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Stefania


"...Ero una bambina che non accettava la normalità. Ho vissuto la mia vita pensando di dover essere straordinaria..."


 

Mi chiamo Stefania e vivo a Roma, sono stata ricoverata per 15 mesi a Villa Miralago.

Scrivere fa parte di me, da sempre, e solo con la scrittura riesco ad essere onesta e a riconoscermi. Scrivo molto, con una macchina da scrivere alla quale ho dato un nome: Ermione. E’ un riferimento al panismo dannunziano ne “la pioggia nel pineto”, una metafora per dire che così come l’uomo è un tutt’uno con la natura, io lo sono con la scrittura.

Ero una bambina che non accettava la normalità. Ho vissuto la mia vita pensando di dover essere straordinaria e non perché qualcuno me lo avesse imposto. Tutto ciò che mi girava intorno mi stava stretto, non era abbastanza. Il motivo non lo conosco ancora. Mi sono convinta di essere un'inetta e mi sono crogiolata per anni nel pensiero che fosse normale e legittimo non avere una propensione per la vita. Non sto cercando di rintracciare la genesi del problema. Sono stata per così tanto tempo alla disperata ricerca di un capro espiatorio che non ero in grado di fermarmi e chiedermi "come stai, che succede".

Posso affermare che la scuola non mi ha aiutata. Alle elementari ero la tipica ragazzina paffuttella e suscitavo le attenzioni e le risate non dei miei compagni ma di alcuni miei insegnanti. Durante la merenda mi guardavano, ridevano e chiedevano sempre se io mangiassi tutto. Tornavo a casa mortificata ma non sapevo come raccontarlo, quindi quando a 10 anni mi sono ritrovata per la prima volta da sola nella cucina di casa mia a cucinare della pasta per tutti mi sono detta: “sì, mangio tutto".

Questo è un episodio che ricordo chiaramente ma non è sicuramente l'unico. L'eziologia di un DCA è profonda e complessa e non è mai da imputare ad una sola ragione.

A 14 anni ho tentato per la prima volta di togliermi la vita. Una nottata in pronto soccorso, due colloqui con lo psichiatra, e poi ero di nuovo sola.


Ho coltivato il malessere derivato da quell’episodio per i successivi due anni, con una forma morbosa di autolesionismo. Dico morbosa perché era una cosa che custodivo gelosamente, sceglievo punti strategici affinché quella cosa potesse essere mia e solo mia. In parte lo facevo per distogliere l'attenzione dalle mie emozioni. Procurarsi dolore richiede tempo, e io ho sempre avuto la tendenza a voler RIEMPIRE il tempo. A 16 anni ho tentato ancora una volta di togliermi la vita, ma a distanza di anni posso dire che in quel caso la mia era più che altro una ricerca di attenzioni. Sono cresciuta circondata dall'amore di quattro nonni meravigliosi, eppure non mi bastava.Ho vissuto condizionata dai miei umori per diversi anni, e in base all’umore c'era una risposta del mio corpo. Quindi, ero in continuo cambiamento, sotto tanti punti di vista, e in sostanza non riuscivo a tenere il passo.

Quando mi sono iscritta all'università la situazione è precipitata rapidamente, come sempre in silenzio.Il mio disturbo urlava da tempo ma io avevo imparato a dissimulare, in parte non riconoscendo quello che stava accadendo.Poi c'è stato un momento in cui tutto è stato più evidente.

A 20 anni ho cominciato a soffrire di anoressia e ad un certo punto tutti gli occhi erano puntati su di me. Si tende a pensare che i DCA siano una richiesta esasperata di attenzione ma non è sempre così, non per me almeno.

Io pensavo che il mio corpo, nella sua forma, potesse portarmi dove non riuscivo ad arrivare. A cominciare dagli esami universitari, ai rapporti personali o al semplice fatto di poter liberamente fare l'amore.

Quando quel corpo è stato notato, mi sono arrabbiata con chiunque, con i miei amici e con parte della mia famiglia. Ero arrabbiata perché mi avevano vista solo in quel momento. Come avrebbero potuto vedermi prima?

Un disturbo di questo tipo non cambia solo l'atteggiamento alimentare. È importante che le persone, le famiglie, possano essere in grado di cogliere prima di tutto il cambiamento sociale di una persona, le sue abitudini, la quotidianità. Si tende a giustificare sempre tutto con la crescita, le nuove esperienze e non ci ricordiamo mai di chiedere alle persone se stanno davvero bene.

Io stavo male ed ero arrabbiata. Sono seguiti anni alterni di anoressia e bulimia, fino a quando ho ricominciato ad abbuffarmi.

Quando le abbuffate sono ricominciate, ho fatto un tacito accordo con me stessa: "Ok, non sei capace di toglierti la vita? Portati al limite. Arriverai al punto di farti talmente tanto schifo che ci riuscirai".

Vivevo in un limbo tra la paura di esistere e quella di non esserci più.

Avevo paura della vita, delle responsabilità, delle scelte e così, convinta ancora una volta di controllare quello che mi accadeva, mi sono lasciata andare. Ho abbandonato l'università, ho perso il lavoro, ho allontanato le persone più importanti della mia vita e mi sono letteralmente chiusa in casa. Ho passato 16 mesi chiusa in camera mia e c'erano giorni interi in cui non riuscivo ad alzarmi. Ho vissuto anche nella mia urina; vivevo nel panico, avevo paura, non dormivo e rifiutavo ogni tipo di aiuto.


Ho due sorelle, Letizia ed Emma, che portano il nome delle mie nonne. Per un periodo sono scappata da Letizia pensando che in questo modo il sintomo non mi avrebbe seguita, ma non è stato così. Era l'anno del matrimonio di mia sorella Emma ed io non sentivo nulla. È stato anche motivo di forti discussioni. Tutti pensavano che io non accettassi il fatto di aver preso peso, ma in quel momento io ero presa solo ed esclusivamente dal vuoto. Amo le mie sorelle, vivo della loro gioia eppure non provavo nulla e la situazione non faceva altro che precipitare. In un momento di profonda lucidità, mi sono resa conto che quello che accadeva a me riecheggiava in chi mi era vicino. Vivevamo tutti nel silenzio. Non si parlava CON me, ma DI me. Si era creata una situazione in cui tutti, amici, famiglia, avevano paura di sbagliare e vivevano, anche loro nel silenzio, la preoccupazione concreta per la mia vita.

In quel momento ho scelto villa Miralago.

Appena arrivata, la prima cosa che ho percepito è stato lo scarico delle responsabilità e l'assenza totale di giudizio.

Io sono stata ricoverata per binge eating e, devo essere onesta, appena arrivata mi sentivo un po' speciale. Io, con tutte le etichette che mi ero cucita addosso per anni, disturbo dopo disturbo, fase dopo fase, io che avevo lasciato la mia città, la mia gatta, i miei amici. Era la prima volta che mi confrontavo con la realtà dei disturbi del comportamento alimentare e quello che mi ha colpito è stato incontrare persone ricoverate, lontano da casa, che a casa avevano dovuto lasciare i figli, anche molto piccoli.

Nonostante l'assenza del giudizio, mi sentivo comunque in dovere di giustificare il mio aspetto parlando spesso delle fasi precedenti, come se non volessi ammettere che anche il binge fosse una malattia e volendo a tutti i costi, in modo patologico, rivendicare la mia magrezza.

Vivere con tante persone, dopo un periodo di chiusura così esasperato, mi ha reso difficile aprirmi: non è stato facile parlare di me o del mio disturbo alimentare, era un continuo divagare. La mia équipe ha sempre rispettato pazientemente e con fiducia i miei tempi, fino a quando finalmente ci siamo incontrati.

La parte premimente del mio ricovero è stato l’incontro con Stefania e quando l'ho vista per la prima volta, mi sono chiesta chi fosse realmente e quanto fosse autentica o costruita. Il primo incontro con la “me” più vera non è stato semplice: avevo davanti unapersona cresciuta, che doveva fare i conti una volta e per tutte con le emozioni e le responsabilità.

Il momento di svolta del mio percorso a Miralago è stato a novembre, quando ho perso mia nonna. Lì ho capito che la malattia mi aveva veramente tolto tutto, strappandomi l'ultimo anno che avrei potuto passare con lei: lei che ha riconosciuto il mio dolore prima di tutti, che mi ha cresciuta, cullata e curata. Ero ad un bivio, lasciarmi andare completamente o prendere in mano la mia vita. Ho deciso di prendere in mano la mia vita ed ho avuto la possibilità di farlo perché avevo un percorso alle spalle.

Detesto quando si parla di forza di volontà. Nessuno sceglie volontariamente di essere malato, di vivere nel malessere, nel panico, nella tristezza costante, nella solitudine reale. Grazie al percorso di cura che stavo facendo ho potuto normalizzare la reazione al mio lutto: non era il mio umore che mi governava e guidava verso l'oblio. Ero io, una persona, che soffriva per una perdita.

Mi sembra strano ripercorrere certi momenti se vedo il punto in cui sono oggi.

Piangevo per l'idea che esistesse un domani, adesso invece vivo il domani con la speranza che ci sia sempre una possibilità.

La settimana scorsa suonavo con la mia chitarra una canzone dei Coldplay, "Yellow". La canzone nell'inciso dice "la tua pelle e le tue ossa si sono trasformate in qualcosa di bello, lo sai che ti amo così" e ho pensato a quanto questa pelle, che a volte ancora mi sforzo di detestare, in realtà mi abbia concesso di trascorrere un mese tranquilla da mia sorella, di trascorrere del tempo al mare, di vivere di nuovo il rapporto con i miei amici e di tornare a casa dei miei genitori dopo tre anni e mezzo.

Ho imparato a mettere sulla bilancia i momenti e non il mio corpo.

La musica per me è panacea. Ricordo che anni fa, in un momento di profondo sconforto ascoltavo "Rimmel" di De Gregori e lì ho deciso di attaccare un post it sul muro di camera mia, usando una citazione della canzone che dice "santa voglia di vivere" e trascrivendo in greco il nome di mia nonna che, non a caso, è Letizia.

Ho deciso di farne un piccolo quadretto, per tenerlo sempre con me.

Oggi studio per diventare operatrice socio-sanitaria e sono felice. Prendermi cura delle persone mi rende ciò che sono, ma è stato importante prima imparare a prendermi cura di me stessa.

Vorrei che le persone capissero che è possibile vivere dopo un DCA, che non sarà per sempre un combattimento, ma che ci sarà la vita nella sua completezza, fatta sì di responsabilità, di confronto, ma anche di sigarette fino a tardi con gli amici, di lacrime per una giornata storta e di gioia per una serata trascorsa tutti insieme davanti alla tv.

Sono ancora una persona estremamente emotiva, ma sono IO e adesso di questo sono sicura. È un processo che ha richiesto tempo e cura. Il tempo mi ha fatto paura, sin da quando ero piccola. Non posso governarlo ma posso decidere di viverlo.

Non si è mai trattato di bellezza, di avere un canone particolare. Quel significato di straordinario tanto agognato da bambina, oggi lo ritrovo nella quotidianità, nel poter essere qui a raccontarmi, nel poter prendere un treno, abbracciare i miei amici, qualunque sarà il mio futuro.

La bellezza, invece, credo che sia un posto in cui abitare fino a quando non la si fa propria e non si muove più su scapole esposte o fianchi morbidi.

Spesso mi chiedono come bisogna comportarsi con una persona che soffre di DCA, cosa è giusto dire e cosa è meglio non dire. Non esiste una risposta univoca ma si può scegliere di esserci, di essere presenti nonostante tutto.





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