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Valeria


"Io con l’anoressia volevo dimostrare che Valeria stava davvero male, che Valeria non c’era più perché malata tal punto che di lei non rimaneva più niente. L’anoressia è stato un grido di dolore che nessuno ha udito."


 

Sono Valeria, soffro di anoressia nervosa. Tutto è iniziato a 13 anni, ho cominciato a ridurre la mia alimentazione, mangiavo solo uova sode o frittate, avevo eliminato completamente i carboidrati e in un mese avevo perso sei chili e a ciò si aggiungeva l’autolesionismo. Sono sempre stata molto brava a scuola ma il mio rendimento scolastico era calato drasticamente e i miei insegnanti hanno capito che c’era qualcosa che non andava, ma prima di parlarne con i miei genitori ne hanno discusso con me spronandomi ad impegnarmi maggiormente perché dovevo affrontare gli esami di terza media e loro ritenevano non valesse la pena perdere un anno scolastico. Ho ripreso a mangiare e a studiare, ho recuperato i chili persi e ho superato gli esami con ottimi risultati.

C’è stata una pausa, fino in seconda superiore, poi il disturbo si è ripresentato con il sintomo del vomito, per poi rientrare di nuovo.

In quarta superiore ho ripreso a star male, passavo da diete dimagranti da 1200 calorie giornaliere a momenti di abbuffate.

Ho abbandonato ad un certo punto queste diete, cercando di alimentarmi in modo normale, e ho ripreso i chili persi, ma il primo anno di università è crollato tutto.

Ho scelto di frequentare la facoltà di infermieristica; pranzavo nella mensa dell’ospedale, dove servivano un bis di primi, un secondo e un contorno e a volte anche il dolce, e sono aumentata di peso. Sono andata nel panico ed ho iniziato a fare iperattività e ogni tanto vomitavo. L’iperattività è il mio problema principale, che non ho ancora risolto.



Ho avuto degli alti e bassi, poi la situazione è precipitata e, al terzo anno di università, sono stata ricoverata per la prima volta al san Raffaele, Villa Turro. Ho iniziato anche ad abusare di lassativi al punto che non riuscivo più a reggermi in piedi e, in un momento di panico totale, dopo aver assunto diversi lassativi ho chiamato Villa Miralago.

Nel 2020, dopo aver terminato gli studi, sono entrata in struttura ed ho seguito un percorso durato sette mesi.

Durante la malattia le mie emozioni oscillavano tra momenti di felicità e momenti di tristezza, è stato un periodo caratterizzato da sbalzi di umore molto forti, fasi di depressione che si alternavano a periodi in cui mi sentivo onnipotente, potevo riuscire in tutto, ce l’avrei sempre fatta da sola, perché io non ero malata. Non mi ritenevo mai abbastanza malata per essere curata.

Era cambiato anche il mio atteggiamento nei confronti degli altri, mi ero chiusa in casa a studiare e non mantenevo più rapporti con nessuno. Ora sono single ma ho frequentato un ragazzo per otto anni e mezzo e lui mi è sempre stato vicino, inizialmente non comprendeva la mia malattia e mi incentivava a dimagrire pensando che con qualche chilo in meno mi sarei sentita meglio, poi ha realmente compreso la gravità del significato di “qualche chilo in meno”, dal momento che non vedevo mai un limite alla perdita di peso, era solo un precipitare nell’oblio.

Più perdevo peso e più mi sentivo forte, come se nulla potesse fermarmi e volevo sempre di più; nel frattempo la malattia aveva sostituito tutte le amicizie, era diventata la mia migliore amica: non c’era più nessuno, c’era solo lei che mi dava forza e mi permetteva di andare avanti.

Capire che la malattia non fosse così amica è stato difficilissimo, per comprendere che rischiavo la vita c’è voluto il sondino. Mangiavo solo frutta e verdura fino a non mangiare più nulla del tutto.


Con un sondino naso gastrico, attaccata ad una flebo e ad una pompa che mi alimentava ho compreso che la vita non era quella , che forse c’era un altro modo di vivere. Solo quando mi sono trovata veramente sul filo del rasoio ho capito che c’era ben altro oltre la malattia.

Valeria non esisteva più si era annullata per qualcosa di irraggiungibile, perché non basta mai un chilo in meno, si vuole sempre di più e chilo dopo chilo ci si annulla completamente, allontanandosi dal resto del mondo.

Io mi sono sempre sentita non compresa, non desiderata, non amata e ho tuttora un dolore molto grande, una ferita profonda che non riesce a rimarginarsi. Penso che gli altri questa ferita non l’abbiano mai vista e io con l’anoressia volevo dimostrare che Valeria stava davvero male, che Valeria non c’era più perché malata tal punto che di lei non rimaneva più niente. L’anoressia è stato un grido di dolore che nessuno ha udito.


Sicuramente la morte di mia nonna nel 2012 è stato un grande dolore per me. Lei mi ha cresciuto perché i miei genitori lavoravano e facevano molti straordinari, per me e mio fratello, e non c’erano quasi mai. Loro non mi hanno fatto mai mancare nulla, avevo tutto: la piscina, il pianoforte, la ginnastica artistica, il karate. Avevo tutto tranne l’essenziale, mancava la loro presenza, mancava l’amore e queste cose erano colmate dall’amore della nonna, il mio punto di riferimento per tutto.

Quando la nonna se n’è andata questo punto di riferimento è venuto a mancare, è una ferita che sanguina tuttora, un dolore che non ho ancora elaborato perché è molto difficile.

Quella fame che io sento in realtà è fame d’amore , di emozioni, di sentimenti. E’ fame di qualcuno disposto ad amarti per quella che sei e non per quella che vorresti essere o che fingi di essere.

Io credo che la malattia sia solo finzione, è trovarsi imprigionata in un corpo effimero, un corpo di bambina, senza ciclo mestruale, senza seno, pelle e ossa, con le clavicole sporgenti, con le costole decisamente visibili. Passi le tue giornate a contare le tue ossa e le calorie che ingerisci ed è tutto un inganno, non c’è nulla di vero, perché quella non può considerarsi vita. La vita è un’altra cosa.

Entrare in una comunità terapeutica è stato difficile, il mio percorso è stato costellato da alti e bassi.

Quando sono arrivata mi sentivo un sacchetto da riempire, mi sentivo obbligata a mangiare mentre io volevo toccare il fondo e loro non me lo permettevano. Volevo dimagrire ancora di più ma in comunità non mi è stato concesso, volevo arrivare a tutti i costi ad avere il sondino naso gastrico ma a Villa Miralago non è stato possibile.

Quando sono uscita dalla comunità stavo bene ma dopo due mesi la malattia ha bussato di nuovo prepotentemente alla mia porta, ho perso più di 12 chili e a quel punto mi hanno ricoverata in un reparto di medicina con il sondino e successivamente in un’altra struttura, dove ho trascorso due mesi e mezzo sempre col sondino perché non riuscivo più ad alimentarmi autonomamente.

Avevamo concordato un piano alimentare che contenesse il minimo indispensabile per permettermi di stare in piedi durante il giorno, e di notte la nutrizione enterale.

A Villa Miralago invece mi facevano assumere integratori perché io psicologicamente non riuscivo a tollerare il cibo solido ed è stato difficile anche accettare quegli integratori, io li “buttavo giù” solo perché dovevo farlo, per ingerire almeno quelle calorie indispensabili a tenermi in vita.

Utilizzare il cibo per distruggersi è la cosa più facile, perché il cibo è essenziale per la vita ma quando si vuole morire per raggiungere quella figura che manca, che se n’è andata, ci si priva proprio di ciò che ti tiene in vita.


Penso che per riuscire ad amare Valeria ci sia ancora molto su cui lavorare, mi rendo conto che non la amo ancora, mi riesce difficile raggiungere la parte essenziale di Valeria, la vedo ancora molto lontana, non riesco a capirla, a comprenderla, a prenderla per mano. Vivo ancora in quel corpo di bambina, mi peso ogni giorno e mi fa ancora paura vedere il numero della bilancia che sale, pur con la consapevolezza che per uscire da quel corpo di bambina questo numero deve salire.

C’è sempre questa battaglia con me stessa, vorrei restare in quel corpo da bambina ma sono cosciente che quel corpo non ti permette di vivere quella vita che merita di essere vissuta. Un adulto intrappolato in un corpo di bambino non può vivere, si perdono tutte le emozioni che si potrebbero vivere in un corpo da adulta.

Ho 24 anni e vorrei davvero cominciare a vivere perché con la malattia mi sono persa troppo, le feste, le serate, le pizze e il sushi con gli amici, l’amore, gli abbracci.

Per me un abbraccio è l’incontro di due anime che si cercano e si trovano per uno scambio d’amore reciproco.

Ci sono stati momenti in cui rifiutavo l’idea che qualcuno toccasse il mio corpo, non riuscivo a far sì che una persona entrasse in contatto con Valeria e soprattutto con il suo corpo.

A Villa Miralago ho lavorato tanto su questo e la psicomotricità mi ha aiutata moltissimo. Mi hanno dato la possibilità di esplorare me stessa, gli altri e me stessa a contatto con gli altri. Lasciarmi andare con gli altri mi ha aiutata anche a distaccarmi da quella amica che mi intrappolava in quel corpo da bambina.

Ora Valeria deve essere più forte, ci vuole tempo e pazienza ma è necessario abbandonare colei che ha sempre mentito fingendosi amica.

Vorrei dire a coloro che ancora si fanno soggiogare dalla malattia che non vale la pena di perdere tutti quei chili per poi doverli necessariamente riprendere, perchè non puoi vivere in un corpo completamente sfatto dalla malattia. Vorrei dire che ci sono tante emozioni da vivere, anche fare l’amore, entrare in contatto con un altro corpo, viverlo, goderlo e godere anche del proprio corpo. La malattia ti priva di queste emozioni intense, di cui nessuno dovrebbe privarsi.

C’è una vita che va ben oltre la malattia e se devi chiedere aiuto devi imparare a non usare il corpo, devi usare la voce, la parola, devi gridarlo perché non vale la pena rovinarsi la vita che è il bene più prezioso.

Ho portato con me un libro di Mandala perchè durante il primo ricovero al San Raffaele ho imparato a colorare, e non avrei mai immaginato o preso in considerazione di curarmi attraverso l’arte.

Dedicarsi del tempo usando i colori, esprimersi attraverso il disegno penso sia una cosa utilissima anche per combattere le ansie.

Ho portato anche una pigotta che posseggo da quando sono nata, è stato il mio regalo di benvenuta al mondo e rappresenta il mio corpo di bambina che ho ricercato e ho voluto mantenere attraverso l’anoressia, ma ormai è necessario liberarsene.

Ho con me anche un diario perché la scrittura è una cosa che mi ha sempre accompagnato, mi ha permesso di esternare le emozioni e i miei stati d’animo e di connettermi con quella bambina interiore che la malattia vuole zittire, quella bambina che ha voglia di giocare, che vuole vivere e mettersi in gioco. Attraverso la scrittura quella bambina gioiosa la si riscopre, la si fa rivivere perché in fondo è ciò che ci rappresenta.




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