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Monica Felisi


"La Comunità mi fa sentire molto stimolata, interessata, con molta voglia di ascoltare sia i pazienti che i colleghi. E’ un arricchimento umano e professionale."


 

Sono Monica Felisi, psicoterapeuta nella comunità Gardenia. Mi piace molto questo lavoro in comunità perché rispetto a quello che si fa solitamente fuori da una struttura ci permette di condividere con altri colleghi il nostro intervento sui pazienti. Spesso il lavoro dello psicoterapeuta, proprio per il metodo che si applica, rischia di isolare ma in questo contesto è diverso perché ci sono tante visioni della persona che vengono condivise e arricchite, pur mantenendo alcuni aspetti “uno a uno” nella relazione terapeutica.

Alcuni pazienti si fidano immediatamente di te perché magari sono molto sofferenti, hanno bisogno di essere ascoltati e curati. La difficoltà arriva soprattutto quando gli si chiede di andare oltre il sintomo, perché finché nella loro narrazione rimane il sintomo al centro di tutto parlano molto, hanno voglia di spiegare e raccontare. Quando però si arriva al punto di lasciare da parte il sintomo e di farli parlare di loro diventa più complesso. Questo avviene dopo un certo lasso di tempo, che è necessario per acquisire la loro fiducia.

Con i genitori è più complicato perché il nostro compito è occuparci del paziente, quando ascolto i genitori io non riesco ad avere un ascolto neutrale perché mi sento un po’ a fianco del paziente. Talvolta i genitori cercano di utilizzare lo spazio riservato alla terapia del figlio per curare loro stessi, certamente soffrono e hanno delle ferite, ma rendono tutto più complicato perché vanno ad invadere lo spazio del figlio. Spesso si consiglia loro di prendersi degli spazi personali, perché chiaramente ne hanno bisogno, sono stremati, ma non è semplice. Una cosa che dobbiamo affinare è proprio fare in modo che ci sia un tempo e uno spazio dedicato ai genitori, chiaramente non possiamo occuparci totalmente di loro ma forse potremmo dargli quella piccola parte in più. E’ importante che i genitori facciano il loro percorso altrimenti restano fermi, mentre i loro figli provano ad andare avanti. Qualcuno coglie questa indicazione e in questo caso noi vediamo un giovamento anche nei loro figli, mentre altri fanno più fatica ad accettarlo e da soli è molto difficile comprendere alcuni aspetti della malattia.

I momenti di maggior difficoltà nel mio lavoro sono quelli in cui i pazienti negano, quando tentano di fuggire dalle cose, quando vogliono dimettersi, quando pensano di essere guariti, quando non stanno davvero qui e utilizzano un’infinità di strategie per scappare dalla relazione. Lì diventa difficile riprenderli e capire come farli rientrare. E’ complesso far prendere loro consapevolezza della malattia perché spesso non sono arrivati qui perché hanno maturato una scelta, arrivano perché spinti dalla famiglia o perché portati in ospedale in condizioni critiche. Stare in comunità a volte permette loro di scontrarsi con degli aspetti della realtà che inducono a fare un lavoro psicologico, ad esempio una difficoltà in sala pasto o con un altro ospite. Spesso la consapevolezza arriva da qualcosa che accade al di fuori dal colloquio terapeutico.

I momenti di maggiore gratificazione sono quelli in cui i pazienti stanno bene, quando escono e vedi i loro cambiamenti, quando comunicano e ti trasmettono il legame che si è creato e che hanno percepito. Rispetto ad altre strutture noi abbiamo la fortuna di lavorare per parecchio tempo con i pazienti e si crea l’opportunità di creare davvero una relazione, un legame. Un altro momento gratificante è il lavoro con i colleghi, quando ci confrontiamo e sento che tutti stiamo pensando a quella persona, è molto bello perché in quel momento soddisfi quella ricerca di attenzioni del paziente. Mi piace molto lavorare in questo contesto.


La Comunità mi fa sentire molto stimolata, interessata, con molta voglia di ascoltare sia i pazienti che i colleghi. E’ un arricchimento umano e professionale perché mi permette di lavorare in tanti modi, facendo i gruppi, l’attività “uno a uno”, le riunioni, la formazione, è un lavoro completo.

Noi psicoterapeuti non siamo presenti nel momento del pasto, ma spesso i pazienti ci riportano quel momento, cosa mangiano e quali sono stati i loro stati d’animo, è come se mangiassero una seconda volta quando vengono a colloquio. Questo accade soprattutto all’inizio del percorso, quando poi capiscono che possono “nutrirsi di altro” questa cosa viene abbandonata.

Inizialmente tutti hanno fame di attenzioni e il lavoro che dobbiamo fare non è far sì che smettano di aver bisogno di attenzioni, ma che abbiano necessità di attenzioni differenti e anche di darsi attenzioni. Perché loro percepiscono di avere un vuoto dentro, chi per un motivo chi per un altro. Che il cibo possa essere uno strumento che va oltre il nutrimento per tutti noi è normale, può significare piacere, godimento e altro, ma dobbiamo fare attenzione a non avere un impatto troppo soggettivo con il sintomo. In realtà poi l’impatto c’è, personalmente io utilizzo gli strumenti terapeutici che abbiamo a disposizione, la supervisione e il confronto perché questo controtransfert esiste. Del resto nel momento del pasto con il cibo ci si confronta sempre e per forza, quindi non si può sfuggire.

Anche quando un paziente decide di farsi del male è una ricerca di attenzione, intanto richiamare le attenzioni sul suo corpo e poi sulla sua sofferenza. Molti dei pazienti dicono “lo faccio per sentirmi vivo, per sentire qualcosa”, è sicuramente qualcosa che ha a che fare con gli aspetti depressivi, non provo nulla e in quel momento voglio sentire qualcosa di vero. Indubbiamente è segnare sul corpo l’indicazione di un dolore che sento da tutt’altra parte, che però in questo modo voglio concretizzare.

Il giudizio per questi ragazzi pesa molto, ci sono fasi nella vita di chiunque in cui il giudizio pesa, ma loro non hanno risorse per contrastarlo, non riescono a trovarle e allora una parola si lega ad un’altra ancora e diventa un macigno troppo pesante da sopportare. I giudici più severi verso sé stessi sono proprio loro, spesso mi riportano parole dette da altri che loro reinterpretano, il classico “ti vedo bene” viene interpretato come “allora sono ingrassata”, perché quello è il loro timore più grande.

Una caratteristica del disturbo alimentare è il “tutto o niente” e lo si riscontra in ogni cosa.

Questo si riflette anche sulla sessualità: per viverla bisogna lasciarsi andare ed è una cosa che o fanno troppo o non riescono a fare. Riguardo al tema della sessualità è necessario avere un rapporto col proprio corpo e conoscerlo e loro spesso mettono una barriera, devi inoltre fidarti dell’altro che è una delle cose in cui fanno molta fatica. La sessualità è un tema molto difficile, a volte anche stando qui si arriva alla fine del percorso e non sono ancora riusciti ad affrontarlo. Molto spesso ci sono incontri prematuri con la sessualità, magari in contesti di violenza, di non consapevolezza oppure un’astensione completa. Questo dualismo degli estremi, il non riuscire a trovare un equilibrio, è una sintesi di tanti aspetti che riguarda il disturbo alimentare e chi ne soffre.

Un aspetto su cui è necessario lavorare è la coppia dei genitori: manca la coppia in cui vi sia una dimensione dinamica di equilibrio. Molti sono separati, altri sono in conflitto, oppure c’è un padre-padrone e una madre schiacciata, o c’è una mamma che sovrasta e il padre che rimane nell’ombra. Di fatto manca la coppia dei genitori e di conseguenza manca la relazione perché viene meno il modello di riferimento. Non è tanto la separazione in sé, è la separazione che uccide proprio la dimensione genitoriale, nel momento in cui smettono di essere una coppia di genitori.

Queste malattie sono falsamente conosciute: l’anoressia viene identificata con la magrezza, la bulimia con chi vomita, il binge eating con l’obeso; sono conosciute solo su quello che si vede, sul piano prettamente corporeo, invece c’è tutta quella parte legata all’aspetto della sofferenza psicologica di cui si tiene conto solo fino a un certo punto. Quando una famiglia o una persona iniziano a sentire che c’è qualcosa che non va con il cibo, spesso prima si va dal nutrizionista piuttosto che dallo psicologo, si cerca di risolvere il problema sul piano comportamentale, perché è abbastanza semplice riconoscere un comportamento sbagliato ma si fa più’ fatica a riconoscere la sofferenza.

Penso che sia importante parlare di queste problematiche anche nelle scuole, come in altri contesti sociali di gruppo, credo si debba trovare un metodo corretto per fare questo tipo di comunicazione. Questo progetto secondo me è un buon metodo perché utilizza più livelli comunicativi. Quando io sono arrivata a lavorare qui, la prima sensazione che ho provato è stato un misto tra shock e attrazione, paura ma anche interesse, e secondo me tante ragazze provano questo davanti ad un corpo che esprime il disturbo alimentare, per cui bisognerebbe metterle di fronte a quella sensazione e da lì stimolare una riflessione.





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Eleonora

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