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Sonia


" Penso che il non sentire di avere un posto nel mondo, di non sapere cosa sarei diventata, l’incognita del lavoro o di un proseguimento degli studi sia stato un terreno fertile per la malattia. Io non sapevo chi ero ma ero consapevole di essere “la malattia”

 

Sono Sonia, ho 26 anni e ho sofferto di anoressia nerovsa. Tutto è iniziato intorno ai 16 anni, in verità non so neppure come. Dopo il primo anno di scuola superiore ho trascorso l’estate facendo più attività fisica del solito e mangiando in modo più sano. Ero dimagrita un po’ e ricordo che quando sono tornata a scuola i compagni si sono complimentati, sembrava che improvvisamente si fossero accorti di me. Questa cosa mi ha un po’ disorientata ma mi ha fatto anche piacere. Da quel momento, più o meno consciamente, ho smesso di mangiare e ho iniziato a perdere peso, sembrava quasi una cosa spontanea. Sentivo meno fame e in questa prima fase sono dimagrita senza esserne consapevole. Poi le persone attorno a me hanno iniziato a farmi notare che forse ero dimagrita un po’ troppo, e da quel momento ho continuato a perdere peso intenzionalmente. Il dimagrimento è diventato un obiettivo e dai 16 anni fino ai 21 c’è stato un periodo di alti e bassi in cui ho gestito la situazione autonomamente. Nessuno si rendeva conto della mia magrezza o di quanto fossi malata, ero riuscita comunque a rimanere normopeso e quindi le persone non notavano questa mia difficoltà.

Finita la maturità ho iniziato a lavorare perché non avevo ancora le idee chiare su quale strada intraprendere o cosa fare della mia vita, e questo era per me frustrante.

A 16 anni sono entrata nel mondo della moda, concorsi di bellezza, eventi, ho fatto la hostess in maniera continuativa dai 17 fino ai 21 anni, svolgendo anche due o tre lavori al giorno. Non ero mai a casa e il tempo per mangiare era poco, ma nessuno si preoccupava del mio dimagrimento, anzi in quell’ambiente forse la magrezza era un valore aggiunto e la cosa via via è andata peggiorando senza che io me ne rendessi conto, perché lavoravo tantissimo e mi sentivo piena di energie.

A quel punto i miei genitori e in particolare mia mamma mi hanno fatto notare la mia eccessiva magrezza, ma io non ammettevo e non accettavo l’idea che ci fosse un problema. Loro cercavano di farmi lavorare un po’ meno ma io rifiutavo, fino a quando una sera durante un evento sono stata malissimo, ho avuto un attacco di panico e sono svenuta, mi sono risvegliata circondata da persone che cercavano di capire cosa fosse successo. Io non riuscivo a capacitarmi, ero consapevole di star male ma ho rifiutato un dolce che mi hanno offerto, non riuscivo proprio a mangiarlo.

Solo in quel momento mi sono resa conto che qualcosa non andava e ho smesso di lavorare. Verso dicembre ho intrapreso un percorso di cura presso l’ospedale Niguarda, dove mi sono presentata con un peso molto basso, ma non ancora in condizioni gravi, per cui mi hanno fissato una visita dal nutrizionista, da fare dopo circa quattro mesi, perché le liste d’attesa erano molto lunghe.

Nel corso degli anni ero riuscita a gestire la malattia, passavo da periodi di anoressia a periodi di abbuffate, avevo anche chiesto aiuto ma non ero stata presa sul serio perché consideravano solo il peso e non si accorgevano delle mia difficoltà e del mio dolore. Mi dicevano che non ero in grado di gestire correttamente l’alimentazione, ma in fondo non si trattava di una tragedia.

Quando a Niguarda mi hanno detto che forse avevo un problema, ho pensato che durante i quattro mesi di attesa della visita non potevo permettermi di aumentare di peso, neppure di un grammo per evitare che ancora una volta non venissi presa in considerazione e non mi aiutassero.

Io volevo invece il loro aiuto, perché ero consapevole di star male. Quando lavoravo qualcosa dovevo pur mangiare, almeno per reggermi in piedi, ma in quel periodo ero a casa tutto il giorno e in quei maledetti quattro mesi ho avuto un declino spaventoso, alla visita nutrizionale avevo un BMI molto basso e mi hanno subito proposto il sondino naso gastrico.

Mia mamma nel frattempo si era informata presso altre strutture specializzate in disturbi alimentari e ho iniziato un percorso terapeutico in day hospital nella comunità “la casa di Bianca”. Era molto difficile, cercavo di impegnarmi, in struttura ero molto ligia, ma la sera quando tornavo a casa la situazione degenerava.

Dopo alcuni mesi, non essendoci stato alcun miglioramento, mi hanno proposto o un ricovero in ospedale o in quella struttura. Non volevo accettare nessuna delle due soluzioni, ho fatto le cose più assurde per evitare di essere ricoverata in comunità. Ho tentato di scappare, ricordo che avevo comprato dei biglietti per Genova, e non so neppure il perché, visto che questa città non mi piace. Poi, quando nessuno me lo ha più imposto, ho scelto autonomamente di provare, pensando che in ogni caso sarei potuta tornare sui miei passi.

Sono rimasta in comunità per circa un anno, ed è stato molto difficile lavorare sul sintomo per far cadere le false certezze che questa malattia offre, perché nel momento in cui ci si sente privi di identità ci si aggrappa alla malattia.


Penso che il non sentire di avere un posto nel mondo, di non sapere cosa sarei diventata, l’incognita del lavoro o di un proseguimento degli studi sia stato un terreno fertile per la malattia. Io non sapevo chi ero ma ero consapevole di essere “la malattia”, così mi sentivo qualcuno. In un certo senso la malattia mi definiva e in quel momento io avevo bisogno di una certezza.

Il rapporto con i miei genitori è sempre stato un po’ altalenante sin dall’infanzia perché i miei si sono separati quando avevo sei anni e mio fratello tre ed è stato traumatico. Per mio papà è stato diffcile comprendere la malattia, non riusciva ad accettarla e questa cosa mi addolorava.

Sentivo invece una profonda vicinanza con mia mamma, forse perché da donna aveva compreso il mio malessere ma, nel momento in cui i sintomi si sono fatti più importanti, lei per me è divenuta un ostacolo. Sentivo di amarla ma anche molta cattiveria nei suoi confronti quando cercava di farmi capire che stavo sbagliando ma non mi dovevo sentire in colpa per come l’avevo trattata.

Al culmine della malattia non ho mai avuto paura di arrivare al limite, di perdere la vita, non mi interessava. Mi erano state fatte visite molto approfondite, dopo una MOC mi è stata diagnosticata un po’ di osteoporosi alle anche e in altre zone, però la situazione non era ancora grave, ricordo di essermi arrabbiata moltissimo con me stessa pensando di non essere riuscita a fare abbastanza per essere più grave. Io non desideravo provare dolore ma facevo di tutto per procurarmelo.

Prima di entrare in comunità ero arrivata al punto che non mi interessava più vivere. Poi è cambiato qualcosa nel momento in cui una ragazza che avevano dimesso all’inizio del mio percorso è morta. Quando era stata dimessa avevo pensato che non sarebbe mai guarita, era abbastanza palese, credevo che sarebbe rimasta così tutta la vita ma non avevo mai messo in conto che si potesse morire di questa malattia, e questo avvenimento mi ha aperto gli occhi.

Dentro di me sapevo che Sonia non era “la malattia”e in comunità procedevo per obiettivi. Sono entrata in comunità dicendo che non volevo vivere, più volte ho pensato di farla finita ma non ne ho mai avuto il coraggio, per cui mi sono detta: “non vorresti vivere ma non hai il coraggio di porre fine alla tua vita.Vuoi vivere tutta la tua vita da schifo come hai fatto fino ad oggi o vuoi provare a vivere diversamente? Tanto sei sempre in tempo a tornare sui tuoi passi, sai bene come si fa”. Inizialmente mi davano un Nutridrink, il mio primo obiettivo era smettere di prenderlo perché mi faceva stare malissimo e ce l’ho messa tutta finchè me l’hanno tolto; lo step successivo era riuscire a stare anche solo un poco in piedi per il puro gusto di fare due passi, perché i primi mesi li ho dovuti trascorrere perennemente seduta. Man mano che il percorso procedeva mi è stato proposto un progetto legato alla scrittura, a me piaceva tanto scrivere e mi avevano detto che se mi fossi impegnata a ridurre l’iperattività mi avrebbero consentito di uscire per frequentare un corso di scrittura creativa, per incanalare la mia energia in qualcosa di costruttivo. Così è stato: sono andata avanti a piccoli passi e pian piano si è riaccesa una scintilla di vita che non credevo potesse ancora esserci. Quando ho iniziato a sperimentare di nuovo, non dico la felicità, ma almeno la serenità, ho capito che questo sentimento valeva molto più di tutto il resto. Nonostante ancora oggi io abbia qualche difficoltà con la dismorfo-fobia, non tornerei mai indietro, perché i sentimenti che si provano quando non si è più schiavi della malattia hanno un valore immenso. Valgono molto di più dell’apatia,che uccide. Questa malattia ti costringe in un circolo vizioso che rende apatici, non si prova più niente, nemmeno per le persone che si amano e, ti fa sentire “amata” solo da lei.

Guarire dall’anoressia è stato difficile e complicato, ed anche lasciare la struttura, perché la comunità aiuta moltissimo, non ci si sente del tutto compresi, ma ci si sente come in una bolla, un paradiso ideale dove si viene protetti.

La vera sfida è fuori. Inizialmente mi sembrava di essere al parco giochi, nel senso che potevo tornare a fare un po’ quello che facevo prima. Non essendo più sotto controllo ero un pò disorientata, passavo da una fase in cui restringevo, diminuivo poi mi riprendevo e avevo voglia di muovermi perchè ero stata ferma per un anno. Però tutti gli strumenti che mi hanno dato in comunità mi sono serviti perché poi sono riuscita a riprendere una vita regolare. Ho iniziato a frequentare gli amici, ad apprezzare la convivialità, ho trovato un lavoro e quindi mi sono sentita appagata e utile.

In tutto questo mi ha aiutato Martin, il mio ragazzo, con il suo amore. Io ero stata fidanzata per cinque anni con una persona che mi è stata accanto quando stavo male, ma nel momento in cui ho iniziato a star bene se ne è andata.

In quel momento non ho pensato che la malattia mi sarebbe servita per tenere al mio fianco questa persona, ho invece maturato la convinzione che forse a questa persona piaceva vedermi debole e che probabilmente una Sonia forte la spaventava. Forse mi sono finalmente resa conto di quanto valessi non dal punto di vista estetico, ma a livello personale, e per molto tempo ho scelto di rimanere da sola fino a quando ho conosciuto Martin ed è cambiato tutto.

Il discorso estetico è ancora un po’ complicato. E’ difficile dire cos’è la bellezza, penso sia tutto quello che non si vede ma che si ha dentro. Ho sempre avuto questo concetto, perché quando stavo male il mio intento non era di essere bella, era un desiderio più profondo che non aveva nulla a che vedere con la bellezza.


Sinceramente non ricordo un momento della mia vita in cui mi sia vista per quella che sono, o come mi vedevano gli altri. Per anni ho fatto l’indossatrice, la fotomodella e se ero lì un motivo c’era, passava un messaggio estetico, però io non mi sono mai vista riconosciuta. Il rapporto col mio corpo non è mai stato d’amore, piuttosto di odio, che col tempo è diventato accettazione e sopportazione. Ora però lo vivo meglio, ho capito che per star bene non devo prestare troppa attenzione al corpo, devo concentrarmi su altro, su quello in cui so di essere forte e su ciò che aumenta la mia autostima. Sicuramente aiuta avere accanto delle persone che ti vogliono bene. Adesso riesco a vedermi come mi vede lui e, attraverso i suoi occhi capisco. In passato ho sempre avuto tantissime perplessità nei confronti di chi mi diceva che ero bellissima o mi riempiva di complimenti, mentre con Martin è diverso, ho una grande fiducia in lui.

Quando mi guardo allo specchio il più delle volte vedo il riflesso delle sofferenze che ho dentro, vedo cose che ho affrontato e interiorizzato ma anche quelle che ancora non sono riuscita a risolvere completamente. Dal punto di vista estetico le cose sono un po’ diverse, quando osservo le mie fotografie, se sono recenti vedo quello che rimanda lo specchio, se le rivedo dopo un po’ di tempo mi vedo in maniera differente. E’una questione particolare, penso che al di là del problema alimentare ci sia un problema di dismorfo-fobia che credo abbia sempre fatto parte di me. Ricordo che la mia tesina delle scuole medie era “sul come ci si vede” cioè quanta distanza ci sia tra il come ci vedono gli altri e come ci vediamo noi, e cosa sia più importante. In quel periodo non avevo ancora manifestato nulla riguardo al sintomo alimentare. L’anno prima avevo fatto un lavoro sugli occhi che si ricollegava a tutte le materie, c’è sempre stato un po’ questo tema.

Quando facevo la modella non ho mai subito pressioni, vivevo serenamente il mio lavoro e quando venivo fotografata non mi vedevo né bella né brutta, guardavo gli scatti e pensavo, qui ci ho messo impegno, qui meno, perché sapevo tutto il lavoro che c’era dietro, da parte del fotografo, dello stylist e del make-up artist. Il lavoro lo vivevo come un piacere perché, non essendo particolarmante alta, non l’ho mai fatto a livelli altissimi, lavoravo con negozi di abiti da sposa o costumi da bagno, attività piccole che avevano a cuore il loro prodotto e avevano a cuore anche me, quindi nessuno si è mai permesso di farmi pressioni, inoltre mia mamma mi era sempre vicina.

Questa malattia mi ha insegnato che la vita è importante e merita di essere vissuta, che le difficoltà si possono superare, ed è possibile vedere le cose ed anche noi stessi in maniera differente. Mi ha permesso di far emergere la vera Sonia, perché per troppo tempo mi sono tenuta dentro le cose belle, pienamente consapevole di possederle ma senza riuscire ad esternarle, sempre molto impaurita dagli altri e dal loro giudizio. Dopo aver affrontato il percorso in comunità ho capito che quella che ero in casa, la Sonia divertente, ironica e sognatrice,potevo esserlo anche nella vita di tutti i giorni. Sono cambiata, ero molto timida ed ora parlo anche con i muri, sapevo di essere così ma non riuscivo ad esternarlo. La malattia mi ha aiutato a conoscermi nel profondo.



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