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Monia


" Pretendeva che io mangiassi almeno il doppio o il triplo di quello che mangiava lei, e se non lo facevo andava in crisi. Piangeva, sembrava che volesse nutrirsi attraverso di me..."


 

Mi chiamo Monia, sono la mamma di Giada che è attualmente ricoverata a Villa Miralago, è cominciato tutto tre anni e mezzo fa, quando mi sono resa conto che Giada era dimagrita troppo. Ricordo ancora oggi che c’è stato un periodo in cui Giada voleva nascondersi da me, non permetteva più che io entrassi in bagno quando c’era lei, quando, fino a poco tempo prima, non c’era nessun problema. Un giorno sono entrata, dopo che aveva finito la doccia, prendendo la scusa di vedere come procedeva la crescita della sua schiena, perché aveva avuto qualche problema. Le ho detto: “Giada hai vergogna? Stai diventando una signorina”; ormai aveva dodici anni, “togli un pochino l’accappatoio sulla schiena, non ti guardo davanti, giusto un pochino per controllare”. Quando ha tolto l’accappatoio ho visto le ossa che sporgevano, tutte le vertebre, si poteva farle la radiografia, le creste iliache posteriori ricoperte da un filo di pelle, e mi si è gelato il sangue. Mi sono resa conto che c’era qualcosa di grosso che non andava, ho fatto finta di nulla, lei si è rimessa l’accappatoio e poi si è rivestita. Sono uscita dal bagno non sapevo cosa dirle come affrontare la cosa, ci siamo sedute insieme in cucina e le ho detto “Giada sei sicura di star bene? C’è qualcosa che non va?”. Lei “sì tutto bene”, “non mi sembra, sembri dimagrita troppo, non va bene così cerchiamo qualcuno che ti possa dare una mano, un aiuto”. Così ho fatto, ho contattato uno studio dove era già stata seguita la nipote di una mia collega, ed abbiamo cominciato il percorso; Giada piuttosto che migliorare è caduta nel baratro più profondo. Non c’era più verso di tirarla fuori, un’ossessione continua, non si poteva più lasciarla sola, ha cominciato a camminare, a prendere la bicicletta per andare a scuola, dove arrivava in ritardo perché doveva fare più chilometri. I professori mi chiamavano per dirmi che mia figlia era uscita dall’aula e l’avevano trovata in bagno a camminare in tondo. A quel punto abbiamo dovuto interrompere anche la scuola, non sapevamo cosa fare, a chi lasciarla, io dovevo comunque lavorare.

Fortunatamente, grazie a qualche contatto abbiamo trovato una cooperativa, gestita da religiosi a cui affidarla, lì la facevano lavorare un pochino, ed era seguita. Poi è arrivato il primo ricovero al San Raffaele, è entrata che pesava 37 kg ne è uscita ad agosto, perché il reparto chiudeva, che ne pesava 38, senza niente, nessuna assistenza, fino a settembre a casa, né psicologo, né psicoterapeuta, nessuno. A settembre è ricominciata la scuola, ha iniziato la terza media peggio di come aveva finito la seconda, è andata bene per una settimana circa, poi ha ricominciato a nascondere il cibo, a buttare via gli integratori: Li gettava nei posti più impensabili, tra i cuscini del divano nelle fessure dei caloriferi, metteva dei tamponcini di cotone nelle fessure dei termosifoni, passava con l’integratore e lo buttava lì dentro, trovava un sacco di stratagemmi per non assumere l’integratore.

Il rapporto con me era diventato ossessivo, la malattia aveva preso il controllo anche su di me perché Giada non voleva controllare solo quello che mangiava lei, ma anche quello che mangiavo io. Pretendeva che io mangiassi almeno il doppio o il triplo di quello che mangiava lei, e se non lo facevo andava in crisi. Piangeva, sembrava che volesse nutrirsi attraverso di me, era una cosa veramente allucinante. Quando le dicevo che non potevo mangiare tutta quella roba, che era troppa, piangeva esattamente come quando era una neonata.

Lei pretendeva, la sua malattia pretendeva, piangeva come una disperata, urlava, sembrava un neonato affamato. Lei ha sempre avuto una gran fame, ma la malattia le impediva di mangiare, ancora adesso non ho capito il meccanismo di questa malattia. Sembrava che avesse davanti un piatto di scorpioni, un serpente a sonagli, anziché un piatto di riso o di pasta, aveva paura di guardare il piatto, gli occhi sbarrati, le mani che non sapevano come prendere la forchetta, non sapeva da dove cominciare, oppure condiva il cibo, circa trenta grammi di riso, con tutte le spezie del mondo, chili di sale. Non so come facesse a mangiare.

Questa malattia le insegna a mentire, ricordo una volta che ha rubato il dolcificante al supermercato, perché non sopportava le cose amare, beveva tè e tisane, bevande di tutti i tipi, dove non poteva mettere lo zucchero ma non e non voleva chiedere il dolcificante. Per un po’ di tempo glielo abbiamo fatto usare, poi quando la dottoressa ha detto che non andavano bene, glieli abbiamo tolti. Pretendeva di venire a fare la spesa con me, trascorrevamo ore al supermercato, radiografava quello che c’era scritto dietro alle confezioni, il contenuto di grassi e calorie. Io ho sempre avuto la pretesa di guardare quello che c’era scritto sulla confezione, non solo la scadenza, ma anche la provenienza; perché non mi fido molto dei cibi che arrivano da fuori. Sono un po’ fissata coi cibi italiani, e mentre controllavo la provenienza lei controllava il contenuto.

Io provavo una rabbia incommensurabile, mentre lei provava tanta paura, nei suoi occhi vedevo paura, indecisione, ansia, ossessione per non consumare calorie. È arrivata a pesare 32 kg per 1,65 mt. Io non dormivo, passavo le notti ad ascoltare i suoi movimenti nel letto, mi alzavo ogni tanto per controllare che respirasse.

Nello stesso periodo stava morendo mio padre, ricoverato in un hospice, lei non mangiava più, fingeva di masticare poi toglieva il cibo dalla bocca e lo nascondeva nel tovagliolo, ore trascorse insieme per farle terminare il pasto che si era prefissata di mangiare, riduceva sempre la quantità. Era fissata con la bilancia, quella maledetta bilancia che mi mette ancora ansia, anche solo quando peso quello che devo cucinare per due o tre persone. Lei si metteva alle mie spalle per controllare quanto cibo pesavo, e guai se arrivavo a 30 gr di riso o pasta, dovevo restare indietro di almeno uno due grammi, cosa cambiasse non si sa ma non c’era verso.

Siamo tornate al San Raffaele dove le hanno messo il sondino naso gastrico, ha ripreso un pochino a mangiare ma è stata dimessa quando pesava 37 kg perché è scoppiata la pandemia.

È andata abbastanza bene per un certo periodo, sono stata a casa in aspettativa e sono riuscita a portarla a 42 kg. In quel periodo era totalmente dipendente, come una bambina di due anni, non stava sola un attimo, mi seguiva in bagno, cucina, soggiorno. Abbiamo vissuto in simbiosi da marzo sino alla fine di giugno, ci sono stati nel frattempo gli esami di terza media, e seguire le lezioni a distanza è stato un disastro. Finiti gli esami ho pensato che fosse terminata una cosa che le metteva ansia, è stato invece un disastro totale. Non c’era più nulla che la tenesse occupata, mi diceva che non ce la faceva più. Una parte di Giada voleva tornare a mangiare il cibo normale, senza seguire la dieta prescritta, però non riusciva, io cercavo di assecondarla, ma quello che le proponevo un giorno andava bene e poi il giorno dopo non voleva più mangiare. La malattia la sopraffaceva, poi è andata completamente via di testa. Probabilmente si è accumulato anche il Serenase; assumeva solo questo farmaco che forse ha contribuito al peggioramento della situazione.

Ho un terrazzino che dà su un cortile interno, all’ora di pranzo passava il tempo entrando e uscendo sul terrazzino in lacrime. Un giorno ha iniziato a piangere e ad urlare, andando avanti e indietro dal terrazzino all’appartamento. Mia madre, che abita a 40 mt da me e la sentiva sempre, quel giorno, pur faticando a camminare, è arrivata a casa mia anche lei tremante e in lacrime ed io a quel punto non ho saputo più se calmare lei o Giada. Ho pregato mia madre di calmarsi, le ho detto che stavo gestendo la situazione però mi sono commossa al pensiero che, lei che ormai vive solo al pianterreno della sua casa perché non riesce a salire le scale, abbia salito quelle di casa mia.

Giada era in lista d’attesa da dicembre a Miralago, prima cioè che si ricoverasse al san Raffaele per la seconda volta, ma già allora la lista era lunga. Un giorno Giada in piena crisi mi ha detto che si sarebbe buttata dal balcone. L’ho accompagnata al Papa Giovanni di Bergamo dove mi è stato detto in malo modo di non presentarmi più perché lì no trattavano questo problema. Era in lista anche al San Gerardo, e la caposala mi aveva avvisata che a giorni l’avrebbero chiamata. A quel punto l’ho accompagnata al pronto soccorso del San Gerardo pensando che anche lì avremmo speso il tempo inutilmente e invece siamo state accolte con molta umanità.

Il disturbo alimentare è una malattia che riguarda tutta la famiglia, non solo il paziente, incastra tutti, genitori, fratelli, zii, nonni, nessuno si salva. Ci si ritrova completamente soli perché gli altri non riescono a capire cosa si stia attraversando, ci sono persino genitori con figli che hanno problemi di DCA e non capiscono. Ho una collega che ha una nipote maggiorenne ricoverata in terapia intensiva in fin di vita, e lei non ha ancora capito cos’è un disturbo del comportamento alimentare.

Questa malattia mi ha insegnato cos’è una malattia mentale, fino a poco tempo fa non sapevo cosa fosse un DCA, sebbene lavoro in ospedale, e abbiamo la chirurgia bariatrica, dove operiamo soggetti che pesano fino a 200 kg.

Ho imparato a non giudicare, la cosa che mi infastidisce maggiormente sono quelli che giudicano e fanno battute fuori luogo, probabilmente l’ho fatto anch’io, ma la malattia di Giada mi ha insegnato a guardare la vita da una prospettiva differente. Trovare tempo per cose che prima non ritenevo importanti, adesso apprezzo ogni minima cosa: un gesto, una parola, uno sguardo, un abbraccio. Per tanto tempo io e Giada non abbiamo potuto abbracciarci, dopo il ricovero a Miralago l’ho vista due o tre volte e poi è scoppiata la seconda ondata e non ho potuto più vederla. È stato durissimo, non poterla abbracciare, confortarla solo con poche parole al telefono, senza neppure una videochiamata perché, soprattutto all’inizio le telefonate sono assistite.

Adesso torna, non vedo l’ora di riabbracciarla. Mi sento una madre diversa, grazie soprattutto al gruppo di sostegno del filolilla perché ho scoperto tante cose riguardo la malattia e al mio ruolo di genitore.

Si fa il genitore basandosi sull’esperienza avuta come figlia, cercando di trasmettere al meglio l’educazione ricevuta, prendendo come riferimento il genitore con cui si era in maggior sintonia, poi scopre che non può essere così, tu sei diversa, i figli sono diversi, ed è cambiata la società. Sicuramente anche i miei genitori hanno vissuto la stessa esperienza.

Se Giada fosse qui le direi che sono orgogliosa di lei, per quello che ha affrontato, per il percorso che ha fatto, e per quello che è diventata. Le direi di continuare su questa via, sarà un percorso con imprevisti e inciampi, ma lei sarà in grado di alzarsi, ed Io sarò dietro le quinte per sostenerla in caso di bisogno.




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