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Silvia


" Nonostante mi dicessero che se continuavo così avrei perso la vita io non me ne rendevo conto, non mi faceva paura, non mi interessava. Io ero diventata totalmente la malattia, non provavo più alcuna emozione, ero completamente apatica, una sorta di vegetale. Alla morte non ci pensavo proprio perché il mio cervello in quel periodo si era come spento, io ero ancora viva ma dentro ero già morta da un pezzo "

 

Sono Silvia, mi sono ammalata di anoressia quando ero molto piccola, avevo 9-10 anni, senza che nessuno se se fosse reso conto.

A scuola si usava il termine “anoressica” per indicare una ragazza magra, senza la consapevolezza che l’anoressia fosse una malattia.

Io sono sempre stata una ragazzina molto esile, da piccola ero molto schizzinosa col cibo, mangiavo solo pasta bianca scondita e un po’ di carne, solo a 10 anni ho cominciato ad assaggiare la pasta al pomodoro.

Durante la malattia mi vedevo grassa ma la mia fissazione era la pancia, che vedevo enorme. Quando avevo nove anni al centro estivo mi era stato detto da un gruppo di amichetti “ tu non puoi giocare con noi perché hai la pancia”, io quella pancia enorme non l’avevo ma da quella volta ho iniziato a controllare, senza farlo notare troppo, tutto quello che mangiavo. Avevo cominciato a farmi davvero domande sulla mia fisicità ed ho iniziato a dimagrire pian piano fino ad arrivare, verso gli 11 anni, ad aver perso moltissimo peso. Iniziavo a frequentare la scuola media e conoscendo le ragazze più grandi ho cominciato a vestirmi un po’ come loro.

L’estate successiva ero tornata al centro estivo e ricordo che le amiche di mia sorella mi dissero che quasi non mi avevano riconosciuto per la mia magrezza. In quel momento mi sono sentita la persona più potente della terra ed ho iniziato a dimagrire sempre di più. Avevo un controllo sempre maggiore su qualsiasi cosa facessi, anche se nessuno in quel periodo si era accorto che soffrivo di anoressia perché non era ancora una malattia di cui si parlava e non la si conosceva a fondo.

Nel 2012 queste malattie erano ancora poco considerate. I miei genitori si erano accorti che qualcosa non andava e mi portarono dalla pediatra, che dopo avermi pesato disse che ero sottopeso ma si trattava di costituzione. Nel primo centro in cui mi portarono i miei genitori, a Pavia, mi fecero fare dei test sui DCA che già avevo fatto innumerevoli volte e io segnai con le crocette le risposte che definivano che io non ero malata. Mi fecero la mia prima calorimetria e molti altri esami, per poi dire ai miei genitori che non si trattava di anoressia ma semplicemente ero un po’ sottopeso, ma io pesavo 32 chili!


Ho continuato a fare sport, nuoto agonistico, anche se non avevo più energie ma nella mia mente era inconcepibile che io non facessi almeno tre ore di sport al giorno, altrimenti non potevo permettermi di mangiare. Davanti ai miei genitori dovevo mangiare altrimenti si sarebbero accorti della mia malattia.

In realtà io non sapevo di cosa avevo fame veramente, ero entrata in un circolo vizioso; la gente continuava a dirmi che ero magra e questi commenti, che avevo sempre sperato di sentire, mi davano la forza per fare tutto.

Non mi sentivo accettata, non mi sentivo realizzata in niente. A scuola andavo molto bene ma per me non era abbastanza, quando prendevo un 7 mi disperavo perché era inammissibile che io prendessi un voto così basso, perché l’unica cosa in cui mi sentivo abbastanza realizzata era la scuola. I compagni mi dicevano che ero una secchiona, ma non sono mai stata bullizzata. Già da piccolissima sono sempre stata una persona estremamente precisa, i quaderni di scuola erano ordinatissimi, non c’erano cancellature, i libri non dovevano avere neppure un orecchio altrimenti andavo in paranoia. Probabilmente questo estremo controllo l’ho poi riversato sul disturbo alimentare.

Sono andata avanti così per parecchio tempo con un peso al limite, anche nelle gare di nuoto dove mi rendevo conto di ottenere pessimi risultati perché non avevo più forze. A 14 anni, nel pieno della malattia, ho cambiato persino sport scegliendo l’atletica, l’anno successivo pesavo 30 chili e nonostante non riuscissi quasi a stare in piedi continuavo imperterrita a fare atletica, fino a quando sono stata ricoverata d’urgenza.

Con la malattia ho imparato a mentire, fingevo di fare merenda ma buttavo tutte le merendine nei cestini che incontravo nel tragitto per andare a scuola, dicevo di aver mangiato ma mentivo anche su quello.

Un episodio che mi ha fatto crollare completamente è stata una verifica che avrei dovuto fare a scuola. In quel periodo avevo toccato il fondo, il mio cervello mi aveva salutato da un pezzo, non riuscivo proprio a studiare e mia madre mi disse di stare a casa visto che non avevo mai perso un giorno di scuola e l’avrei recuperata. Quel giorno sette miei compagni di scuola fecero la stessa cosa e l’insegnante si arrabbiò molto facendo una verifica difficilissima a quelli che l’avevano saltata. Quella verifica non la feci mai perché da qual giorno io smisi di frequentare la scuola.

In quel momento chiusi completamente la bocca, smisi di mangiare e feci la mia prima visita a Niguarda dove sfortunatamente non c’era un posto libero. Ero a rischio vita e la dottoressa stessa era molto preoccupata, disse a mia madre che doveva provarmi la pressione e controllare la frequenza cardiaca ogni due ore, anche di notte, e se il battito fosse sceso sotto i 40 avrebbe dovuto chiamare l’ambulanza, cosa che accadde la notte stessa perché avevo una frequenza cardiaca di 30 battiti. Il mio controllo era così prepotente che quando arrivò l’ambulanza mi chiesero se riuscivo a camminare fino alla barella, io non riuscivo ma dissi comunque di sì.

Mi portarono al Pronto Soccorso di Pavia e passai la notte attaccata ad un monitor che suonava incessantemente perché la frequenza cardiaca non saliva, la mattina successiva mi dissero che avrei dovuto mangiare qualcosa, in caso contrario mi avrebbero messo un sondino. Io non potevo, non dovevo mangiare, avrei accettato qualunque cosa pur di non mangiare. Non avevo mai visto un sondino e non mi resi conto che erroneamente mi misero un sondino per la lavanda gastrica. Pesavo 29 chili e loro non si resero neppure conto che era impossibile far passare quella cosa nel mio naso, svenni ma loro riuscirono comunque a metterlo, era come avere una spada che mi trafiggeva, mi faceva malissimo e mi feci un’intera sacca di nutrizione che scendeva lentissima perché ormai il mio stomaco era chiuso. Nessuno si era accorto, neppure in pediatria, che quel sondino non era un sondino da nutrizione. Dopo una settimana mi traferirono a Niguarda dove mi misero un sondino da nutrizione. Durante la malattia credo di averne messi almeno trenta.


Nonostante mi dicessero che se continuavo così avrei perso la vita io non me ne rendevo conto, non mi faceva paura, non mi interessava. Io ero diventata totalmente la malattia, non provavo più alcuna emozione, ero completamente apatica, una sorta di vegetale. Alla morte non ci pensavo proprio perché il mio cervello in quel periodo si era come spento, io ero ancora viva ma dentro ero già morta da un pezzo. Era tutto così irreale, vivevo in un mondo parallelo dove sembrava che io non esistessi, che non esistesse il mio fisico, che non esistesse neppure la morte.

Io non ho mai controllato le calorie degli alimenti per paura di ingrassare, come fanno molte ragazze, io proprio non volevo sentire nulla in bocca, non bevevo neanche. Tutto passava attraverso il sondino, anche i medicinali, perché in quel periodo non riuscivo a concepire che l’essere umano dovesse vivere mangiando, non accettavo di essere dipendente dal cibo. Mangiare per me non serviva a nulla, era solo uno spreco di tempo e di energie. Forse inconsciamente volevo scomparire perchè odiavo a tal punto la mia vita che non la tolleravo più. Vedevo i miei amici che uscivano, si divertivano, andavano in discoteca, mentre io ero ricoverata in un ospedale attaccata ad un sondino: era una vita assurda e forse era meglio che finisse.

Nel 2020 ho avuto il mio ultimo ricovero a Villa Miralago, da lì mi avevano traferito nuovamente in ospedale perché era da un anno che avevo il sondino e non toccavo né cibo né acqua, mi dissero che non sarei potuta rimanere un altro anno col sondino senza fare nulla, senza fare alcun passo avanti nel percorso terapeutico. In ospedale mi misero la nutrizione parenterale, era il periodo Covid e non potevo vedere nessuno, ero completamente isolata, è stato un periodo terrificante.

A quel punto, in un momento di lucidità, mi sono chiesta che cosa mi stavo facendo e decisi di cominciare a mangiare: è stato terribile perché non digerivo nulla, ero abituata col sondino ad avere alimenti pronti da assorbire nello stomaco. Il mio stomaco era in letargo da molto tempo.

Sono uscita dall’ospedale con un peso quasi accettabile di 38 chili e lì c’è stata la svolta.

Il mio cane mi ha aiutato tanto, ho capito che mi amava moltissimo e che senza di me non ce l’avrebbe fatta. Se dovessi venire nuovamente ricoverata sono certa che la mia cagnolina non se ne farebbe una ragione, non riesce a stare lontana da me. Lei mi ha aiutato a trovare la chiave e anche nei momenti in cui sono un po’ a terra, quando vorrei lasciarmi andare, la guardo e mi torna la forza per andare avanti.

Quando ero nella malattia non provavo niente e non mi rendevo neppure conto di far soffrire i miei genitori, con mia sorella è stato un po’ diverso perché lei è stata quella che per prima si è accorta della malattia. Lei ha dimostrato davvero tanta forza, ancora mi chiedo come abbia fatto ad andare avanti e starmi sempre così vicina.

Io anelavo la perfezione, ora mi rendo conto che è qualcosa di irraggiungibile, qualcosa di astratto. La perfezione è ogni essere umano che si accetta per quello che è. Questa malattia mi ha insegnato molte cose, mi ha fatto crescere tantissimo. La malattia mi ha insegnato che le difficoltà vanno affrontate, sono diventata una persona concreta, sicuramente non mi abbatto di fronte alla prima difficoltà perché se ho superato quel periodo posso affrontare tutto.

Nel corso della malattia non ho passato solo momenti brutti, durante i ricoveri ho vissuto anche momenti bellissimi. Ho imparato ad amarmi, lo so che mi vedo ancora tanti difetti, che ci sarà sempre qualcosa che non mi piace, ma ora mi va bene così, ora riesco ad accettarlo.


Oggi con me ho portato Bagheera, la mia pantera fatta all’uncinetto durante il primo ricovero a Niguarda: quando l’ho terminata ho capito che il mio impegno aveva portato qualcosa di bello, è un pezzo della mia storia.

Ho portato anche delle ciabatte apparentemente banali ma che mi hanno accompagnato in ogni mio ricovero, condividendo tutti i chilometri della mia iperattività: forse loro mi conoscono meglio di chiunque altro e alla fine quando ne sono uscita loro sono uscite con me.

Alle ragazze che ancora sono nella malattia vorrei dire, se decidessero di ascoltarmi, che questa malattia mi ha portato solo sofferenza, mi ha fatto perdere tante persone care e gli anni più belli della mia vita. Ho perso sei anni della mia adolescenza, dove potevo permettermi di fare tutte le stupidaggini che si fanno a quell’età. Pensandoci bene, cosa mi ha portato la malattia? Ad avere il fisico che volevo? NO. A potermi mettere il costume senza vergogna? NO, perché mi vergognavo comunque per la mia magrezza, per quelle ossa sporgenti.

Vorrei dire loro che vale la pena vivere, certo la vita non è facile, non ci saranno solo momenti belli ma sicuramente la vita è meglio della malattia. Solo ora ho consapevolezza che stavo vivendo una vita che non era la mia, ripensando a me stessa ammalata di anoressia non riesco a riconoscermi. Mi è capitato di vedere una mia foto di quando avevo il sondino, mi ha impressionato il mio sguardo, quegli occhi vuoti, tristi e assenti. Quella foto mi ha proprio angosciato e mi ha fatto capire quanto sia terribile questa malattia.

A mia sorella vorrei dire che mi dispiace tantissimo averla fatta soffrire perché lei non si meritava tutto questo, meritava di passare i suoi anni del liceo tranquilla senza avere sempre me nei suoi pensieri, le direi che le voglio un gran bene.

Ho partecipato a questo progetto perché vorrei che le persone capissero che “anoressica” non è solo un aggettivo, l’anoressia è una malattia.




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