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Ilaria


" Ci sono stati dei momenti davvero difficili, forse sul momento non lo volevo realizzare ma alcune volte mi sono sentita in bilico, perchè capivo che sarebbe bastato un attimo e lei poteva sparire."

 

Sono Ilaria, la sorella di Roberta che ormai è paziente di Villa Miralago da oltre un anno.

E’ stato un periodo difficile, complesso, che ci ha fatto mettere in discussione tante dinamiche sia come famiglia che come persone, ma ci ha dato anche l’opportunità di imparare cose nuove, modi nuovi di relazionarci tra di noi e con noi stessi.

Io mi sono sentita in colpa per essermi allontanata troppo dalla mia famiglia e da mia sorella in particolare, per essere stata poco presente. Ma, grazie al fatto che io ero già in terapia per altri miei problemi, la mia terapista mi ha fatto riconoscere che staccarmi è stato un bene, sia per me stessa che per i miei genitori, perché in quel momento non ero nelle condizioni di affrontare la situazione e avrei fatto star peggio tutti se fossi rimasta con loro.

Non è stato semplice affrontare quotidianamente questo senso di colpa, ma poi ho capito che forse non ero stata poi così assente, perché ho dato tutto ciò che ero in grado di dare.

Ho messo in contatto Roberta con il reparto di psichiatria del Sacco, dove è stata ricoverata una prima volta, ed anche quando ha avuto una ricaduta molto pesante ho preso di nuovo in mano la situazione, perchè mentre mia sorella mi diceva di aspettare e i miei genitori tergiversavano, io mi ero resa conto che non era una situazione gestibile a casa.

A volte mi sono sentita in difetto per essere la persona ”privilegiata” della famiglia perché mi sono potuta permettere il lusso di fare un passo indietro, mentre per i miei genitori non è stato possibile. Ho dovuto imparare a relazionarmi con loro e con me stessa in modalità differenti, perché questa malattia mi ha fatto riflettere sul fatto che io e Roberta siamo accomunate dall’idea di poter controllare tutto, di credere che il benessere delle persone a cui teniamo dipenda da noi, ma ho capito che non è così, che io non ho la bacchetta magica per far star bene mia sorella, anche se lo vorrei; e la cosa migliore che potevo fare in quel momento era non aggiungere ulteriore stress facendo vedere che stavo male anch’io. Ho fatto un passo indietro, ho iniziato a stare meglio e sono riuscita in questo modo ad essere maggiormente d’aiuto, perché le volte in cui sono intervenuta, o quando ho avuto modo di passare del tempo con lei, mi sono sentita in grado di affrontare la situazione.

I disturbi alimentari non li conoscevo a fondo, ricordo che quando ero alle scuole superiori ci avevano parlato di varie forme di disagio nei giovani, un percorso sulle droghe, l’anoressia e la bulimia, ci avevano fatto vedere uno spettacolo teatrale e un film al riguardo, per cui avevo un’idea del fatto che si va oltre al “ voglio essere come la top model, magrissima e bellissima”; però finchè non ci cadi dentro come paziente o come familiare non hai idea di cos’è davvero. Sapevo che questo disagio non era esclusivamente legato all’aspetto fisico, ci sono molti aspetti psicologici che rendono difficile la loro elaborazione, sia per il paziente che per i familiari. Ma non pensavo che potesse avere un impatto così devastante sulle persone intorno, perché è tutta la famiglia che ne risente.

Quando vedi che tua sorella si fa del male provi un forte senso di impotenza e di paura: nel periodo in cui ha esternato maggiormente il suo carattere mi sono resa conto che su tanti aspetti, non molto funzionali, ci assomigliamo molto, sul controllo e sul fatto di pretendere la perfezione da noi stesse, e ho pensato che potevo esserci io al posto suo, oppure potevamo essere tutte due in questa situazione e questa cosa mi ha spaventata tanto.

Ho cercato di dirle le cose che pensavo mi sarebbero state d’aiuto se fossi stata nelle sue stesse condizioni, talvolta sono stata dura con lei. Ricordo l’ultima volta che è venuta a casa e diceva che faceva fatica a mantenere gli impegni, che aveva bisogno di qualcuno che le dicesse cosa doveva fare e quindi era più facile rimanere in struttura perché lì ha un programma e un orario scandito e io le ho detto “Robi noi possiamo darti una mano a ricordarti gli impegni ma deve partire da te lo stimolo per fare le cose, non possono essere gli altri a dirti fai questo, fai quello. Se vuoi tornare a essere una persona adulta, funzionale e indipendente devi metterci del tuo, io un aiuto te lo do, ma fino ad un certo punto, non sarò la tua stampella per sempre, devi imparare ad arrangiarti”.



La situazione di Roberta è particolare perché lei è una ragazza trans, quindi all’inizio del 2019 quando ha fatto coming out con me il nostro rapporto è cambiato, perché ovviamente prima mi rapportavo con lei come ad un fratello, invece poi abbiamo avuto molti più punti di contatto. Uscivamo insieme, la accompagnavo a cercare i vestiti ed era bello perché vedevo che stava definendo il suo stile, finalmente poteva esprimersi, mi faceva piacere e mi sentivo onorata di esser parte di quel momento in cui lei cercava il modo giusto di realizzarsi. Ci eravamo avvicinate tanto, mi piaceva passare del tempo con lei, farle dei regali, mi ha fatto anche scoprire la passione per il trucco perché io non mi truccavo, poi accompagnandola in profumeria ho iniziato anch’io ad interessarmi ai cosmetici.

Nel periodo da gennaio a luglio sentivo che ci stavamo unendo molto più di quanto non lo fossimo state fino a quel momento, poi abbiamo iniziato ad allontanarci, io non capivo cosa stava succedendo, pensavo fosse colpa mia perché a luglio ero andata a vivere da sola e poi a convivere, e ho temuto di aver sbagliato perché forse aveva bisogno di sentirmi più vicina. Lentamente ho percepito che la stavo perdendo e che ero dispiaciuta del fatto che non riuscivamo più ad avere il rapporto di prima. Ho pensato che ci fosse rimasta male, io non mi rendevo conto in quel momento che stava soffrendo così tanto, forse non vedendola spesso per via dei miei turni di lavoro piuttosto impegnativi, o forse per via dei suoi mille impegni, studiava, lavorava ed era difficile incontrarsi.

Mi sono resa conto del suo malessere profondo poco prima di Natale e ho pensato che nei sei mesi precedenti ero stata cieca,

perché non mi ero resa conto che mia sorella si era ridotta ad uno scheletro e neppure dei danni che si era fatta con gli atti di autolesionismo, non ho visto nulla ed è stata dura, non ero stata in grado di vedere alcun segnale.

Poi pian piano lo si elabora il senso di colpa, ci si convice di non aver avuto gli strumenti per capire cosa stava succedendo e a quel punto l’unica cosa che si può fare è andare avanti, è inutile continuare ad addossarsi le colpe, non avrebbe aiutato me e soprattutto lei.

Rendermi conto della reale situazione è stato sconvolgente. In quel periodo ero molto stressata per il lavoro e i miei ricordi sono un po’ sfocati, però rammento che i miei genitori, una sera mi telefonarono dicendomi che erano in stazione a Milano a prendere mia sorella che si era sentita male a causa di una crisi di panico. Io non capivo di cosa stessero parlando, non mi rendevo conto. In quel periodo talvolta i miei genitori mi mettevano al corrente di ciò che accadeva omettendo dei particolari, forse per tutelarmi, ma per me era peggio quando poi venivo a conoscenza di quanto realmente era successo. Se mi dici che mia sorella ha avuto una crisi ed è stata male io penso ad un collasso emotivo simile a quello che era già avvenuto in precedenza, ma quando scopri che ha le braccia completamente coperte di fasciature per le ferite e le ustioni e te l’hanno tenuto nascosto per un mese; per me è stato due volte più doloroso, è stato bruttissimo. Mi rendo conto che loro lo facevano in buona fede, ma era frustrante da vivere questa situazione. Spesso ho pensato di dover tornare a casa per aiutare loro, per aiutare Roberta, poi mi sono resa conto che ho fatto bene ad andare dritta per la mia strada e continuare a vivere da sola e poi con il mio fidanzato perché anch’io non stavo bene in quel momento e se fossi tornata a casa avrei fatto del male a tutti quanti.

Ci sono stati dei momenti davvero difficili, forse sul momento non lo volevo realizzare ma alcune volte mi sono sentita in bilico, perchè capivo che sarebbe bastato un attimo e lei poteva sparire.

Questa cosa l’hanno rimarcata tante volte anche i medici che l’hanno seguita all’ospedale Sacco.

Per i mei problemi di depressione io sono in contatto con il primario e spesso mi ricorda che con Roberta siamo arrivati veramente ad un passo dal non averla più con noi.

Per me è stato difficile anche dire ai mei che io conoscevo qualcuno che potesse aiutare Robi, i miei sapevano che ero in cura da una psicoterapeuta da qualche anno, avevo chiesto a loro di venire a parlare con lei perché era da parecchio tempo che mi diceva che avrei avuto bisogno di un aiuto farmacologico e aveva esposto la situazione anche ai miei genitori, loro erano contrari alla cosa perché avevano quell’idea molto stereotipata che esiste ancora sugli psicofarmaci, sul fatto che ti rimbambiscono. Quando ho deciso che avrei fatto di testa mia, l’ho fatto di nascosto da loro, per cui non sapevano che era ormai un anno che io prendevo dei farmaci, non si erano resi conto di niente, solo del fatto che io stavo meglio, pensavano che fosse dovuto solo alla psicoterapia.

In quel momento ero consapevole di dover dare una delusione ai miei genitori dicendogli che avevo mentito, ma era era l’unica cosa che in quel momento potevo offrire a mia sorella. Ero molto combattuta perché io avevo sempre cercato di dare l’immagine della figlia perfetta, anche a costo di star male, sempre brava a scuola, sempre ubbidiente, volevo renderli orgogliosi di me e questo lo faceva anche Roberta. Ammettere che avevo fatto una cosa che loro non condividevano non è stato facile, ma in quel momento la paura di perdere Roberta era più forte, avevo il desiderio di aiutarla in qualche modo e mi sono fatta avanti dicendo che potevo sentire questa persona che avrebbe potuto fare qualcosa per lei. Avevo tanta paura di perderla e anche tanta rabbia verso i miei genitori che non mi hanno parlato fin da subito delle lesioni, delle ustioni, della magrezza che lei mascherava coi vestiti. Io e mia sorella abbiamo il viso un po’ lungo, non quel viso tondo che vedi subito se si svuota, quindi per me non è stato così facile capire, soprattutto perché quando la vedevo ero di corsa e distratta da mille impegni perchè stavo imparando a vivere da sola. Ti chiedi come hai fatto a non accorgerti di tutto questo, forse qualche segnale non ho voluto vederlo perchè in quel momento non ce la facevo proprio.

Forse i fratelli sono quelli che soffrono maggiormente, ma io sono stata fortunata perché ero maggiorenne, avevo un lavoro e la possibilità di andare a vivere da sola, immagino un fratello o una sorella minore che deve per forza rimanere in casa ad assistere a determinate cose senza comprenderne la ragione. Io ero in una situazione privilegiata rispetto a tanti fratelli e a tanti genitori, perché un fratello può dire “mi stacco un attimo”, ma per un genitore è impossibile perché si tratta di tuo figlio, di tua figlia e c’è l’amore viscerale che si prova per loro e a volte anche le aspettative esterne. Per un fratello è più facile, si sente anche un pò giustificato dall’esterno, ti dicono che nonostante tutto tu devi farti la tua vita.

Il giudizio nei confronti di queste malattie pesa tanto perché c’è ancora molta superficialità e ignoranza, l’anoressia e la bulimia vengono ancora viste come il tentativo di essere magre, di essere belle, è facile ricondurre tutto a esempi sbagliati offerti ai giovani. Mentre la persona gravemente obesa viene giudicata come una persona pigra, che non si allena, che non vuole fare una dieta, senza riflettere, senza pensare che questi disturbi sono la manifestazione di altro.

Questi sono pensieri che al primo impatto possono venire, poi però è necessario fare quel passo in più, comprendere che tu non sai cosa sta vivendo quella persona, non conosci quali sono le sue difficoltà, i motivi per cui ha iniziato a star così male o quali sono le cose che si sono aggiunte dopo l’inizio della malattia che non le permettono di uscirne.

C’è ancora pochissima consapevolezza al riguardo e questo è anche il motivo per cui ho voluto partecipare a questo progetto che a dire il vero un po’ mi spaventava poi ho pensato che se poteva aiutare qualcuno, anche soltanto un’altra sorella a capire cosa stava accadendo, a comprendere le dinamiche della malattia, ne sarebbe valsa la pena.

La malattia di mia sorella mi ha fatto considerare diversamente il cibo, ci ho pensato perché a me piace mangiare, sono una buona forchetta, sono una persona che quando è di cattivo umore cerca il sacchetto di patatine per tirarsi su e mi sono chiesta come si fa a vedere il cibo come il proprio nemico, ancora non riesco a capirlo, non riesco ad entrare in quell’ottica. Un’altra cosa che ho imparato in questo periodo è chiedere sempre a Roberta il permesso di darle un abbraccio, di farle una carezza, perché penso che una persona con un disagio così forte attraversi dei momenti in cui non vuole che qualcuno le faccia sentire il suo corpo o che la tocchi, quindi ho iniziato a chiederle “ti va un abbraccio?” oppure “posso farti una carezza?” a volte è brutto sentirsi rispondere di no perché tu vorresti manifestare il tuo affetto in quel modo e allora impari a farlo in altre maniere, magari anziché abbracciarla le fai una carezza sul dorso della mano, ripetti il suo spazio e impari a rapportarti con lei in maniera diversa.

Se Roberta fosse qui le direi ciò che le ho già detto tante volte, che io sono orgogliosa di lei, che penso stia facendo un percorso strepitoso e che ha la forza di uscirne, deve soltanto credere un pochino più in sé stessa perchè questo è un altro difetto che condividiamo: autostima zero.

Le direi che quando vorrà io ci sarò sempre se avrà bisogno, anche solo per andare a fare una passeggiata, per andare a fare shopping, per piangere o per sfogarsi.




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