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Sabrina


" Non mi faceva paura pensare a una non-vita, non m’importava nulla, anzi io non volevo più vivere. Mi sono chiusa in camera, ero arrabbiata, non volevo assolutamente farmi aiutare perché per me era inutile, io volevo solo scomparire, non avevo più emozioni "

 

Sono Sabrina, a 19 anni ho sofferto di anoressia nervosa. A dire il vero non so neppure quando è accaduto di preciso, sentivo che c’era qualcosa che non andava, ma non sapevo effettivamente cosa fosse, ho provato a parlarne con i miei genitori, a chiedere aiuto a loro. Sentivo un malessere generale, ma quando non riesci a definirlo, non riesci a comprenderne l’origine, ti destabilizza perché non sai neppure a chi rivolgerti, cosa dire, cosa chiedere. All’inizio ho lasciato perdere, perché pensavo si trattasse di un momento passeggero della mia vita, del resto capita a tutti di avere giornate in cui si è un po’ tristi.

All’epoca non mi rendevo conto che invece le cose peggioravano ogni giorno, inizialmente non si trattava di problemi col cibo o della ricerca di una determinata forma fisica, mi concentravo solo su certe cose per non pensare al malessere che avevo dentro. La mia attenzione era rivolta solo al lavoro, alla palestra, alle uscite con gli amici, annullandomi completamente. Cercavo di riempire ogni secondo facendo qualcosa per non rimanere sola nemmeno dieci minuti, perché mi rendevo conto che in quei dieci minuti avrei cominciato a sentire la solitudine e avrei realizzato che non stavo bene.


Durante un’estate ero partita per una vacanza con gli amici mentre i miei genitori erano andati in Sicilia, ero rientrata a casa prima di loro e sentivo che qualcosa non andava bene, sentivo una grande incomprensibile rabbia nei loro confronti, come se fossi stata abbandonata. Volevo prendere un aereo per raggiungerli in Sicilia ma loro mi dissero di non farlo perché il tempo era pessimo e comunque sarebbero tornati dopo due giorni. In quei giorni sono rimasta sola con mia sorella con questa rabbia dentro e quando sono rientrati ho iniziato a chiudermi in me stessa, non parlavo più, non facevo più nulla.

Lavoravo dieci ore al giorno, rientravo la sera alle nove e andavo a dormire e il giorno successivo ricominciavo a lavorare, non facevo nient’altro che questo. La mia titolare e la mia collega si erano rese conto della situazione e hanno chiamato mia madre dicendo che qualcosa non andava. Mia madre mi cucinava il pranzo da portare al lavoro ma io in realtà non lo mangiavo, tornavo con il contenitore vuoto e mia madre non poteva accorgersene mentre le mie colleghe non vedendomi pranzare per più giorni hanno iniziato a farsi delle domande. Loro stesse ad un certo punto mi hanno obbligato a non andare in negozio, mi hanno costretto a mettermi in malattia e lo stavano facendo solo per me. Inizialmente non comprendevo questa cosa e mi arrabbiavo perché io ero convinta di star bene, io ce la facevo, io ero sana e potevo lavorare dieci ore al giorno e non accettavo il fatto di non poter lavorare.

Sabrina non c’era più, era diventata la malattia. Poi quando ho cominciato a farmi aiutare all’ospedale Niguarda mi sono come sdoppiata, una Sabrina che prendeva a braccetto la malattia e l’altra che invece cercava di combatterla.

Questa malattia ti illude di avere il controllo su tutto ma in realtà tu non hai più controllo su nulla, è solo lei ad avere il controllo totale su di te. Un giorno ho capito che effettivamente non stavo bene, ero da poco rimasta a casa dal lavoro, una mattina mi sono svegliata ma non riuscivo più ad alzarmi dal letto, ho telefonato a mia sorella dicendole quello che stava accadendo, non sentivo più il battito del cuore, non avevo più forze. Ho avuto paura, pensavo che non mi sarei più alzata da quel letto e in quel momento ho deciso di farmi aiutare. Sono stata in un paio di strutture ma le liste d’attesa erano di parecchi mesi e quando finalmente mi hanno chiamata io non volevo più andare in ospedale, non volevo più essere aiutata, volevo morire. Non mi faceva paura pensare a una non-vita, non m’importava nulla, anzi io non volevo più vivere. Mi sono chiusa in camera, ero arrabbiata, non volevo assolutamente farmi aiutare perché per me era inutile, io volevo solo scomparire, non avevo più emozioni.

Mia sorella non viveva con noi, mia mamma l’ha chiamata e lei è venuta di corsa, è entrata nella mia camera e mi ha detto: “ tu vuoi che io viva col pensiero costante che mia sorella è morta davanti ai miei occhi senza che io abbia fatto nulla per farla vivere ?” e ha aggiunto che se non volevo farlo per me stessa o per i miei genitori, avrei potuto farlo almeno per lei perché non voleva perdermi. E’ stata proprio mia sorella a farmi decidere di andare in ospedale, ho scelto di farlo per quelle parole che lei mi ha detto. L’ho fatto solo per lei, questa collana che indosso è un regalo che mi ha messo al collo mia sorella prima di entrare in ospedale. E’ solo grazie a lei se oggi sono qui.

Il percorso terapeutico inizialmente non sembra così difficile perché in quel momento tu hai deciso di farti aiutare, ma arriva un momento in cui la malattia capisce che tu ti stai staccando da lei ed è proprio allora che tu diventi due persone e tutto diventa più complicato, perché tu combatti una guerra contro te stessa. Se litighi con qualcuno è più semplice perché ti confronti, ci parli, si discute e ci si spiega; ma se combatti con te stessa hai dentro la tua testa due voci e come fai? A volte ti senti quasi pazza perché non sai cosa fare, quale voce ascoltare e non vuoi affrontare nessun ostacolo perché non vuoi più sentire quella voce dentro di te. Arrivi ad un punto in cui sei talmente esausta che vorresti dire basta, rimanere dove sei, non vorresti più fare passi avanti perché non hai più voglia di lottare contro te stessa. Ti sembra che non ci sia una fine e tutto si complica perché questa discussione interiore continua ogni giorno, una parte ti dice che non devi fare quella cosa e l’altra ribatte dicendo di stare zitta, che lo stai facendo per il tuo bene e ogni giorno è così e devi affrontare nuovi ostacoli che complicano le cose.

Questa malattia mi ha cambiata, è una malattia che non augurerei neanche al mio peggior nemico. Non potrò mai ringraziarla, però qualche insegnamento l’ho ricevuto, mi ha resa più consapevole, so che non sono ancora guarita del tutto però sono più forte di prima e sicuramente più forte della malattia. Ora so che cosa desidero e che cosa non voglio più ricevere dalle persone. La malattia mi insegnato a non farmi più buttare giù da nessuno e a non dar peso al giudizio altrui.

Io ho sempre voluto dimostrare agli altri ciò che ero o che non ero realmente per essere più amabile agli occhi degli altri, mi adeguavo anche semplicemente nella scelta di un vestito per piacere agli altri, adesso invece indosso questo vestito per piacere a me stessa. Ora non ho più paura di esternare il mio pensiero, se una cosa non mi va bene la dico, mentre prima per evitare discussioni mi facevo andar bene qualsiasi cosa. Prima portavo una maschera, adesso mi rendo conto che non ha più senso.

Durante la malattia non c’era più nemmeno un rapporto con i miei genitori, ogni cosa che veniva detta la interpretavo come una cosa negativa, come una critica, come una cattiveria nei miei confronti. Eravamo sempre in conflitto e quando inizi a uscire dalla malattia, a capire che non eri tu ma la malattia a parlare, a litigare, anche il solo pensiero di quello che hai fatto alle persone accanto a te fa molto male. Fa male perché solo adesso riesco a capire il dolore che provavano i miei genitori ogni giorno, e quando prendi questa consapevolezza un po’ ti arrabbi anche con te stessa anche se non è colpa tua, però pensare a tutte quelle cattiverie nei loro confronti solo perché volevano salvarti la vita è doloroso.


Dietro questa malattia ci sono tante cose, non è mai un solo problema che ti fa ammalare di un disturbo alimentare e penso che per ogni persona sia diverso, ancora oggi io non capisco per quali motivi mi sono ammalata, ci sto lavorando ma penso che non ci sia solo una cosa che alla fine fa traboccare il vaso ,ma in realtà sono tante. Ci sono cose che subisci quando sei piccola e non riesci a elaborare ma le sedimenti e alla fine emergono.

Non puoi dire nulla alle ragazze che stanno combattendo la malattia perché ogni frase potrebbe essere sbagliata, è sufficiente una parola in più per attivare un meccanismo sbagliato nella mente di una persona, magari pare che ti ascolti ma in realtà sente solamente quello che vuole ascoltare o quello che la malattia gli impone di ascoltare. A volte è meglio non dire nulla, stare semplicemente accanto.

Adesso mi rendo conto che ci sono alcune cose che non ricordo di quel periodo perché ero completamente spenta, non provavo più emozioni, di alcuni momenti ho il vuoto perché io ero completamente assente; penso di aver vissuto alcuni frammenti di vita senza averne un ricordo perché in realtà li ho vissuti solo fisicamente, ci sono alcuni pezzi che proprio mi mancano. In quel periodo era come se fosse sempre notte, ricordo solo il buio, avevo perso i sogni, avevo perso completamente tutto

Adesso i sogni sono tornati e ci sto lavorando. Ho imparato a conoscermi e ad amare Sabrina più di quanto non l’amassi prima della malattia.




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Eleonora

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