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Yuri Melis

Aggiornamento: 2 gen 2022


"...ci sono pazienti che arrivano con dei valori ematochimici che sono incompatibili con la vita e quindi ci si domanda “cos’è che li sta sostenendo ancora?” Perché non è più il cibo, forse è quella sensazione immaginaria di onnipotenza di cui parlano, perché quando tu sfidi la morte, per assurdo senti una spinta così forte, così potente che ti permette di essere addirittura superiore alla morte, elevarsi a qualcosa di superiore, o meglio, qualcosa senza peso, privo di responsabilità, privo di scelta, senza vita. Il peso della vita è qualcosa di complesso e alle volte difficile da maneggiare."


 

Sono Yuri Melis, referente dell’area di ricerca clinica a Villa Miralago.

Ho una formazione un po’ particolare, diversificata, perché ho una laurea triennale in filosofia, una magistrale in neuroscienze, una laurea in psicologia clinica e una formazione che prosegue nella psicoterapia psicoanalitica.

Quello che cerco di portare avanti in questo contesto è proprio la ricerca, andare a individuare e trovare quelle variabili che incidono nello sviluppo e nel mantenimento dei disturbi alimentari, sia nelle fasi di cura, del ricovero, che nei momenti del dopo ricovero. Abbiamo fatto alcuni lavori che ci permettono di identificare quei pattern, quelle variabili, che possono condizionare lo sviluppo, il mantenimento, la cronicizzazione e a volte portare anche alla morte.

Quando una persona decide di occuparsi dei disturbi alimentari, dovrebbe primariamente acquisire un importante bagaglio culturale e clinico-teorico, perché quando poi si inserisce nella clinica si scontra con un reale che non è più quello della teoria, quello riportati sui testi, perché la teoria non riesce a prevedere tutto e questo reale alle volte sembra inspiegabile dalle teorie. Non riesce ad inquadrare tutti i fattori che contribuiscono a tali patologie. Questa è stata una di quelle ipotesi forti che sono emerse nella mia esperienza a Villa Miralago. Avere contatto con i pazienti e poter studiare tutte le variabili che vengono elaborate, mi ha permesso di comprendere che c’è ancora molto di sconosciuto e che non comprendiamo ancora molte cose, e questo mi dà la spinta per continuare ad indagare, a scavare nelle profondità di ogni variabili e, però avendo sempre in mente, di non aver la pretesa di trovare la cura miracolosa, perché semplicemente non esiste, come in qualsiasi patologia e soprattutto nelle patologie della mente.


Io sono a contatto con le ragazze quando facciamo delle ipotesi di ricerca clinica e durante i momenti più generali della vita comunitaria; si tratta per lo più di indagini che interessano gli aspetti psichici, dove dobbiamo valutare tutte le variabili inerenti all’aspetto psichico, personologico, sintomatologico e poi anche quello antropometrico e metabolico. Chiaramente noi cerchiamo di unire questi due mondi, il soma e la psiche, non guardando solo il numero del BMI, del peso o del sodio, o del potassio, ma cerchiamo di unire le variabili psicologiche e fisiologiche. Sappiamo, quanto questi due fattori debbano andare di pari passo per comprendere meglio il disturbo, ma soprattutto, per aiutare la singola persona: perché è vero che esistono le classificazioni (anoressia, bulimia, binge eating, ARFID, pica e mille altre cose), ma dietro ciascuna diagnosi, c’è una persona, un soggetto, dei legami, degli affetti.

Quando sono entrato in questo contesto, come qualsiasi persona che si occupa di disturbi alimentari, all’inizio ho pensato di poter trovare “un qualcosa” per aiutare; poi col tempo ti rendi conto di quanto questi disturbi siano invalidanti, divoranti, e quindi non si tratta di esserne all’altezza o meno, o di cercare di salvare, o di trovare la formula magica. Molti professionisti a volte pensano unicamente al peso al kilogrammo, ma l’invalidazione generata è totalizzante, soprattutto i legami e gli affetti sono totalmente deteriorati e disfunzionali. Io mi concentro molto sulla percezione e le dinamiche degli affetti e delle relazioni, che vengono sfilacciati e distrutti da questi disturbi; affetti e relazioni sono probabilmente una delle cose che fanno ammalare, ma anche, aspetti attraverso i quali possa agire il dispositivo della cura. E’ solo questione di tempo per trovare i fili giusti da tirare e soprattutto sostenere il soggetto a sgarbugliare quelle matasse che si sono formate nella propria narrazione della vita.

Costruire una relazione con gli ospiti della comunità è una questione molto permeante e complessa; ecco che si rivela l’importanza della comunità come cornice simbolica dove il soggetto possa trovarsi ed appartenere. Un percorso multidisciplinare, è un percorso che implica più relazioni: non è più solo un intervento “uno a uno”, si mette in campo una relazione diversificata e non più simbiotica. Nei disturbi alimentari vi è il classico paradigma della disfunzionalità della relazione diadica materno-figliale; il trattamento che cerchiamo di proporre va un po’ a destabilizzare quella relazione dell’ “uno a uno”: qui si introduco non solo il terzo, ma il quarto e il quinto attore, perché se si introduce solo il terzo diventa unicamente un triangolo e comprendiamo, quanto possano essere pericolose le triangolazioni.

Dal mio punto di vista, diciamo più scientifico, la terapia multidisciplinare è sicuramente una delle migliori chiavi di cura. La maggior parte dei report scientifici sui DCA, non solamente italiani, evidenziano quanto la multidisciplinarietà, il sapere diversificato, sia fondamentale nella cura intensiva e anche in quella nel post ricovero. E’ lo stesso discorso che facevo prima: se ti guardo solo dal punto di vista del peso, perdo di vista il soggetto, nella sua interezza che ha tutto un passato, con tantissime variabili che lo hanno portato ad essere quello che è adesso e anche la sua patologia. Non si può trattare una persona solamente da una singola visione: più occhi possono portare uno sguardo differente, quello stesso sguardo differente dei curanti, permette al soggetto di svincolarsi dalle precedente dinamiche relazionali, e quasi sicuramente, il soggetto quando vorrà, potrà permettersi di assimilare quegli sguardi per potersene creare uno proprio, con il quale possa vedere l’altro, conoscerlo e non esserne più in balia.


Questa comunità mi ha dato sicuramente la possibilità di capire maggiormente quali spinte soggiaciono all’esistenza umana. Freud ci ha indicato la pulsione di vita e la pulsione di morte come moti generatori e nel disturbo alimentare c’è la vividezza della presentificazione totalizzante della pulsione di morte. Quando pensiamo alla vita che nasce pensiamo a una direzione futura, alle cose che vanno avanti, che procedono attraverso delle tappe. Invece, il disturbo alimentare ti pone davanti la fine della vita, ti pone davanti l’incomprensibilità della morte; quella fine viene ricercata attivamente, senza tregua, attraverso una spinta che è quella della morte, dell’azzeramento. Il grande enigma è come sia possibile l’inversione della rotta: “ma cos’è che spinge, cos’è che permette ad un soggetto di annientare qualsiasi cosa per porsi nelle mani della morte e non più nelle mani della vita?”.Ormai sappiamo tutti, che le ragazze e i ragazzi, affette da tali disturbi sono tutti più giovani esordiscono principalmente in età pre-puberale o prima adolescenza; quindi, come mai in un’età così fertile da ogni punto di vista, si interrompe qualcosa e invertono la rotta? Cos’è che genera questa pressione ? Succede all’uomo in generale? Alla razza umana? Può essere la moda? Il sistema capitalistico? Ci sono tanti fattori e ci tengo a dire che non ci sono soluzioni magiche a questi disturbi, se non la propria decisione e la domanda di invertire quella rotta.

Nel disturbo alimentare torniamo sempre alla domanda del bisogno, un bisogno basilare; noi curanti dobbiamo riuscire ad elevare quella domanda, a far comprendere, a innestare, che chi soffre di un DCA possa essere qualcuno che possa desiderare qualcos’altro, un desiderio che non è quello di avere una macchina o un oggetto in particolare, ma un desiderio interno che generi domanda. E’ il desiderio della vita che spinge, come il magma del vulcano, non nella direzione della morte ma nella direzione della vita stessa. E’ lì che si gioca la partita, perché finchè non viene interiorizzata quella parte, noi possiamo provare qualsiasi terapia farmacologica, tecnica innovativa, ma non sarà efficace se non nel breve termine. Noi cerchiamo di aiutare queste ragazze e ragazzi a trovare la propria strada, perché non possiamo imporre niente, noi dobbiamo accomodare la domanda di cura e il desiderio di curarsi e anche la responsabilità di prendere in mano la propria vita. Il grosso scalino, se non la montagna, è quello della responsabilità, di essere sé stessi i portatori del proprio desiderio interiore, e non vivere per il desiderio dei propri genitori, della famiglia, della scuola, degli amici e tutte queste cose.

Queste ragazze mi hanno fatto capire tante cose dal punto di vista teorico, ma, mi hanno anche dato tanto sostegno nel continuare a ricercare qualcosa che effettivamente ancora non c’è, e io non so se arriveremo un giorno a dire: “la cura per i disturbi alimentari è questa, o il disturbo alimentare è questa cosa qua ”, perché il DCA si declina soggetto per soggetto. La questione che ho compreso è guardare il soggetto in quanto tale, in quanto singolarità nell’esistenza. Allo stesso tempo mi relaziono con le ragazze perché sento che qui dentro c’è il clima di comunità e la mia parte è quella del tentare di sostenere, quanto è in mio compito, una possibilità che quella scintilla che hanno dentro che alle volte si dimenticano di avere, attraverso la parola, un sorriso, un sostengo o dei piccoli gesti, possa innescare l’accensione a quella luce che tanto bramano, ma non riesco ad individuare. Anche nel momento in cui possono avere delle crisi è lì che devi cercare quella scintilla per rinnovarla.

Quando si arriva a quel punto paradossale dove il corpo non mostra più la vita: il corpo dell’ anoressia, o anche della bulimia e del BED, è quello che ti dimostra quanto l’essere umano sia un condensato di energie che lo possano portare a scomparire ad annichilirsi; ma è vero anche il contrario, perché quel corpo è un qualcosa che domanda, domanda di riconoscere qualcosa, e allora, è necessario trovare la singolarità di ognuno e soprattutto permettergli di riconoscersi come soggetti per poter ripartire.

Loro non hanno paura della morte, la oltrepassano, la direzione è quella e lo vediamo, quei corpi mettono a dura prova anche la scienza; ci sono pazienti che arrivano con dei valori ematochimici che sono incompatibili con la vita e quindi ci si domanda “cos’è che li sta sostenendo ancora?” Perché non è più il cibo, forse è quella sensazione immaginaria di onnipotenza di cui parlano, perché quando tu sfidi la morte, per assurdo senti una spinta così forte, così potente che ti permette di essere addirittura superiore alla morte, elevarsi a qualcosa di superiore, o meglio, qualcosa senza peso, privo responsabilità, privo di scelta, senza vita. Il peso della vita è qualcosa di complesso e alle volte difficile da maneggiare.

Mi è capitato di essere presente o di intervenire in casi di profonda angoscia, in quel momento si percepisce che quel soggetto è come se fosse totalmente indifeso nei confronti di quelle pulsioni, di quest’energia così autodistruttiva che non c’è niente che la possa arginare. L’unica cosa che lo può far sentire vivo è il dolore, la disperazione e questo è un ulteriore paradosso che mette in crisi il concetto di “normalità”. L’appagamento più grande in quel momento per loro è il dolore: per noi è una cosa assurda pensare che il miglior appagamento sia il dolore. Probabilmente per loro la domanda è invertita, la domanda è puntata più verso la sofferenza, qualcosa che segni, che lasci una traccia sia fisica che mentale. Questo si ricollega alla questione delle relazioni, probabilmente, in quel caso la dinamica relazionale ha una polarizzazione si posizione su qualcosa di così intollerabile, che per quella persona sarebbe insostenibile sapere quanto le relazioni che ha avuto nella sua vita siano state così distruttive; quindi il dolore e l’angoscia diviene un simulacro di quelle relazioni, che però assume la forma di una ripetizione senza sosta, un cortocircuito che genera un incendio di sofferenza costante. Sappiamo quanto queste ripetizioni poi diventino i sintomi che riscontriamo come: l’iperattività, le condotte compensative ecc ecc. Questo loop infinito si riverbera su molte sfere della vita, e alle volte è impensabile uscirne, se non c’è qualcuno che ti aiuta ad interrompere quelle ripetizioni.

A volte mi capita di pensare di volermi occupare di altre ricerche al di fuori dell’ambito dei DCA: è inevitabile perché è un lavoro molto pesante, abbiamo visto molti professionisti venire qui e dopo poco andare via, perché qui è tutto “troppo e troppo forte”. Qui sei a contatto con quel che è incomprensibile, è inutile negarlo, la questione della potenza e incomprensibilità della morte che ti investe è qualcosa che noi umani non riusciamo a spiegare e a tollerare. Infatti abbiamo tanti metodi per modulare l’incomprensibilità della morte, soprattutto, quando vediamo che ci sono delle giovani persone così decise ad andare in quella direzione. Quindi la paura è forte ed è umana, ed è meglio averne un pò, forse chi decide di lavorare in questo ambito o come in ogni professione di cura è spinto da una domanda che si cela nei sotterranei della propria persona. Una domanda o scelta professionale che però, si deve dimenticare di voler salvare tutti. Quello che consiglio a tutti i curanti, che siano medici di base, infermieri, psicologi, educatori o altri professionisti, è fare un lavoro su sé stessi dal punto di vista psicoanalitico o psicoterapeutico che si voglia. Un lavoro su sé stessi è quella scelta che ti permette di non aggrovigliarsi e di non farti aggrovigliare, non tanto da quello che succede, ma dalle tue emozioni, dai tuoi vissuti che chiaramente vengono sollecitati davanti a tutto questo. Se non fai un lavoro su te stesso, che tu lo voglia o meno, che si veda o non si veda, la risposta c’è ed è anche potenzialmente pericolosa.






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