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Sofia


...Tutto è iniziato così, con questo senso di inadeguatezza, sentivo la necessità di fare qualcosa per definirmi, per dimostrare che ero in grado di fare qualcosa da sola, ma poi tutto questo “fare da sola” è diventato troppo faticoso..."

 

Sono Sofia e ho 20 anni, sono stata cresciuta come fossi una principessina, i miei genitori non mi avevano mai lasciato entrare nel mondo da sola, mi hanno sempre tenuta per mano e quando è giunto il momento di entrare in quel mondo da sola mi sono sentita senza punti di riferimento. Spesso nel momento in cui mi sento o sono da sola penso di non essere in grado di abitare questo mondo.

Tutto è iniziato così, con questo senso di inadeguatezza, sentivo la necessità di fare qualcosa per definirmi, per dimostrare che ero in grado di fare qualcosa da sola, ma poi tutto questo “fare da sola” è diventato troppo faticoso. A volte mi chiedo come io abbia potuto fare tutto quello che ho fatto.

Quando i miei genitori mi raccontano della mia infanzia e dell’adolescenza dicono che era un piacere portarmi al ristorante, uscire tutti insieme, mentre quando mi sono ammalata tutto è cambiato.

Tutto si è stravolto nel momento in cui mi sono resa conto di non poter controllare nulla, della mia vita e soprattutto quella degli altri, nell’attimo in cui mi sono sentita come una barchetta in mezzo al mare controllata da qualcun altro, dalle onde che altro non erano che l’anoressia.

Il controllo che mi illudevo di avere mi dava molta sicurezza, ci facevo affidamento perché avevo l’impressione di poter fare tutto.



Sono arrivata al punto di non riconoscere più me stessa, avevo la sensazione che dentro di me ci fosse un’altra persona, una persona forte, quella che non ero mai stata perché anche da bambina ero fragilina, un po’ insicura e contavo sempre sull’appoggio degli altri.

Mi sono sempre fidata molto del parere degli altri, forse troppo. Ancora oggi trovo difficoltà a parlare, a raccontare, perché non sono abituata a mostrarmi: è come se provassi un senso di vergogna.

La mia famiglia e i miei amici non mi hanno mai fatto mancare nulla, ma ad un certo punto ho avuto l’impressione di non far parte di qualcosa, di non far parte della famiglia e mi sono autoesclusa. Paradossalmente pensavo di escludermi ancora di più con la malattia ma questo non è accaduto, anzi quest’ultima mi ha catapultato al centro dell’attenzione di chi mi stava attorno. Inizialmente questo mi dava piacere, io sono cresciuta con l’idea di non dover dare nessun problema perché la mia famiglia aveva già un passato abbastanza complicato.Sono figlia di seconde nozze e sono arrivata in un momento in cui mia mamma era in un momento di difficoltà, ma quando sono nata per la mia famiglia è stata una gioia, quindi sono cresciuta con la convinzione di dover portare sempre gioia alla mia famiglia; perciò quando non stavo bene o mi sentivo in difficoltà tacevo loro il mio disagio.

A distanza di anni mi rendo conto che a volte commetto di nuovo questo errore, non per mancanza di fiducia nei loro confronti ma perché temo di deluderli.

Sofia si è sempre adeguta a tutte le situazioni, anche alla malattia. Pensavo di poter convivere per sempre con “questa cosa”, che ancora non riesco a chiamarla per nome, non riesco a chiamarla “anoressia”, ho ancora qualche difficoltà e la chiamo “il mio problema”. Ho fatto grandi passi avanti da quando la consideravo un’amica con la quale stavo bene, ora ho la consapevolezza che c’è Sofia e c’è il problema e questo è molto importante.

La malattia mi sta insegnando a non volere essere perfetta a tutti i costi: la figlia perfetta, la fidanzata perfetta, l’amica perfetta, la paziente perfetta.


Mi è capitato a Villa Miralago di avere lo stesso problema: nel momento in cui io mi affeziono a chi mi è vicino, o a chi mi sta aiutando, diventa quasi automatico che mi venga la paura di sbagliare qualcosa, di fare qualcosa che non mi viene perdonato rischiando di perdere queste persone.

Anche nel momento in cui ho capito che le persone mi volevano bene per quello che ero, con le mie imperfezioni, ho temuto di fare errori che le avrebbe deluse.

La mia malattia ha un’origine antica e questo non lo sapevo finchè non ho iniziato un percorso terapeutico. Mi ha aiutato molto il ricordare episodi del passato, fin dalle scuole elementari. Probabilmente non mi sono mai resa conto di avere un problema quando ero piccola, forse fingevo che andasse tutto bene, passavo oltre dimostrando alla mia famiglia che tutto andava bene, che ero forte che ce l’avrei fatta da sola, ma dentro sapevo che c’era qualcosa che non andava.

Nel 2017 ho perso un’amica carissima, e in quel momento ho preso consapevolezza che tutto quel controllo, l’impegno che avevo impiegato per governare tutto era andato in mille pezzi e mi sono sentita talmente piccola, talmente insignificante che non avevo più voglia di niente. Non avevo voglia di parlare, di ascoltare le persone, non avevo voglia di divertirmi, di ridere e anche di mangiare. Le mie emozioni si erano appiattite; io sono sempre stata molto empatica e sensibile ma in quel momento mi ero come desensibilizzata, non provavo più niente. A volte vivevo attimi di felicità che scomparivano dopo trenta secondi, ritornava il buio senza che io riuscissi a darmi una spiegazione. Solo quando ho iniziato questo percorso di psicoterapia le cose sono un po’ cambiate.

L’amore in tutto questo è un tassello importantissimo, io credo esistano tanti tipi di amore, credo che l’amore genitoriale non possa essere comparato ad un amore fraterno, ad un amore tra amiche o con un compagno. Quando ho capito di essere amata da qualcuno e di non essere io sola ad amare ho iniziato a capire che esisteva un motivo per cercare di tornare a vivere e io dovevo fare qualcosa. Ancora oggi talvolta faccio un po’ fatica ad entrare in questo amore ma so che è quello di cui avevo bisogno, non che prima mi fosse stato negato, probabilmente non sapevo come accoglierlo, come curarlo, come restituirlo.

Sono anni che vivo questo problema dal quale ho imparato tanto, sicuramente il ricovero a Villa Miralago è quello che ha cambiato la mia prospettiva.

Prima sono stata in ospedale due anni ma non mi sono trovata bene perché inizialmente dal punto fisico e mentale non ero molto grave e non mi avevano neppure diagnosticato un disturbo alimentare, ci sono voluti mesi prima di ottenere un ricovero anche solo in day hospital. Non voglio dare giudizi, ma credo che servano dei mezzi in più perché questo disturbo non sempre è evidente dal punto di vista fisico.

Solo quando sono arrivata a pesare veramente poco mi hanno detto che potevo essere ricoverata, ma nel momento in cui mi avevano proposto il sondino io l’ho rifiutato e mia mamma ha trovato la comunità terapeutica di Villa Miralago.

Quando sono giunta a Villa Miralago ero ancora molto legata al mio problema e i primi mesi di ricovero sono stati molto pesanti, ma se ci penso ora ho un ricordo bellissimo della comunità. Credo di non aver mai provato così tanto amore e così tanta tristezza nello stesso luogo e nello stesso momento, perché oltretutto in quel periodo c’è stata anche la pandemia e abbiamo fatto un lungo periodo di isolamento, siamo stati tanto tempo senza vedere la nostra famiglia e questa è stata sicuramente una prova importante. In quel periodo, quando tutto sembrava perduto, tutto sembrava crollare, mi sono aggrappata e mi sono affidata alle persone che mi avevano accolta e accettata sin dall’inizio, parlo delle mie amiche e dell’équipe. Ancora oggi sono in cura in questa struttura e l’idea di dovermi separare mi spaventa un po’ per la ragione di cui parlavo prima. Quando mi sento accolta, quando provo affetto per chi mi è vicino poi faccio fatica a staccarmi da loro, io so di non essere sola ma l’idea della solitudine penso sia un mio problema.

Quando ho iniziato a crescere, a diventare donna, nel momento in cui il mio corpo cambiava ho avvertito il giudizio degli altri. Non tutte le ragazze si sviluppano nello stesso momento e nello stesso modo e io non accettavo di crescere perché sono sempre stata la piccolina di casa e l’idea di crescere, di entrare da sola in un mondo in cui non ero mai entrata mi faceva paura, perchè ho sempre vissuto in una sorta di bolla, protetta. La paura che questa bolla potesse scoppiare perché il mio corpo stava cambiando ha fatto sì che io non lo accettassi più.


Quando ho capito che non potevo più nascondermi dietro alle gambe dei miei familiari perché ero cresciuta, perché Sofia era diventata adulta e doveva essere responsabile, la cosa mi ha destabilizzato. Ancora oggi sto lavorando per conoscermi più a fondo perché ho la sensazione di non conoscere ancora Sofia, credo ci siano dei lati di me che mi sono negata per tanto tempo e che ora vogliono uscire ma la malattia ancora li trattiene. Io non voglio più darmi i limiti che mi sono sempre data ma non è facile, il percorso è lungo. A volte mi sono illusa di poter aggiustare tutto velocemente, quando sono entrata a Villa Miralago ho pensato che in due mesi avrei risolto ogni cosa ma la realtà era ben diversa, ci vuole tempo e pazienza, è un percorso lungo che ti coinvolge completamente.

Adesso sono in una fase di cambiamento. Sono stata dimessa da un anno, l’anno scorso in questo periodo pensavo a cosa avrei fatto, dove sarei stata, e alla fine ci sono arrivata con fatica, superando tante difficoltà, ma ci sono arrivata e sto proseguendo e di questo sono contenta, ma credo che il percorso verso l’accettazione, l’amore per sé stessi sia un percorso ancora più lungo e complesso.

Da quando sono uscita dalla comunità terapeutica molte persone mi hanno chiesto se potevo dare un consiglio o dei suggerimenti alle ragazze che ancora sono nella malattia ma io credo che non ci sia modo di interferire dall’esterno con la malattia. Penso che sia la persona che in quel momento si accorge di non essere più sé stessa, di non essere libera, di essere imprigionata che deve gridare, che deve chiedere aiuto. Non è un consiglio quello che voglio dare, è solo la speranza che chi in questo momento si sente imprigionato riesca a credere che a tutto c’è un rimedio, anche se a volte sembra impossibile: basta affidarsi alle perone giuste e, nel momento in cui ti affidi a loro, fai sentire il tuo grido con la voce e non con il corpo. Una via d’uscita la trovi.

Vorrei ringraziare i miei genitori innanzitutto perché mi hanno dato alla luce e nel momento in cui mi stavo spegnendo loro sono riusciti a riaccendere la mia vita.




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