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Simona Tironi



"...Io credo che la presa in carico debba essere davvero a 360 gradi, non deve riguardare solo il paziente ma anche i familiari e la prima azione che dobbiamo portare avanti è quella di continuare a dire ai genitori che non devono sottovalutare nessun tipo di problema, grande o piccolo, e che esiste la possibilità di ricevere un aiuto..."

 

Sono Simona Tironi Vice Presidente della Commissione Sanità e Politiche Sociali di Regione Lombardia.

Con l’allora assessore Gallera avevamo visitato casualmente la struttura di Villa Miralago. Era uno dei tanti impegni istituzionali sul territorio per verificare come le varie strutture programmavano ed erogavano i servizi di cura. Tutto mi sarei aspettata tranne che vedere da un lato tristezza di queste ragazze, e dall’altro il loro grande coraggio, nonostante le difficoltà immense, nell’affrontare una di malattia così complessa, che segna la vita di ognuna di loro, ed un percorso di cure molto impegnativo. Fino ad oggi non avevo mai avuto esperienze dirette o indirette riguardo questa malattia, quindi fino a quando non ho messo piede in questa struttura conoscevo il problema in maniera superficiale; avevo letto o sentito raccontare qualcosa, non l’avevo mai letto negli occhi chi davvero soffre di un disturbo alimentare.

Quando siamo usciti dalla struttura, ci siamo guardati e ci siamo detti che avremmo dovuto fare qualcosa; perché durante la visita la cosa che più mi aveva colpita è che il direttore sanitario ci aveva detto che avevano 80 ragazzi in lista d’attesa che aspettavano, con le loro famiglie, di essere presi in carico per la cura.


Ho compreso che queste malattie non si possono curare con un intervento chirurgico o con un percorso breve di cura, o semplicemente con una terapia rapida e poi si torna a casa ed è finita, questo è un percorso molto lungo, le liste d’attesa si ampliano velocemente, e questi ragazzi rischiano di morire in attesa che arrivi il loro turno. Mi sono detta che era necessario fare qualcosa.

Mi sono messa al tavolo con un gruppo di esperti, perché ci dicessero cosa manca e cosa serve, cosa si deve cambiare, quali obiettivi si devono e raggiungere e cosa si deve migliorare. Da quel momento ho visitato tutte le altre strutture del nostro territorio, e mi sono sempre più resa conto che serviva un intervento urgente, ma soprattutto si doveva fare qualcosa di concreto. Ho creato questo tavolo di lavoro con i clinici esperti, ma anche con i genitori; perché un aspetto che non dobbiamo assolutamente tralasciare è quello che il genitore vive prima, durante, e anche dopo la malattia. Per me, come mamma di una bambina di cinque anni, non mi vergogno a dire che fino a quel giorno non avevo mai pensato a questi problemi. Poi, quando ho visto questa sofferenza e la difficoltà di queste ragazze a guarire, a cercare un modo per uscirne, senza riuscirci; vederle incatenate da questa malattia, ho passato dei momenti difficili, soprattutto durante il pranzo o la cena con mia figlia, che talvolta non aveva voglia di mangiare o mangiava un pochino meno. Mi tornavano alla mente queste ragazze, le loro storie e la mia preoccupazione aumentava. Queste cose ti segnano e un genitore non le può ignorare.

Io credo che la presa in carico debba essere davvero a 360 gradi, non deve riguardare solo il paziente ma anche i familiari e la prima azione che dobbiamo portare avanti è quella di continuare a dire ai genitori che non devono sottovalutare nessun tipo di problema, grande o piccolo, e che esiste la possibilità di ricevere un aiuto. Non devono provare né vergogna né timore nel cercare aiuto, ma soprattutto devono rivolgersi a professionisti adeguatamente preparati, perché nel campo dei disturbi alimentari c‘è ancora tantissimo da fare e da imparare.

La Legge 2 del 23 febbraio 2021 in un punto specifico prevede un percorso di formazione per i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta, che io definisco le nostre sentinelle sul territorio. Quando un genitore ha un problema la prima figura con cui si rapporta è il medico di base, ed è inaccettabile avere dei medici di base che ancora oggi ti rispondono che i ragazzi sanno come regolarsi, oppure che per una ragazza è normale voler essere magra come una fotomodella, o che voglia semplicemente rincorrere uno certo tipo di stereotipo. Purtroppo esiste ancora il pregiudizio e la vergogna di andare a chiedere aiuto a uno psicologo o allo psichiatra.

Lo scorso maggio ho organizzato un convegno sul disagio giovanile, dove al tavolo ho voluto i nostri massimi esperti, ma anche i nostri giovani e gli adolescenti, sono emerse delle considerazioni e delle riflessioni, che anche gli esperti stessi non avevano preso in considerazione e questo perché forse dobbiamo imparare ad ascoltare maggiormente chi si trova dall’altra parte.

I numeri di cui disponiamo evidenziano che le richieste di aiuto in merito ai DCA sono aumentate del 40%, soprattutto le richieste di ricovero, e questo sottolinea un bisogno che ha raggiunto un livello estremamente elevato e preoccupante. Quando vi è la necessità di un ricovero significa che a monte c’è stato un percorso fallimentare, e non possiamo permetterci di arrivare a quel punto, bisogna intervenire per tempo. A quel convegno avevo fatto un esempio che può sembrare banale ma che nella sua semplicità voleva trasmettere questo concetto: oggi siamo nell’era del digitale e le informazioni corrono più veloci di quanto noi siamo in grado di gestirle, e di conseguenza anche la nostra mentalità deve andare di pari passo con la tecnologia. Se io ho un problema ad un piede vado dall’ortopedico, se ho un problema della mente devo andare dallo psicologo o dallo psichiatra, esattamente con la stessa semplicità e senza nessun problema. Questo alcuni ragazzi ma soprattutto molte famiglie ancora non riescono ad accettarlo, subentra una sorta di vergogna, ma è sbagliato, occorre dare voce ai nostri pensieri e parlare con chi ci può aiutare. Lo psichiatra e lo psicologo non devono essere viste come figure dalle quali “non porto mio figlia perché non è matta”, bisogna modificare questa mentalità legata al passato.

Dobbiamo imparare a lavorare insieme perché abbiamo a disposizione tutte le figure professionali che ci possono aiutare e nella Legge noi prevediamo dei percorsi multidisciplinari, dove tutte le figure interagiscono allo stesso livello, e in base alla tappa del percorso di cura raggiunta dal paziente. Ognuna di queste ragazze è preziosa, bisogna accompagnarla sulla via della guarigione, ma il punto di partenza deve essere proprio un cambio di mentalità.

Per questo motivo noi prevediamo una formazione non solo del medico o a livello sanitario, ma a livello culturale.


Abbiamo previsto un intervento incisivo all’interno delle scuole, la prima cosa che la nostra Legge prevede è una Cabina di Regia che vede al tavolo i componenti e i rappresentanti delle nostre ATS, perché saranno loro che sul territorio dovranno applicare le linee guida, le decisioni che verranno prese in assessorato. E’ molto importante che non ci siano differenze tra le varie Province, perché accade che in una Provincia ci siano più servizi e più professionisti specializzati e formati sul tema e allora questa riesce ad erogare servizi migliori rispetto ad una provincia confinante; invece tutti i cittadini devono avere lo stesso livello di cura.

In Lombardia abbiamo questa fortuna, ma dobbiamo capitalizzarla maggiormente. Al tavolo della Cabina di Regia ci sono i nostri massimi esperti, quelli che lavorano all’interno dei reparti di cura, e non quelli che, con tutto il rispetto, si limitano a scrivere i libri. Partecipano coloro che ogni giorno vivono la difficoltà all’interno degli ospedali e dei centri di cura sul territorio, per dare la risposta migliore a questi ragazzi. Vi partecipano inoltre, e lo ritengo fondamentale, una rappresentanza di genitori di ragazzi che vivono la malattia perché le difficoltà che affrontano a casa, e che devono saper gestire, fa parte del percorso terapeutico di riabilitazione. Per noi la famiglia è fondamentale, non solo quando il ragazzo o la ragazza è minore ma anche quando è maggiorenne, devono sapere cosa succede al loro figlio e come lo possono aiutare una volta che rientra in famiglia, perché la difficoltà maggiore è proprio quella. Quando un ragazzo completa un percorso di cura deve poi tornare nella società, e la prima società che li accoglie è la famiglia. Se questa non sa come approcciarsi per il timore di sbagliare o perché nessuno spiega loro le evoluzioni della malattia, si rischia di fare dei passi indietro invece che anche solo uno in avanti, ma importante.

Al tavolo abbiamo inserito anche l’Ufficio Scolastico Regionale perché l’idea è di partire con una formazione anche sui docenti, i nostri ragazzi passano la maggior parte del loro tempo a scuola ed è importante che i loro insegnanti riconoscano quei campanelli d’allarme, che sono molto importanti per individuare la malattia.

Durante il lockdown c’è stato un’incremento pazzesco dei disturbi alimentari, perché le scuole erano chiuse, dai nonni non si poteva andare, i genitori dovevano comunque lavorare e soprattutto gli adolescenti stavano davanti ad un computer tutto il giorno. Qualche mese fa una mia collaboratrice, con una figlia adolescente, una bravissima ragazza che ha sempre studiato, con amicizie giuste, grazie all’insegnate che l’ha convocata ha scoperto che la ragazza da qualche mese non mangiava, e aveva messo in atto anche atteggiamenti di autolesionismo, cosa di cui la madre, pur essendo molto attenta, lavorando tutto il giorno non si era accorta. Quindi è necessaria una formazione specifica per il corpo docenti.

Spesso è non è semplice riconoscere queste patologie, magari non tanto nel caso dell’anoressia che è fisicamente intuibile, ma nei casi di bulimia talvolta diventa più complesso, perché non è visibile dal punto di vista della trasformazione del corpo. Io frequento spesso il centro di Gussago, che è il nostro Centro Pilota Regionale, lì le ragazze, come in tutti gli altri centri, fanno uno straordinario e difficilissimo lavoro su sé stesse, soprattutto un percorso di consapevolezza, e quando ho presentato la Legge in aula, loro hanno voluto collegarsi perché volevano seguire passo dopo passo quello che era il percorso che stavano vivendo, e questa è stata una cosa straordinaria perché abbiamo fatto questo piccolo pezzetto di lavoro insieme. Loro avevano disegnato per me e Ambra Angiolini una maglietta bellissima, con uno slogan con le parole che più le rappresentavano, sono state straordinarie perché hanno coniato lo slogan “ Qui & Ora”, diamoci una possibilità.

Questo è che ciò dobbiamo fare, i medici dal punto di vista clinico e noi da quello istituzionale, mettere in campo azioni più concrete possibili, per dare una possibilità di vita, forse anche una seconda vita a tutte queste ragazze, e questo deve diventare un punto fermo.


Visitando queste realtà ho imparato che non bisogna dare niente per scontato, che dobbiamo imparare a chiedere aiuto senza vergognarcene mai, in qualsiasi situazione, non solo nel caso dei disturbi alimentari, e che dobbiamo imparare ad ascoltare un po’ di più l’altro.

A volte ci capita nella quotidianità di dare per scontate alcune cose, una vita sempre così veloce ci porta sovente a chiudere un po’ le orecchie e tendiamo spesso ad ascoltare solo noi stessi.

Io penso che questa sia una sfida, queste ragazze non riescono da sole ad uscire da una malattia così, ma se questa sfida la dobbiamo portare avanti insieme dobbiamo tenderci la mano, dobbiamo imparare ad ascoltare, dobbiamo avere consapevolezza delle nostre debolezze e credere che ci sia qualcuno a disposto a darci una mano.

A volte questo aiuto loro non lo vedono nella famiglia, anche se hanno i genitori migliori del mondo, pensano che non riusciranno mai a sostenerli o a capirli, ma in quel momento non c’è solo la famiglia c’è tutto un mondo che è pronto ad aiutarli, però poi gli aiuti concreti dobbiamo fornirli. Dobbiamo intervenire su queste lunghissime liste d’attesa, eliminarle sarebbe un sogno, ma dobbiamo sicuramente fare qualcosa.

Un altro importante passaggio della legge è creare dei reparti a loro dedicati, perché la sensibilità di queste ragazze nel trovarsi in una stanza d’ospedale, con accanto qualcuno che non le può comprendere, o addirittura interpreta questa malattie come un capriccio o con pregiudizio fa sì che non ne traggano alcun giovamento, anzi le mette in maggior difficoltà e in quel momento non viene data la giusta risposta al loro bisogno.

Un’altra cosa sulla quale stiamo intervenendo è proprio sull’équipe, perché questa cosa vale anche per i medici, la dietista piuttosto che lo psicologo devono avere una specializzazione sui disturbi alimentari, perché solo così possono essere d’aiuto al paziente, non tutti gli psicologi, con tutto il rispetto verso questa categoria che svolge un lavoro esemplare, hanno la formazione giusta per confrontarsi con queste patologie e aiutare le ragazze, devono essere proprio équipe formate per rispondere a quel bisogno, ci devono essere dei luoghi a loro dedicati, dove confrontarsi attraverso le loro esperienze. Percorrere questo cammino difficile, con chi ha passato, o sta passando la stessa difficoltà, penso sia importantissimo. Io e Ambra diciamo tante volte alle ragazze, e ci crediamo veramente, riguardo al peso che loro spaventa tantissimo, che ”l’unico peso che conta non è quello che io leggo sulla bilancia ma è il peso dei nostri sentimenti”.





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