primari, mangiare e dormire. Per loro questa è una situazione molto difficile, purtroppo noi non possiamo fare molto. Ci sono anche fratelli e sorelle che rifiutano di farsi coinvolgere, per il timore di essere “risucchiati”; atteggiamento di autodifesa che in alcuni casi mi sembra molto sano.

Si è molto parlato, anche a livello mediatico, dei “padri assenti”, ma non siamo più ai tempi in cui gli uomini stavano fuori di casa per lavoro mentre le madri si occupavano del focolare e della famiglia. Ben diversa è l’assenza emotiva, dell’uomo che pensa“non avrei mai voluto avere figli ma li ho fatti”. Nelle ragazze affette da DCA è frequente questo conflitto inconscio, interiore, tra un desiderio fortissimo della figura paterna (che poi vuol dire tutto, non vuol dire solo vicinanza del papà ma vuol dire avere bisogno di integrare dentro sé stessi tutti gli aspetti del maschile) e dall’altra parte uno scontro con quella che è la realtà, con un padre che magari per carattere è un po’ inibito nell’espressione affettiva, più chiuso dal punto di vista della comunicazione. Tutto questo crea un tilt totale all’interno del quale interviene la madre che, in quanto donna, ha più di familiarità con il linguaggio dell’accoglienza. La donna per natura è fatta per accogliere la gravidanza, è una questione biologica, e di conseguenza le ragazze vanno in tilt, odiano questi padri ma in realtà li desiderano moltissimo.

L’età media di esordio del disturbo del comportamento alimentare si sta abbassando sempre di più, parecchi anni fa si parlava dei 15/16 anni, nell’esordio dell’adolescenza, poi si è iniziato a parlare delle scuole medie, ad oggi sono tantissimi i bambini che hanno un DCA. E molti sono i racconti, quando si va a ritroso lavorando con pazienti più adulti, che ci riportano a pensare che forse quella ragazza durante l’infanzia aveva già dato dei segnali. Chiaramente durante l’infanzia le caratteristiche dei disturbi alimentari sono diverse, non si manifestano come in adolescenza perché la tematica del corpo non esiste nel bambino, il bambino agisce solo alcuni comportamenti. Un esempio è il disturbo selettivo dell’alimentazione, quei bambini che a detta dei genitori fanno i capricci per mangiare; è una cosa che può anche accadere, ma ci sono anche quei bambini per i quali non poter mangiare tutti i giorni quel determinato cibo è una tragedia, “impazzisce” lui, il genitore, i nonni. Un bambino con il disturbo selettivo scatena un terremoto. Oppure il disturbo evitante, quando evitano proprio di mangiare, chiudono la bocca: mi è capitato di vedere bambini in anoressia di 7/8 anni. Addirittura ci sono pubblicazioni che parlano di lattanti.

Penso che la prevenzione dei disturbi del comportamento alimentare non può essere fatta allo stesso modo di un progetto per il bullismo, perché per quest’ultimo possiamo andare a scuola e parlare con i ragazzi di quello che succede e si discute insieme.

Nulla vieta di farlo anche su argomenti come anoressia e bulimia, però a volte accade che alla domanda “come hai scoperto che potevi vomitare dopo aver mangiato?” alcune pazienti hanno risposto che a scuola avevano fatto un progetto dove si parlava di questa cosa, quindi bisogna stare molto attenti. La vera prevenzione va fatta prima con le famiglie e con gli insegnanti. Per me prevenzione vuol dire sviluppare una cultura della nutrizione e dell’alimentazione già con i familiari di bambini in tenera età, perché esiste un tasso di obesità infantile che fa paura.

Quando parlo di prevenzione, non intendo dire semplicemente insegnare qual è la corretta alimentazione: significa cercare di trasmettere un messaggio importante che è alla base dei DCA, cioè che nell’atto del nutrirsi e del nutrire ci sono tanti contenuti emotivi, affettivi ed inconsci che vanno ben oltre che il passare il piatto. Quando imbocco un bambino e lo faccio mentre fa i capricci perché non vuole quel boccone, in quel frangente sto passando tutte le mie ansie di mamma. Così come anche il bambino che chiude la bocca e dice “con te non mangio ma con la nonna sì”, ti sta dicendo che c’è qualcosa non va. Mi metto anche nei panni di tutti questi genitori che non hanno mai neanche sentito parlare di queste cose, pensano che il bambino stia semplicemente facendo i capricci e che vuole mangiare con la nonna perché lei gli prepara quello che gli piace di più.

Negli ultimi anni io sto accogliendo molte famiglie che vanno dallo psicologo, non dal nutrizionista, per parlare della situazione del figlio di magari 6 anni. Per me è un’ottima cosa perché significa che pian piano sta prendendo piede il concetto che se un bambino si comporta in un determinato modo sta lanciando un messaggio. Oggi alcuni genitori capiscono che dietro l’atteggiamento disorientante del figlio c’è una richiesta e vogliono essere aiutati a “tradurla” in modo comprensibile, a differenza di un tempo in cui non c’era proprio attenzione su questa cosa.

La pandemia è stata a dir poco una tragedia per i ragazzi che erano fuori dalla comunità, è stato devastante soprattutto per gli adolescenti, le richieste di aiuto sono state tantissime. C’è una spiegazione a tutto questo. I bambini più piccoli non potevano andare a scuola, ma dal loro punto di vista …. stare a casa a giocare, con mamma e papà entrambi presenti, cosa mai successa, è festa grande. Non hanno sofferto nelle tappe dello sviluppo emotivo. In quel periodo ho visto e sentito in video bambini super-felici, con mamme magari esaurite che però di fatto se la sono cavata. Anche gli adulti hanno patito un po’, molti chiusi in casa in smart working, ma bene o male se la sono cavata. Gli adolescenti invece, privati dei rapporti col giro degli amici, delle abituali relazioni, sono la fascia d’età che ha subito maggiormente il lockdown dal punto di vista psicologico. Per loro il compito evolutivo più importante, paragonabile a quando il bambino inizia a camminare, è la socialità. Chi direbbe mai al proprio figlio che cerca di reggersi sulle gambe da solo, “no non ti alzare, non camminare”? No, lo si incita a camminare. Gli adolescenti non vengono compresi su questa questione, loro hanno bisogno di uscire, di socializzare, quindi hanno subito tantissimo il lockdown.

Trovo che questo progetto possa essere molto utile, perché trasmette un messaggio differente rispetto a quello che si è fatto sinora sul tema dei DCA, ci sono contenuti e non vi è spettacolarizzazione della malattia. Uno degli elementi che caratterizza i disturbi alimentari, soprattutto l’anoressia, è proprio l’ostentazione della malattia, in questo progetto invece viene colto quello che c’è oltre: al di là del corpo, si raccontano le persone.







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Eleonora

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